Gli anni 80 non sono mica finiti

Oggi mi sono svegliato con in testa una canzone. No, non è esattamente vero. Mi sono svegliato con in testa un titolo, It’s Over, senza però ricordare né la canzone, parlo, siamo italiani, di melodia, né l’artista

The Eighties.


INTERAZIONI: 180

Si dice che quando uno invecchia cominci a ricordare sempre meglio episodi della sua gioventù, infanzia o adolescenza, immagino, poco cambi, a discapito di avvenimenti accaduti più di recente. Non dico una sorta di rincoglionimento, sarei ingeneroso verso una categoria, quelli che invecchiano appunto, di cui faccio a buona ragione parte anche io, più un malinconico guardarsi indietro, come a voler chiudere un cerchio o, non sono poi così vecchio, un voler cominciare le operazioni di preparazione di quella chiusura.

Oggi, per dire, mi sono svegliato con in testa una canzone. No, non è esattamente vero. Mi sono svegliato con in testa un titolo, It’s Over, senza però ricordare né la canzone, parlo, siamo italiani, di melodia, né l’artista. O meglio, la sensazione, ma più che una memoria è una sorta di residuo della mia cultura da critico musicale che poco si è occupato di musica anni 80 per faccende di anagrafe e di gusto personale, è che si trattasse di una canzone dei Level 42, band capitanata da quel fenomeno del basso di nome Mark King, artista piuttosto in voga allora che ho poi avuto il piacere e l’onore di conoscere a Villa Ormond, a Sanremo, quando eravamo entrambi ospiti del DopoFestival di Nicola Savino e la Gialappa’s, lui, Mark King, chiamato a suonare con la band di Vittorio Cosma (l’anno prima aveva avuto lo stesso ruolo di guest star niente meno che Adrian Below, non fatemi star qui a spiegarvi di chi si tratti). Dei Level 42, così, su due piedi, ricordo solo Something About You, dove lo slap di Mark la fa da padrone, e Lessons in love, con quello special in falsetto cantato dal tastierista del gruppo, di cui ovviamente non ricordo il nome. Uno dei miei compagni di classe del liceo, Vincenzo, oggi farmacista, era davvero fissato con Mark King e la sua band, al punto da essersi comprato non so quanti album in audiocassetta, ai tempi funzionava così, ma It’s Over non me la ricordo. O meglio, non me la ricordavo, perché è bastato un click per superare questo impasse, giusto il tempo di digitare il titolo su Youtube e vedermi comparire il video. Video che, confesso, non ha evocato nessun ricordo del passato, niente invecchiamento che tenga, niente nostalgia vintage. Sulle prime ho pensato che magari mi stavo sbagliando, che quell’It’s Over con cui mi sono svegliato era parte di un Don’t Dream It’s Over, nella versione originale dei Crowed House,  band australiana capeggiata da quel genio di Neil Finn, Australia da cui arrivava anche la strepitosa band dei Man At Work, a voler rimanere nel pop, la loro Down Under e soprattutto Who Can It Be Now due chicche di quel decennio, o in quella dell’inglese Paul Young, celebrità degli 80s che ha contribuito a lanciare la carriera internazionale di Zucchero, i due hanno duettato in Senza una donna, e di cui amo ricordare la strepitosa cover di Every Time You Go Away, brano scritto da Daryl Hall, a sua volta parte del duo Hall & Oates che la incise nel 1980, cinque anni prima di Young, Hall 6 Oates mai sufficientemente celebrato, la loro So Close è stata a lungo tra le mie ballad preferite, al pari di If You Don’t Know Me By Now dei Simply Red, a sua volta cover di un brano del 1972 di Harold Melvin & The Blue Notes, siamo sempre in zona new soul, o white soul, roba raffinata che ha retto perfettamente l’incedere del tempo, altroché. Per altro, di Don’t Dream It’s Over dei Crowed House esiste, è noto, anche una versione in italiano, la non imperdibile Alta marea di Antonello Venditti, contenuta in quel non capolavoro di Benvenuti in Paradiso, Dio e Antonello Venditti siano lodati per il fatto che a un certo punto il nostro ha smesso di pubblicare lavori insignificanti, forte dei tanti bei lavori pubblicati in passato, ultimo brano davvero significativo, a mio avviso, Il compleanno di Cristina, contenuto nel precedente In questo mondo di ladri, anno del già citato Signore 1988, brano che rifà il verso alla più celebre Sotto il segno dei pesci, medesimo incipit, “Ti ricordi quella strada, eravamo io e te”, altra citazione poi, “il rock passava lento, come fiumi di parole, sulle nostre discussioni”, il tutto raccontato però con una certa disillusione ormai accolta con rassegnazione, “per noi che cercavamo un’altra vita e un altro mondo/ sono morto, sono morto, sono morto”, con un preludio al finale davvero disincantato, “e devo ricordarmi di comprare anche dei fiori/ perché c’è il compleanno di Cristina/ Ma non facciamo tardi, c’è l’ufficio domattina/ sono morto, sono morto, sono morto come prima”. Quando In questo mondo di ladri, canzone che, al pari di Benvenuti in Paradiso, ha messo a dura prova il mio continuare a ascoltare Venditti, avevo diciannove anni, stavo finendo il classico, proprio come il cantautore romano, e se uno mi avesse chiesto come mi sarei immaginato da adulto, avrei probabilmente risposto che mi vedevo, come mio padre, dietro una scrivania a fare l’impiegato. Così in effetti mi immaginavo sarebbe andata a finire. Questo nonostante io, appunto, ascoltassi Venditti, che indicava in quella vita lì, certo non senza una lieve spocchia, uno dei mali da cui provare a fuggire, il “ti sei salvato o sei finito in banca pure tu” di Compagno di scuola, per dirla con parole sue, io me lo ricordo bene. Anche 21 modi per dirti ti amo, con quelle chitarre così alla U2, e quei synth così anni 80, è un brano notevole, poi il grande nulla.

Tornando però a It’s Over, non erano i Crowed House che avevo in testa, né Paul Young, men che meno Venditti, e quel nome lì, Level 42 non credo mi sia capitato in testa per caso, per quanto sia uso lasciarmi andare a associazioni anche casuali nel portare avanti i miei ragionamenti, oltre che i miei testi scritti, lo avrete notato.

No, però, scusate, vogliamo parlare del contrasto soul che crea il sax di Who Can It Be Now con la voce arrugginita del cantante della band, Colin Hay, lì a giocare col suo accentuato strabismo in un video assolutamente delirante, la canzone parla di qualcuno che va a cercarlo a casa e da cui lui crede di dover scappare. O vogliamo parlare di una ballad con la cassa dritta come Appetite dei Prefab Sprout, la cito perché questo passa il convento Youtube in coda al brano dei Men At Work, vedi che a volte le piattaforme e il loro algoritmo ci azzeccano. La voce di Paddy McAloon come un guanto capace di mandare via proprio quella malinconia cui facevo riferimento prima, un po’ come la voce di Green Gartside degli Scritti Politti, la loro Oh Patti (Don’t Feel Sorry For Loverboy) a seguire sul tubo, brano gigantesco sempre del 1988. E che dire del giro di basso di Paradise di Sade, Dio che voce questa cantante che non abbiamo saputo coccolare come avremmo dovuto, siamo sempre in quel 1988, che annata, a sentire oggi queste canzoni sembrano ancora attuali, Simon Reynolds e la sua Retromania hanno sempre ragione.

Tanto lo sapevo che andava a finire così, brano dopo brano, dai Fine Young Cannibals di Johnny Come Home a Victims dei Culture Club, passando per More Than I Can Bear dei Matt Bianco o No One Is To Blame di Howard Jones, Sowing the Seeds of Love dei Tears For Fears a giocarsela con Prodigal Blues di Billy Idolo o Fire Woman dei Cult, non potevo che finire come sempre lì, in quella Duel dei Propaganda che, non a caso, proprio sul volgere di quel decennio sarebbe diventata la sigla del mio primo programma radiofonico, primo programma tutto mio, On The Rocks, perché in realtà in precedenza avevo prestato la voce al più classico dei dediche e richieste, sempre a Radio Marche Ancona, piccola emittente privata della mia città. Vedere la fascinosissima Claudia Brücken che usa le sue imperfezioni per bucare lo schermo, quasi una trentina di anni prima di Lady Gaga, rincuora, almeno rispetto al pensiero di quella che è stata la mia adolescenza musicale, e immaginaria (direi pure immaginifica), Duel è tutt’ora una mina che andrebbe assolutamente recuperata, chissà che non lo faccia prima o poi qualche artista urban alla ricerca di una qualche chicca mitteleuropea. Di It’s Over, confermo, nessuna traccia nel mio subconscio, evidentemente troppo poco spazio, o semplicemente troppo amorevole, per lasciare spazio a una canzone minore tra quante uscite in un decennio che alla fin fine, edonismo reaganiano o non edonismo reaganiano, qualcosa di potente l’ha davvero tirato fuori. Con questi presupposti non posso certo dire di star invecchiando poi così male, almeno a livello di colonna sonora, almeno.

Continua a leggere su optimagazine.com