Houses Of The Holy dei Led Zeppelin fu certamente un disco coraggioso. Quinto album dopo i primi quattro omonimi, indicati solamente con numeri progressivi, suonò da subito come una pausa dal blues rock che fino a quel momento aveva fatto detonare pezzi come Whole Lotta Love, Black Dog, Good Times Bad Times e tutto ciò che ci viene in mente quando nominiamo i Led Zeppelin. Con Houses Of The Holy le cose andarono diversamente: nel 1973 la scena stava già cambiando. Funk e reggae iniziavano a farsi strada, e anche il pop aveva acquisito nuove sfumature. Erano gli anni successivi al traumatico scioglimento dei Beatles, il blues era diventato quasi scontato e non più esclusivo. C’era bisogno di qualcosa di nuovo.
Plant, Jones, Page e Bonham avevano tante cose per la testa, stressati certamente dopo la pubblicazione frenetica di quattro album ma allo stesso tempo attenti al mondo, con tanta voglia di sperimentare. A questa loro curiosità dobbiamo le perle contenute in Houses Of The Holy, un titolo destinato inizialmente a un brano che invece avrebbe fatto parte di Physical Graffiti (1975).
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Ma come suonava il disco? “Strano”, questa la parola usata da molti dopo il primo ascolto. Parere, questo, di un pubblico comprensibilmente disorientato dopo il rock di The Song Remains The Same che subito dopo si ritrovò con l’intensa The Rain Song. Le sorprese non erano finite: The Crunge era una bomba funk, ma la vera chicca fu D’yer Mak’er. Chitarre in levare, batteria essenziale e linea vocale accattivante. In una parola, reggae.
Il tocco di classe fu No Quarter, un trip di 7 minuti con un piano elettrico capace di indurre chiunque in ipnosi e un riff viscerale di Jimmy Page che ancora oggi suona come un tuffo in un mondo colorato e acido. Proprio come Houses Of The Holy dei Led Zeppelin.