Foto di famiglia con Lionel Richie e Raf, un tempo i giovani non esistevano, adesso neanche

O anche, se Raf volesse mai aggiornare la sua Cosa resterà degli anni 80 in un più attuale Cosa resterà degli anni Venti, beh, avrebbe ben poco di avvincente da mettere nel testo

Glastonbury, Somerset, UK - June 28, 2015 - Lionel Richie playing Glastonbury Festival's Pyramid Stage


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L’ho raccontato più volte, torno a farlo, in casa dei miei genitori, una casa nella quale non ho mai abitato visto che si sono trasferiti lì dopo che ero migrato a Milano, c’è una stanza preposta alla preghiera. Mio padre è diacono, anche questo ho avuto modo più volte di raccontarlo. In quello studio, una piccola stanza che loro hanno arredato con un divano, una credenza e poco altro, piccola com’è, sulla parete alle spalle del divano si trovano tutta una serie di foto, anche d’epoca. Sono le foto di famiglia, quelle di origine dei miei genitori, soprattutto di mia madre, evidentemente la famiglia dei miei nonni ricorreva poco a quella pratica, poi le foto dei miei genitori, anche da piccolissimi, quelle da sposi, con noi figli, io, mio fratello Marco e mia sorella Caterina, ancora ragazzini. Infine quelle dei nipoti, tutti quanti. Foto spesso di cerimonie, perché è in quelle occasioni che si tende a farsi fotografare in gruppo. In una c’è mio cognato Mauro, marito di mia sorella, che esibisce una pettinatura cotonata insieme a un paio di baffi folti, I medesimi che esibiva anche il giorno delle sue nozze, nel 1983. In quella foto indossa una polo rossa, tipo Lacoste, anzi, probabilmente proprio una lacoste. Per dire, facendola vedere ai miei figli, ho detto che era un cantante americano, tale Lionel Richie, accompagnando il racconto con me che canticchio All night long in falsetto. In effetti mio cognato Mauro assomigliava parecchio a Lionel Richie, pur non essendo afroamericano ma anconetano. Giorni dopo quell’aneddoto, che ha fatto ovviamente ridere come due scemi solo me e mia moglie Marina, gli unici presenti a sapere chi fosse Lionel Richie, sempre I miei figli mi hanno chiesto di fargli sentire la canzone che avevo canticchiato a casa dei nonni, cosa che ho fatto ricorrendo a Youtube. Una sorta di epifania, quella, perché ho scoperto che Lionel Richie in quel caso indossava esattamente la medesima polo rosso, a riprova che chi come me passa la vita a scrivere inseguendo le proprie visioni, a volte, vede cose che neanche esistono ma che nel momento in cui lei vede prendono miracolosamente forma. Non è però della somiglianza di mio cognato da giovane con un altrettanto giovane Lionel Richie che voglio parlare (e confesso che Lionel indossava una camicia rossa, non una polo), non è per quello che vi ho portato nella stanza della preghiera dei miei genitori, di fronte a questa parete ricoperta di foto di famiglia. Né voglio tornare sulla mia somiglianza giovanile con Kim Thayl dei Soundgarden, quel periodo, I miei venticinque anni, poco meno, non è rappresentato in quel luogo, forse ritenuto troppo poco presentabile con queli capelli lunghi fin sopra il sedere, tutti quei bracciali, quel look così poco consono, allora, oggi ormai nessuno si aspetta di vedermi con una camicia o una giacca. La foto che voglio mostrarvi, a parole, perché non ho copia digitale di quel reperto da potervi far vedere davvero, mostra un uomo adulto, quasi anziano, che cammina con un bambino di un paio di anni per mano. Entrambi indossano un cappotto, è inverno. L’uomo un loden lungo, e porta anche un cappello a larghe falde in testa. Il bambino ha I calzoni corti, la foto è in un seppia sgranato, sicuramente vecchissima, allora I pantaloni lunghi erano una conquista della adolescenza, e un cappottino corto, con una cinta sui fianchi. In testa ha un cappello, una coppola. La foto è stata scattata nel centro di Ancona, in quello che oggi è Corso Garibaldi, probabilmente già allora. Il bambino è mio padre, due anni compiuti l’estate precedente, a occhio, l’uomo mio nonno Mario, nato sul volgere dell’Ottocento. Facendo dei conti sommari, l’uomo anziano che tiene il mio padre bambino per mano ha in realtà appena quarantun’anni, perché mio nonno è del 1897 e mio padre, evidentemente un incidente di percorso, del 1936, nato sedici anni dopo mio zio Enzo, mai conosciuto da me in quanto morto nel 1968 di tumore ai polmoni. Mio nonno, oggi mi ripeto, repubblicano doc, anche allora che vigeva il fascismo, siamo nel 1938, era stato ancora minorenne tra gli arditi, eroe della Prima Guerra Mondiali con tanto di medaglia al merito. Quando il fascismo si era fatto largo a suon di purghe e manganellate anche in una città profondamente anarchica come Ancona, sede della sola rivoluzione di quella matrice mai avvenuta in Italia, la Settimana Rossa andata in scena dal 7 al 14 giugno del 1914, lui, con un solido lavoro in ferrovia, si era rifiutato di prendere la tessera del partito, perdendo il posto di lavoro. Funzionava così, ai tempi, e già era tanto che non lo avessero pestato, o addirittura ucciso. Di lì a poco, quando la guerra avrebbe richiesto I soldati più abili, oltre che la carne da macello, I fascisti sarebbero tornati alla carica, andandolo a prendere al macello, dove nel mentre aveva trovato lavoro. A riprova che no, non sarebbe mai andato in guerra per difendere ideali che non erano I suoi, mio nonno prese una mannaia, di quelle con cui macellava la carne bovina, e si taglio una buona porzione del pollice della mano destra, risultando inabile a andare in guerra, da qualche parte avrò pur dovuto prendere la mia testa dura. Nella foto, se solo fosse possibile vedere nel dettaglio le mani di quell’uomo di una certa età che tiene un bambino piccolo per mano, esibendo da sotto il trench, perché più che un loden è un trench che indossa, un abito elegante, da festa, si potrebbe notare che le dita sono ancora tutte lì, la guerra ancora da dichiarare. Quanto allo spirito anarchico, la mia famiglia paterna sarebbe a lungo stata iscritta al partito Repubblicano, io il solo a dichiararmi anarchico, nel 1994 ho anche partecipato a una rievocazione della Settimana Rossa, nell’ottantesimo anniversario, molti più poliziotti che manifestanti, un anarchico che nel mentre prestava servizio civile presso la Caritas, impegnato in turni snervanti in un dormitorio per senza fissa dimora di Falconara, città nella quale un cugino di mio padre, un raro prete in una famiglia di mangipreti, mio nonno non era neanche entrato in chiesa quando mio padre aveva sposato mia madre, presso la Cattedrale di San Ciriaco, il 4 luglio 1960, don Mario, svolgeva il ruolo di Cappellano della Caserma Saraceni, sede per il centro Italia orientale del CAR, tutti I miei cugini a fargli da attendente, le contraddizioni non me le sono mai fatte sfuggire da sotto il naso, I primi articoli scritti da ragazzino divisi tra Presenza, il mensile della diocesi di Ancona diretto dal mio professore di Storia, don Celso Battaglini, ho studiato dai frati, e A Rivista Anarchica, per dire. Sarà proprio lui, don Mario, col quale ho intrattenuto discussioni entrate di diritto nella storia della mia famiglia, distanti praticamente su qualsiasi argomento, a raccontarmi di come un nostro parente, a sua volta anarchico, tale Pietro, fosse finito in Per chi suona la campana di Ernest Hemingway, partito per combattere sul fronte anarchico la guerra di Spagna.

Ma non è neanche di questo che voglio parlarvi, il fatto che io sia stato presente alla discesa in campo di Silvio Berlusconi, avvenuta nell’autunno 1993 alla Fiera della Pesca di Ancona, io che nella notte avevo lasciato un messaggio nella segreteria telefonica del responsabile degli obiettori della Caritas dichiarandomi influenzato al fine di poter saltare il solito incontro cui noi futuri obiettori e gli obiettori in corso, avrei iniziato il mio anno il giorno di San Valentino del 1994, mercoledì delle ceneri, identificato dalla Digos come uno dei contestatori, contestatori che Berlusconi non avrebbe mai incontrato, entrato alla Fiera con l’elicottero mentre noi stavamo fuori a cantare in coro, così come che io fossi al fianco di Nanni Balestrini, tra gli ideologi di Potere Operaio, il giorno in cui Toni Negri tornò in Italia dall’esilio parigino, a lui la prima telefonata una volta sceso dall’aereo, io di lì a poco esordiente come narratore sotto l’ala protettiva proprio del fondatore del Gruppo 63, tutto è dentro I miei libri, niente che non abbia già raccontato con tutti I dettagli che ho ritenuto necessari, mi vorrei invece soffermare su mio nonno Mario, e su mio nonno Mario in quella foto, vestito elegante, l’aria austera che gli avrei poi sempre visto stampata in volto, mio padre credo non abbia preso nulla da lui, uno degli uomini più pacifici che mi sia capitato di conoscere in vita mia. Mio nonno, a quarant’uno anni, sembra più vecchio di quanto io non sembri ora, a cinquantatré anni e mezzo. Certo, a diciassette anni era tra gli arditi a cavallo, io a giocare a Subbuteo mentre studiavo al Classico, ma credo sia altro a determinare quel suo apparire come un uomo adulto, maturo, incamminatosi verso una anzianità che lo avrebbe visto in realtà morire molti anni dopo, a metà anni Ottanta, e questo mio apparire, almeno in apparenza, più giovane, I capelli lunghi, gli anelli che mi cingono le dita, le t-shirt quasi sempre nere, e credo che sia quella che il critico musicale e sociologo Jon Savage definirebbe l’invenzione dei giovani, da noi decisamente arrivata nel dopo guerra, non tanto col rock’n’roll, come oltremanica e oltreoceano, quanto piuttosto proprio con quel Boom Economico che avrebbe in qualche modo trascinato, letterlamente, l’Italia fuori dalle macerie dei bombardamenti. Non voglio certo dire che io oggi possa fregiarmi del termine giovane, non lo faccio in realtà da quando ho compiuto trent’anni, innervosito da chi usava e ancora usa questa categoria per togliere credibilità, a causa dell’arrivo delle prime auto utilitarie, dei primi elettrodomestici, delle televisioni andate a guardare nei locali pubblici il sabato sera, I Sanremo e I Giri d’Italia ascoltati alla radio, tanto quanto non penso che possano essere, in ordine sparso, Renato Carosone, Domenico Modugno o Fred Buscaglione I padri nobili di questa lenta rivoluzione culturale, ma è un fatto che quella gioventù un tempo semplicemente negata da una modalità di vita che prevedeva un passaggio brusco da adolescenza appena accennata a età adulta, I miei genitori, come tanti, si erano sposati poco più che ventenni, e poco più che ventenni erano diventati genitori, mia madre prontamente licenziata all’annuncio delle nozze, anche questa era consuetudine dell’epoca, nel privato, mio padre passato dal fare il meccanico a diventare bigliettaio a bordo dei tram nella locale azienda di trasporti, si sarebbe imposta a cavallo tra gli anni cinquanta e settanta, prima culturalmente, certo, poi riconosciuta dal mercato come un target commerciale assai appetitoso. Tutto questo, cioè quella foto di mio nonno Mario che appare quasi anziano alla soglia dei quarant’uno anni,con mio padre di due anni per mano, e questo mio agghindarmi da ragazzo oggi, che di anni ne ho cinquantatré, si riflette ovviamente anche nella musica, di quello in fondo scrivo, certo anche per provare a raccontare altro, è la fotografia plastica, scusate il mesto gioco di parole, di come anche nei testi delle canzoni la giovinezza, o quel surrogato di giovinezza che è un costante fingersi quel che non si è e non si è più, abbia occupato militarmente la scena, sfrattando in via definitiva tutto quel che succede dal momento in cui non si è più giovani, e soprattutto non ci si senta più giovani. Vedere oggi tanti miei coetanei, gente che un tempo sarebbe andata in pensione anche senza ricorrere ai simpatici regali che uno Stato connivente ha offerto ai suoi dipendenti per un anche troppo lungo lasso di tempo, anzi, sentire oggi tanti miei coetanei cantare canzoni che fanno il verso ai più giovani, con testi scritti usando parole adolescenziali e quindi in grado di rappresentare scenari adolescenziali, l’età matura sparita di scena, figuriamoci la terza età, come il corpo delle donne vittima di una riscrittura in chiave neutrale e piatta della realtà, roba che se mai qualcuno tra qualche decennio si premurasse di ascoltare la musica prodotta in questi anni venti tanto per farsi un’idea di come era la vita sul pianeta Terra oggi, Dio lo scampi da questo supplizio, ce ne sarebbe abbastanza per credere che al mondo fossero sopravvissuti solo I ragazzini e le ragazzine, spesso non in queste due specifiche categorie, come in una di quelle tante serie TV che vede gli adulti morire per una qualche pandemia, penso a Anna, scritta da Niccolò Ammaniti, o Between. Se il Raf da poco trombato da Amadeus al prossimo Festival della Canzone Italiana di Sanremo, il suo nome a lungo ventilato nel cast ma poi scomparso dalla lista proclamata dal presentatore veronese, volesse mai aggiornare la sua Cosa resterà degli anni 80 in un più attuale Cosa resterà degli anni Venti, beh, avrebbe ben poco di avvincente da mettere nel testo, lui è nato nel 1959, boomer a tutti gli effetti, nato un anno dopo che Mimmo Modugno allargava le braccia al Casinò di Sanremo intonando Nel blu dipinto di blu, dando quindi ufficialmente vita al periodo aureo della nostra musica leggera, che potrebbe mai dirci che non suoni decisamente datato?

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