Verso la fine degli anni ’80 il rock era impomatato dal glam, e già era in atto una guerra tra i veterani reduci dagli anni ’70 e la nuova onda estetica detonata a Los Angeles. Un esempio è quella dichiarazione di Steve Harris degli Iron Maiden sulla corrente “bella e non più dannata” che vedeva giovani musicisti cotonati mostrare le corna, sorridere, truccarsi e indossare divise attillate. “È happy metal“, aveva tuonato Harris con un certo disgusto, ragionando sul fatto che l’heavy metal stava perdendo il suo retaggio e aveva ceduto il posto alle facciate del gossip dato in pasto agli adolescenti urlanti.
Bene, se da una parte i Mötley Crüe erano forse il cuore più pulsante dell’hair metal anni ’80, dall’altra i Guns N’ Roses stavano per esplodere come un brufolo carico di provocazione punk e spirito rock’n’roll. Axl Rose era l’anima inquieta accompagnata dal sodale Slash: nel loro bagaglio c’erano riff più accurati e rozzi, l’estetica glam ma non troppo e soprattutto un significante più violento del rock.
Quello che mediaticamente si riassume in “partenza col botto” c’è tutto: Welcome To The Jungle, un groove che sprizza adrenalina da tutti i pori, il racconto frenetico del caos della megalopoli e il riff che ti si pianta in testa come un chiodo, ma il disco è anche quello di Sweet Child O’ Mine che è nata quasi per scherzo, My Michelle e Paradise City. Ingredienti sufficienti per sfondare la lista radiofonica e imporsi come ultima realtà archetipica degli anni ’80, che finiranno di lì a poco dopo aver metabolizzato quella nuova onda fatta di capelli al vento e dannazione, quella bella e vera.
Nei fatti, oggi Appetite For Destruction dei Guns N’ Roses è la pietra miliare che ha resuscitato gli anni ’80 da un suono fatto di marchette e immagini.