Guardiani della Galassia Vol. 3, un James Gunn in versione annacquata

Il capitolo conclusivo del ciclo è diretto col freno a mano tirato. Spiegoni, scene madri lacrimevoli, prevedibili elogi della diversità. Un cinema didascalico per spettatori pigri. Per vedere il vero Gunn meglio tornare al suo Suicide Squad

Guardiani della Galassia Vol. 3

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Guardiani della Galassia Vol. 3 chiude in tono di commiato la trilogia cominciata nel 2014, quando James Gunn venne chiamato a dare man forte al progetto Marvel, ritagliandosi all’interno del vasto affresco del Marvel Cinematic Universe un piccolo ciclo semi-indipendente e un po’ clandestino, sempre attento a congiungersi al filo della continuità narrativa delle vicende del ciclo maggiore, conservando però un carattere e uno stile autonomi, più brillanti e scanzonati.

Nessuno più adatto a un’operazione simile di Gunn, che s’è fatto le ossa nella produzione indipendente della Troma, lavorando a b-movie eclettici e citazionisti, pieni di infrazioni narrative e con la sola regola dell’ibridazione continua dei generi. Una formula che, nei limiti del possibile, ha trasportato dentro l’ingombrante universo Marvel-Disney, puntando su un gruppo di (anti)eroi difettosi e imperfetti, e per questo immediatamente più simpatici e “umani” della media dei supereroi. Anche se poi tra di loro ci sono personaggi che, a prima vista, sono quanto di più lontano dall’umano: un procione geneticamente modificato irritabile e chiacchierone oppure, all’opposto, un tronco d’albero vivente in grado di dire solo una frase, “Io sono Groot” (che però ha infiniti significati, dato che, Gunn lo sa, in fondo tutto dipende dal tono).

Il primo episodio dei Guardiani della Galassia fu un successo che convinse anche la critica, accolto positivamente giusta la sua orgogliosa diversità. Anche se poi le traversie – il momentaneo licenziamento del regista dopo il secondo episodio, poi rientrato, per il solito riaffiorare di vecchi tweet imbarazzanti – lo hanno spinto ad accasarsi presso altri lidi, e cioè i DC Studios, più lesti a offrirgli un ruolo di direzione creativa, assunto nel tardo 2022 dopo aver già offerto l’anno prima, nel 2021, un assaggio della sua idea di cinecomic, dirigendo The Suicide Squad – Missione Suicida, un capitolo che grazie al mix di ironia e horror conditi di graffi di satira politica alla John Carpenter aveva ridato vita al boccheggiante ciclo di avventure dei reietti metaumani, reduce dal passo falso del prototipo di David Ayer del 2016.

Volendo si può partire proprio da qui, da una paragone tra la Suicide Squad secondo Gunn e i suoi (probabilmente fino a un certo punto), Guardiani della Galassia specialmente di questo episodio 3, per comprendere quanto la pachidermica macchina Marvel-Disney renda molto più difficile un’autentica autonomia espressiva, obbligatoriamente chiusa dentro i complicati meccanismi narrativi e produttivi dell’MCU che, in particolare dopo l’apogeo di Avengers: Endgame, hanno gravato e stanno gravando come un insostenibile fardello sulla Fase IV e adesso V del ciclo, sempre più incolori.

Tematicamente Suicide Squad e Guardiani s’assomigliano. Al centro ci sono sempre personaggi fuori dagli schemi, solitari e con trascorsi claudicanti, i quali grazie alla forza del gruppo – la famiglia surrogata – ritrovano la stima di sé stessi dando vita a vicende che suonano come panegirici della diversità di soggetti solo apparentemente “mostruosi”, e anzi tanto più belli quanto più orgogliosamente lontani dalla normalità. La differenza, ancora una volta, la fa il tono. Perché in The Suicide Squad Gunn è sembrato più libero di imporre integralmente la sua cifra, accumulando scorrettezze, volgarità, violenza sopra la media, confezionando un’opera ad alto budget che conserva lo spirito del filmaccio di serie b.

In casa Marvel, e anche in questo conclusivo Guardiani della Galassia Vol. 3, vige un principio di omogeneizzazione e sterilizzazione: nel quale da un lato corre l’obbligo di ripulire lo stile, evitando grossolanità e trovate autenticamente sopra le righe. Dall’altro ogni dettaglio del racconto – dialoghi, dinamiche relazionali tra i personaggi, musiche (sempre più pervasive e caratterizzanti) – deve assecondare l’esigenza della chiarezza estrema. Come se allo spettatore si dovesse offrire uno spettacolo sempre supportato da un libretto delle istruzioni semantico ed emotivo, privo di spazi di ambiguità – e perciò privo dei brividi autentici, che spiazzano divertono e magari fanno pensare.

Ogni momento di Guardiani della Galassia Vol. 3 è affossato dalla sua didascalicità esemplare: c’è sempre una linea di dialogo di troppo, una battuta forzata di troppo, una musica mielosa o drammatica di troppo a zavorrare la vicenda, riducendo il sentimento al sentimentalismo, e volgarizzando i temi più interessanti in lezioni in versione bignami su giusto e sbagliato. L’economia e la laconicità espressiva di The Suicide Squad, in cui c’erano piccoli dettagli folgoranti accumulati uno sull’altro, fiduciosi (come deve essere) delle capacità di decodifica dello spettatore, sono sostituite nei Guardiani della Galassia Vol. 3 da continui spiegoni e scene madri per spettatori pigri cui bisogna distribuire temi tranquilizzanti e dal senso inequivocabile.

La storia, per quanto scheletrica, ci sarebbe. Stavolta i Guardiani, per salvare la vita di Rocket gravemente ferito da Warlock (Will Poulter, in un ruolo, per chi conosce il personaggio dei fumetti, completamente sprecato), devono ritrovare un codice segreto che disinneschi quello che anni prima era stato impiantato nel corpo geneticamente modificato del procione dall’Alto Evoluzionario (Chukwudi Iwuji), un utopista paranoico con ambizioni da novello Dio, che vuole creare, costi quel che costi, il mondo perfetto.

Dentro questa avventura c’è quindi spazio per parlare di distopie, stermini di massa, sogni eugenetici – di cui fanno le spese soprattutto gli animali, vedi la lacrimevole storia delle origini di Rocket in flashback. Attorno a questa struttura si sviluppano le vicende, un po’ sbozzate in verità, degli altri personaggi, a partire da Quill (Chris Pratt), letteralmente ubriaco d’amore per la sua Gamora (Zoe Saldana) che non esiste più – quella che incontra appartiene a un’altra linea temporale, e di lui s’interessa poco o punto – e fino a tutto il gruppo, di ognuno dei quali, distintamente, bisogna sempre didascalicamente sottolineare che vanno bene così come sono (Drax [Dave Bautista] non spicca per intelligenza, però ha un cuore grande così, guarda com’è commovente coi bambini).

Poi in Guardiani della Galassia Vol. 3 ci sono anche autentici pezzi di bravura: su tutti più che la scena d’apertura di Rocket con Creep dei Radiohead (pedante perché impone l’emozione malinconica allo spettatore), è da segnalare la sequenza di combattimento con No Sleep Till Brooklyn dei Beastie Boys, interamente in piano sequenza tra ralenti e accelerazioni, un piccolo capolavoro coreografico. Purtroppo ogni cosa è incastrata dentro una narrazione sempre preoccupata di dire tutto e troppo (così il film dura le solite esagerate due ore e mezza), con contorno di simbolismi scoperti: una specie di arca di Noè con gli animali vittime di esperimenti, citazioni kitsch michelangiolesche, stati di premorte con immancabili visioni, la Controterra dell’Alto Evoluzionario come un Truman Shaw andato a male. Tutto così esplicito da risultare stucchevole. Per vedere all’opera il miglior Gunn, è decisamente il caso di tornare al modello Suicide Squad: telegrafico, brutale, intelligente.

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