Blade Runner, il film-mito di Ridley Scott che ha riscritto l’immaginario della fantascienza

Partendo da Philip Dick, nel 1982 Scott scolpisce un’opera leggendaria, un noir apocalittico e filosofico già sintonizzato sugli interrogativi del terzo millennio. All’epoca fu un flop, oggi è un cult. Stasera in tv alle 21 su Iris

Blade Runner

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Ha ragione Gianni Volpi, nel suo insostituibile I Mille Film, nel ricordare che “Blade Runner è un film-mito”, un caposaldo che costituisce anche una riflessione sullo “stato attuale dei linguaggi” cinematografici, partendo dall’innesto di due generi apparentemente estranei, il noir anni Quaranta e il fantasy, compressi dentro un’avveniristica messinscena fantascientifica la quale, immaginando un’opprimente Los Angeles meticcia e globale del 2019, prefigura un disperante futuro apocalittico.

In un “racconto alla Hammett” (sempre Volpi), si muove un protagonista alla Bogart, il Rick Deckard di Harrison Ford (Rick appunto, come Bogart in Casablanca), “solitario, amaro, dalla morale ambigua”, che come da prontuario noir non s’illude più di poter incidere sulle cose e sulla sua esistenza, arreso a un destino ineluttabile al quale cerca di adattarsi muovendosi ai margini del mondo più che al suo centro.

Malgrado tutto, però, viene trascinato al centro della scena, richiamato a fare quello che sa far meglio, ossia stanare ed eliminare i replicanti della generazione Nexus 6 progettati dalla Tyrrell Corporation, vertiginosa evoluzione dei tradizionali robot, talmente sofisticati da essere indistinguibili da un essere umano. E però, come nei miti prometeici, le macchine pensate per servire l’uomo si sono evolute fino al punto da decidere di ribellarsi all’uomo, per punirlo della creazione imperfetta (sono costruiti per avere una durata di vita predefinita, solo quattro anni) e dell’assoggettamento cui sono obbligati, come schiavi.

Gli illusori ricordi innestati nelle loro memorie sintetiche, di un passato che non hanno realmente vissuto, certificano la loro natura ibrida ed evoluta, macchine capaci di assaporare sentimenti, desideri, paure, insieme all’anelito di libertà. Naturalmente, siamo in un noir, non può mancare una femme fatale, la Rachel (Sean Young) che smuove il disincanto dell’eroe rimescolandone il sangue. Per quanto di sangue ce ne sia poco, visto che la donna è anch’essa un androide. E forse lo stesso Deckard non è esattamente chi crede di essere.

Blade Runner di Ridley Scott, tratto da Il Cacciatore di Androidi di Philip Dick, è ormai un’opera della quale è quasi impossibile parlare, tali e tante sono le leggende e le storie sedimentate sul film, le letture critiche tese a stanarne significati reconditi, i rimuginii filosofici intorno a questioni capitali quali memoria, tempo, identità, la morte come orizzonte inaggirabile dell’esistere. Lo stesso film, in un continuo e ingarbugliato ripiegamento su di sé, è tornato ripetutamente a riflettere sulla sua forma, con tre diverse versioni: quella del 1982; il Director’s Cut del 1993, più breve e fedele alla volontà del regista, che elimina il commento off (una fascinosa marca tipicamente noir) ed esclude il posticcio lieto fine voluto dalla produzione e realizzato con gli scarti dello Shining di Kubrick (“Ho parlato con Stanley un po’ di volte. E gli ho detto: ‘So che hai girato per Shining ore di riprese dallelicottero. Posso averne un po’?’ Il giorno dopo avevo 17 ore di panoramiche”); un The Final Cut del 2007 con l’aggiunta di dettagli soprattutto violenti.

Ad arricchire ancor più il testo, e inevitabilmente a riplasmarne retroattivamente il senso, s’aggiunge pure il notevole seguito di Denis Villeneuve, Blade Runner 2049, insieme postilla fedele all’originale (nella costruzione di un immaginario visivo monumentale e nelle aspirazioni filosofiche), e opera completamente autonoma. Qualcosa insomma a metà tra il sequel e il remake, di un film che nelle sue diverse versioni funziona già come un remake, o un replicante, di sé stesso.

Resta, Blade Runner, come l’inaggirabile riferimento iconografico dell’intero cinema fantascientifico a venire, con la sua fattura da incubo distopico e cyberpunk, nell’affastellamento edilizio di una megalopoli asfissiante piena di schermi e oppressa da una meteorologia demoralizzante (la pioggia che poi batterà anche la Tokio del successivo Black Rain, sempre di Scott). E incide, quest’opera, grazie soprattutto all’insospettabile malinconia, la saggezza introspettiva che lampeggia, dietro le esplosioni di violenza rabbiosa, nello sguardo del replicante Roy (interpretato da un affascinante Rutger Hauer, che ruba letteralmente la scena a Ford), il leader dei replicanti ribelli cui tocca di ricordare agli umani – ormai dimentichi delle loro prerogative, vittime di loro stesse, supinamente adattatesi a un’alienata pseudo-vita, quella sì robotica (tema su cui Matrix aggiungerà precise postille) – l’enorme privilegio dell’essere umani, seppur confinati nei limiti angusti e angoscianti di un’esistenza temporalmente circoscritta.

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