Memento Mori dei Depeche Mode, la beatitudine dei numeri uno (recensione)

Universi dark, sintetizzatori al centro della scena, una spolverata di vintage e tanta bella morte. Ecco Memento Mori, il nuovo album dei Depeche Mode

memento mori dei depeche mode

INTERAZIONI: 201

Memento Mori dei Depeche Mode, per brevità la morte nel senso più artistico che ci sia: se il piattume visivo è stato rinominato chiaroscuro, se un contenuto sfuggito viene definito arte contemporanea e se il rumore tutt’altro che melodico è stato ribattezzato industrial, mescoliamo gli ingredienti e ingrassiamoli con la voce di Dave Gahan e il genio di Martin Gore. Che sì, sono solo i due portavoce di un progetto nato negli anni ’80 e al quale non smetteremo mai di rendere grazie, ma quando si parla dei Depeche Mode bisogna soltanto genuflettersi, anche se sei un arido commentatore compulsivo che alla notizia della loro presenza al Festival di Sanremo scrivi scaltrissimo: “Un motivo in più per non guardarlo”. Scusate, era un sassolino che dovevo togliermi.

I nostri sono tornati per raccontarci la morte, la sorella buona dell’amore. Per parlare di questo disco prendiamo in prestito un’azzeccata definizione data a Dave Gahan dall’Enrico Silvestrin, quella sul “crooner robotico”. Perché Gahan è proprio quello, il conte elegante con l’inferno nel petto e il caos nella testa. Mettiamo le mani avanti: chi scrive che Memento Mori dei Depeche Mode è nato come conseguenza della morte di Andy Fletcher sta mentendo: la scrittura era iniziata molto prima. Ciò che ci piace della band di Violator c’è, eccome se c’è: l’elettronica, le frustate dark, i brani adatti per sco*are e quelli per adorare Satana (o Dio, a seconda della confessione).

Quando è uscita Ghosts Again abbiamo visto una pioggia di punti esclamativi e 1 accompagnare commenti entusiasti, e in effetti chi si aspettava una botta di primi ’80 dal nuovo singolo dei Depeche Mode? Nessuno, troppo delusi da Spirit (2017) e troppo intossicati – almeno noi zeta che rimpiangiamo gli anni ’90 – dal pregiudizio che è spontaneo verso le nuove release degli artisti che hanno scritto la storia. Eppure, Ghosts Again ci ha restituito ciò che Some Great Reward (1984) ci aveva insegnato, poi è arrivata My Cosmos Is Mine ed ecco Black Celebration e Songs Of Faith And Devotion. Tutti i darkettari post-punk-minimalisti hanno vissuto, in questo eccezionale lavoro di programming dell’italiana Marta Salogni e del cattivissimo James Ford, quell’attimo di estasi fisiologica che ti porta ad accendere una sigaretta dopo gli spasmi.

Con My Cosmos Is Mine abbiamo tutti visto il nero-pece che spesso accostiamo ai Depeche Mode, e non è un caso se pare proprio il brano che si “sente” guardando la copertina firmata da Anton Corbijn (non sai chi sia? Googlalo). C’è poi Wagging Tongue, la paracu*ata che troviamo in ogni disco (sì, anche i Depeche fanno paracu*ate) firmata – udite, udite – dai nostri Lennon-McCartney, ovvero Gahan e Gore, i punti G che ci piacciono. Il synth potrebbe essere una lezione imparata da Sirius, scomodando The Alan Parsons Project, non certamente una fonte qualunque.

Memento Mori Deluxe Edition
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Don’t Say You Love Me è quel tocco vintage con un gentiluomo Dave Gahan che sa molto del David Lynch di Blue Velvet: il noir al servizio di un crooner tormentato. 6/8, fiati, archi, delay dal feedback immediato e un testo che certamente non è una ninna nanna (o forse sì?): “You’ll be the killer, I’ll be the corpse, you’ll be the thriller and I’ll be the drama, of course”. Tanti altri i punti interessanti del disco: la brutale My Favourite Stranger, la dolcissima Soul With Me cantata da Martin Gore, l’audace Caroline’s Monkey che ci ricorda tanto Dream On, la kraftwerkiana Before We Drown e l’intensa People Are Good.

Tutto il resto, specialmente Speak To Me che chiude questo viaggio allucinato, merita in ogni singola nota. Non c’è il pezzo scartabile, né quello in cui ogni singolo suono non sia pesato. Tessere le lodi non conviene, perché i Depeche Mode hanno già sfornato i loro capolavori quando ancora era in corso la Guerra Fredda, o quando ancora le Torri Gemelle erano in piedi, o quando ancora i Red Hot Chili Peppers pubblicavano album decenti.

Memento Mori dei Depeche Mode è tutto questo: un nuovo album su tematiche vecchie e stanche, già consumate da poeti maledetti e filosofi, cantautori crepuscolari e romanzieri tormentati. Però arriva oggi, dove la scena internazionale è intossicata da una finta positività ostentata da popstar misogine e materialiste che sfornano canzoni che durano mezza settimana. Con Memento Mori, i Depeche Mode ritornano all’esperienza più umana: la morte, appunto, quella che i maniaci della positività considerano una roba da sfigati.

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