Un padre, una figlia, premio per la regia al festival di Cannes, segna un’ulteriore maturazione nella carriera di Cristian Mungiu. E il film ruota proprio intorno all’esame di maturità (il titolo originale è Bacalaureat) che la studentessa modello Eliza (Maria Drăguș) sta per sostenere. Sulla ragazza ha riposto le speranze il padre medico Romeo (Adrian Titieni), che per lei sogna un futuro in Inghilterra, dove l’aspetta una borsa di studio, legata però all’ottenimento del massimo dei voti.
Il giorno prima degli esami Eliza subisce un’aggressione che la sconvolge. Affronta la prova, ma comprensibilmente l’esito è inferiore alle attese. Il padre quindi cerca una soluzione. Cioè aggirare quelle regole su cui si è fondata l’intera educazione della ragazza. Il film è tutto in questo lento, progressivo slittamento dai princìpi sempre professati verso i compromessi della vita reale. Ma, ed è qui la grandezza di Un padre, una figlia, Cristian Mungiu non compone un racconto moralistico d’una riprovevole discesa agli inferi, ma disegna personaggi credibili, feriti e umanissimi che, come avrebbe detto Jean Renoir ne La regola del gioco, posseggono ognuno le proprie, anche discutibili, ragioni.
Romeo non è un mostro, ma un uomo normale, con fragilità e colpevolezze, che cerca di dare un senso alla propria esistenza. Dopo la caduta del regime di Ceaușescu, ha creduto di potere partecipare insieme alla moglie alla ricostruzione della Romania. Ma le aspettative sono andate deluse, come il rapporto con la moglie, che tradisce con un’altra donna. L’unica cosa che gli è restata cui aggrapparsi è il progetto di emancipazione della figlia. Non perché non creda più nei valori: “I nostri princìpi restano validi – dice a Eliza – ma non qui in Romania”. Un punto di vista che può ritenersi semplicemente ipocrita solo per chi non viva un’autentica condizione di disagio.
Quella di Un padre, una figlia, come in altri film di Mungiu, è ancora una Romania in bilico, un paese che può istigare un comprensibile desiderio di fuga e che costringe a venire a patti con se stessi. La persona cui il medico chiede aiuto, poi, è un vecchio politicante traffichino: ma non è un mefistofelico burattinaio, bensì un uomo malato, persino sentimentale, che nonostante aiuti Romeo, si sente in dovere di pagargli l’intervento che il chirurgo dovrà praticargli.
Il regista traduce questo approccio dubitativo alla realtà in uno stile che non sovrappone lo sguardo dell’autore alle vicende. Ci sono i piani sequenza e i pedinamenti con camera a mano tipici di Mungiu, ma quasi dissimulati, con un approccio piano e oggettivo, al servizio della storia e non dello stile. Un padre, una figlia è un bellissimo film. Non plaude al compromesso, tutt’altro, ma registra sconsolato uno stato di fatto, in un contesto che non offre nette linee di separazione tra bene e male. Mungiu non ha risposte preconfezionate, né finali inequivocabili da servire allo spettatore. Gli racconta una storia che ne stimola l’intelligenza, spingendolo a porsi delle domande. E si esce dalla sala chiedendosi: “Cosa avrei fatto al suo posto?”.