Perfect Days, la poesia delle piccole cose non riscatta il cinema di Wim Wenders

Il ritorno del venerato regista tedesco nell’amato Giappone, applaudito da critica e pubblico, in realtà non si discosta molto dalla sua tipica ricetta degli ultimi decenni, fondata su di una visione semplicistica e rasserenata dell’esistenza

Perfect Days

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Qualche tempo fa, in occasione della tardiva uscita italiana nel 2019 di Submergence, l’allora suo ultimo film di finzione, mi chiedevo perché i critici avessero smesso di parlare dell’un tempo amatissimo Wim Wenders. La mia diagnosi fu che le sue ultime opere – e Submergence è davvero un bignami del suo peggio – fossero talmente al di sotto della sua fama e del suo antico talento che, per evitare il doloroso imbarazzo di stroncare un venerato maestro, si preferì glissare e passare oltre, per non guastarsi la memoria dei road movie capolavoro intrisi di cinefilia degli anni Settanta (Alice nelle Città, Nel Corso del Tempo), o dei melodrammi colti e pensosi degli Ottanta (i film d’autore globali Paris, Texas e Il Cielo Sopra Berlino).

La quaresima del critico e del pubblico wendersiano però è ufficialmente terminata: grazie a Perfect Days, uscito in questi giorni nei cinema italiani e passato nel 2023 in concorso al Festival di Cannes tra il plauso degli addetti ai lavori, insignito di un meritato premio al miglior attore, il quieto, magnetico Koji Yakusho. Perfect Days è stato accolto da recensioni entusiastiche, e persino da un inatteso ritorno del pubblico in sala, che nel box office un po’ asfittico di questi pigri giorni postnatalizi lo ha issato al podio della classifica, accarezzando ormai il milione di euro d’incasso (se non sembra tantissimo, si pensi che Submergence non arrivò a cinquantamila euro).

Wim Wenders insomma è tornato, o almeno così pare. Grazie a un’opera che tematicamente s’accorda alla saggezza della sua età – nato nel 1945 è quasi ottuagenario –, guidato da uno sguardo irenico sulla realtà di cui osserva meditabondo gli interstizi, per svelare a un mondo distratto veloce e frenetico la bellezza struggente delle piccole cose, i miracoli invisibili del quotidiano, l’importanza della lentezza e dell’accettazione. E per far questo imbocca l’unica direzione possibile: abbandona lo scenario convulso delle metropoli occidentali trovando questi valori, ancora sorprendentemente intoccati e riconoscibili, nell’amato Giappone (che è quello del nume tutelare cinefilo Yasujirō Ozu, cui nel 1985 dedicò un sentito documentario, Tokyo-Ga).

In Perfect Days, scritto a quattro mani da Wenders e Takuma Takasaki, il protagonista Koji Yakusho è Hirayama, che vive a Tokyo un’esistenza semplice e modesta, incardinata su di una routine placida e lineare. Sveglia al mattino presto, ascoltando sempre il rumore di una donna che spazza la strada, colazione frugale con un caffè preso al distributore, un sorriso accennato rivolto sulla soglia della porta di casa alla luce del mattino e poi via, ascoltando in auto un’audiocassetta, verso il suo lavoro di addetto alle pulizie dei bagni pubblici – dei “piccoli santuari di pace e dignità”, come ha detto il regista, ben diversi dall’idea che possiamo averne noi occidentali.

Hirayama svolge il suo mestiere con meticolosità devota, e una pudicizia commovente nei confronti degli utenti, nutrito della religiosità del lavoro ben fatto, fiducioso che un gesto minimale come quello della pulizia di una toilette s’intrecci al macrocosmo dell’esistenza, proiettandosi su di un ordine più vasto, contribuendo con discrezione a modellare l’equilibrio perfetto del tutto. La vita del protagonista è scandita dall’iterazione dei medesimi gesti – su cui indugia la messinscena di Wenders, che non teme la lentezza, la noia apparente di stesse situazioni continuamente ripetute –, i quali svelano, per noi occidentali tecnostimolati, una tonificante e misteriosa musica dell’esistenza, in cui acquista senso e valore che un uomo abbracci un albero (“Quell’albero è mio amico”) o si fotografi ogni giorno una porzione di cielo.

Interviene qualche sussulto a rompere la liscia omogeneità delle sue giornate: a un certo punto a casa di Hirayama piomba sua nipote, scappata di casa, e da qui veniamo a scoprire che la sorella del protagonista è una donna facoltosa, il che rivela allo spettatore le origini di Hirayama e suggerisce qualcosa circa le sue scelte improntate all’assoluto minimalismo esistenziale. Oppure c’è l’incontro con un uomo malato terminale di tumore, con cui Hirayama improvvisa un gioco imperniato sulla sovrapposizione delle ombre, per scoprire se, una sull’altra, diventino più scure.

Ciò forse suggerisce che l’equilibrio apparentemente inscalfibile del protagonista sia invece una conquista fragile e impermanente, sempre a rischio di franare. Un nichilismo sotterraneo abita la superficie liscia e ovattata di Perfect Days, che traspare in certe affermazioni improvvisamente sconsolate del protagonista – “è così che si finisce di vivere, senza sapere nulla” – oppure nei suoi sogni notturni in bianco e nero – realizzati da Donata Wenders, moglie del regista –, in cui emerge il ritorno di un non acquietato rimosso. Questa dialettica raggiunge l’acme nella sequenza in cui, in un lunghissimo primo piano, passano sul volto di Hirayama tutte le emozioni possibili, dolore gioia tristezza serenità malinconia, impastate in un indefinito sentimento complessivo dentro il quale alberga forse, a comprenderlo, l’autentico significato dell’esistenza.

Però a nostro avviso, questa intensa profondità di sguardo sul senso della vita è più da ascrivere al talento del protagonista, mirabilmente parco di gesti e parole, che alla scrittura di Wenders, che resta alla superficie delle cose, atteggiata a una forma di misticismo embrionale e di maniera, in cui pare di scorgere una prolissità (le due ore di durata pesano in un’opera che ruota interamente intorno al concetto di ripetizione) e una retorica dello stesso conio dei troppo celebrati capolavori degli anni Ottanta, in cui l’affermazione “un’altra volta è un’altra volta, adesso è adesso” di Perfect Days corrisponde al “quando il bambino era bambino” de Il Cielo Sopra Berlino (come sottolinea acutamente Marco Belpoliti, Hirayama può essere una versione aggiornata e laica degli angeli che decidono di incarnarsi in uomini di quel film).

Lascia perplesso poi lo sguardo nutrito di consumi culturali occidentali di Perfect Days: Hirayama legge Faulkner e Patricia Highsmith (l’unica nipponica è Aya Koda), e ascolta una colonna sonora Sessanta-Settanta esageratamente modaiola, dal Lou Reed di Perfect Days e Pale Blue Eyes ai Kinks di Sunny Afternoon, Van Morrison (Brown Eyed Girl) e Feeling Good di Nina Simone, in cui il solo brano in giapponese è bizzarramente una cover di The House of the Rising Sun degli Animals. E c’è anche un’aria di elementare passatismo: il giovane collega di Hirayama svolge male il suo lavoro perché è sempre attaccato al cellulare, mentre il protagonista, più saggio, ascolta solo antiquate musicassette e fotografa rigorosamente su pellicola. Per non parlare del formato del film, nel vecchio e cinefilo 4:3 di una volta.

Come se, insomma, la soluzione per risolvere l’impazzimento del mondo fosse a portata di mano, bastando, metaforicamente, abbandonare il digitale e tornare all’analogico, e limitarsi come un Candide volterriano alla coltivazione di un orticello, lasciando fuori tutto il resto. Una ricetta tranquillizzante ma interamente teorica, che potrà acquietare per un attimo le nostre ansie da ceto medio riflessivo, che da decenni costituisce il pubblico tipo di Wenders, da lui abbondantemente alimentato a base di non indimenticabili documentari su Pina Bausch, Salgado o papa Francesco e scorribande musicali tra Portogallo (i Madredeus di Lisbon Story) e Cuba (Buena Vista Social Club). Tutte cose a suo tempo immancabilmente entrate nei nostri consumi culturali: senza però cambiarci la vita. Temiamo accadrà lo stesso con la (a noi occidentali tragicamente estranea) religione delle piccole cose veicolata da questo nuovo viaggio a Tokyo (e lasciamo stare Ozu, il cui viaggio a Tokyo era di sapore ben più amaro).

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