Pato Aguilera, i maiali conciliatori e Luca Carboni, campione in campo e nella vita

Un artista con una poetica precisa, riconoscibile, molto imitata, certo, mai divisivo, anzi, capace come pochi di mettere tutti d’accordo, un campione sul campo e fuori, poco importa se lui, Luca Carboni, tifa Bologna e non Genoa, anche i campioni hanno dei difetti, in fondo


INTERAZIONI: 111

Tifo Genoa, e non è una notizia. Non lo è perché non credo che il fatto che io tifi Genoa interessi qualcuno che non rientri nel mio giro di conoscenze personali, e non lo è perché, in realtà, ho già parlato di questa faccenda centinaia di volte, in articoli e libri, del tutto incurante del fatto che il mio tifare Genoa non sia una notizia in sé. Del resto non faccio il giornalista, né il cronista, le notizie non sono parte del mio interesse e il divulgarle non fa parte del mio lavoro, quindi sì, tifo Genoa, e ne sto parlando anche ora ben conscio che non sia una notizia. Tifo Genoa per faccende relative a due questioni che in qualche modo hanno a che fare col motivo per cui siamo qui, io a scrivere queste parole sul mio PC, su un foglio word che via via si va riempiendo di caratteri neri su fondo giallo, e voi a leggerle, quando ormai il foglio word è stato salvato e chiuso, addirittura pubblicato. Quindi un noi fittizio, perché io che scrivo e voi che leggete non stiamo interagendo in tempo reale, come del resto la scrittura e di conseguenza la lettura prevede. Le due faccende, che in realtà a breve scoprirete sono tre, ruotano, ovviamente, intorno a me, per buona parte, e per un aspetto almeno riguardano anche voi, suvvia, sono megalomane ma anche un po’ generoso.

Primo aspetto è quello del mio andare costantemente controcorrente, mi avvarrò della facoltà di non citare la nota frase di De Andrè, ahinoi e ahilui davvero abusata. Vado controcorrente, potrei quindi dire che sono un outsider, e questo si evince in genere da quello che scrivo, da come lo scrivo e anche da dove lo scrivo, e lo sono sin da quando ero un bambino. E voi direte, sì, ma il Genoa? Essendo uno che va controcorrente, nella seconda  metà degli anni Settanta, quando gli Ottanta si cominciavano a intravedere all’orizzonte, il calcio italiano era abbastanza dominato dalla Juventus. Cosa che nel tempo, almeno nel tempo della mia vita, iniziata nel 1969, si è spesso ripetuta. Tutti o quasi tifavano Juventus. La nazionale di Bearzot era in buona parte composta da juventini. Mio padre Learco e mio fratello Marco, otto anni più di me, tifavano Juventus, al punto che mio fratello avrebbe dovuto chiamarsi Omar, in omaggio a Sivori, non fosse stato che mia madre si è opposta con tutta se stessa, come un Salvo D’Acquisto pronto a donare la vita per difendere i propri ideali. Io tifavo Juventus, finché nel mondo non è apparso il Subbuteo, o meglio, nel nostro mondo. Stavolta per nostro non intendo, come poco sopra, il mio che scrivo e il vostro che leggete, ma il nostro di quei tempi, cioè il mio, che ancora non scrivevo, se non cose concernenti la scuola elementare (ancora nessuno la chiamava primaria) e i miei amici, quelli che abitavano nel mio palazzo o nei pressi del mio palazzo, insomma, i miei amici di infanzia. Arrivato il Subbuteo, che sarebbe quel gioco che si praticava e si pratica ancora su un panno verde su cui è disegnato un campo di calcio, sul quale si muovono ventidue pupazzetti, undici per squadra, mossi dai due giocatori che si contendono la vittoria praticando quelle che ai tempi chiamavamo schicchere, cioè colpi dati con la punta del dito indice cui si dava forza usando il pollice come leva. Un gioco, e qui veniamo alla seconda motivazione, cui io mi appassionai tantissimo perché ai tempi il calcio, di cui ero molto appassionato proprio per la passione di mio padre e di mio fratello, qualcosa che mi era quindi arrivata per patrilinearità, calcio  cui io mi appassionai tantissimo perché ai tempi mi era proibito giocarci. Sì, ero un bambino che non poteva giocare a calcio e non poteva giocare a calcio, non potevo giocare a calcio, vi farò la cortesia di non usare una terza persona imbarazzante, mica sono Maria Grazia Cucinotta, perché sempre ai tempi studiavo Violoncello presso la scuola di musica della mia città, Ancona, l’Istituto Pergolesi, andando poi a dare esami al Conservatorio Rossini di Pesaro, più giovane violoncellista della mia regione, con tanto di strumento mignon fatto arrivare per me non saprei risalire da dove. Quindi, ricapitolando, ero un giovane outsider in fieri che non poteva giocare a calcio in quanto musicista classico, il mio maestro Moscardelli, che la sfiga voleva abitava proprio di fronte a casa mia, tre metri di asfalto a dividere i nostri portoni, diceva che se mai avessi giocato a calcio avrei rovinato le mie cartilagini, compromettendo per sempre la possibilità di diventare un musicista classico adulto, per cui vai di Subbuteo. E voi direte, sì, ok, ma il Genoa? Il Genoa è arrivato nel momento in cui il Subbuteo è stato scelto da me come surrogato del calcio che mi era negato e nel momento in cui questa mia scelta ha comportato una ulteriore scelta, più specifica: che squadra usare? Tutti, per i motivi di cui sopra, avevano a disposizione una Juventus, le squadre di Subbuteo, che compravamo con la parsimonia degli anni Settanta in un negozio del centro di Ancona che si chiamava Mobilbimbi, negozio che, i nomi stanno lì non a caso, oltre che i giocattoli vendeva mobili per le camerette, e chi non aveva la Juventus, perché magari tifava altre squadre, come anche l’Ancona, avevano la Sampdoria, perché aveva, dicevano, la maglietta più bella, quella da ciclisti che tutti conosciamo. Io ero già uno che andava controcorrente, l’ho detto, l’outsider che risultava ancora più outsider perché mentre tutti andavano a giocare a calcio alla Lunetta o al Pincio, questi i due campi di sabbia del mio quartiere, se ne stava in casa o nel salotto del maestro Moscardelli, salotto le cui serrande erano sempre abbassate e dentro il quale aleggiava pungente il sapore della pece che si doveva immancabilmente passare sull’archetto prima di suonare. Ero un outsider che aveva scelto il Subbuteo come surrogato del calcio e quindi, nel momento di scegliere che squadra usare, ai tempi appunto se ne sceglieva una, e quella sarebbe stata la nostra squadra per parecchio tempo, di soldi non è che ne girassero tantissimi e quelli che giravano avevano, ovviamente, altre priorità, nel, ero un outsider che aveva scelti il Subbuteo come surrogato del calcio e quindi, nel momento di scegliere che squadra usare, visto che tutti avevano la Juventus, squadra che ai tempi tifavo per questione di ereditarietà, o la Sampdoria, scelta per il solo motivo per cui credo si possa tifare la Sampdoria, per la maglietta da ciclisti, io scelsi il Genoa. La squadra più antica d’Italia, la prima, quella che nei primi anni dell’esistenza del calcio in Italia ha vinto più scudetti, fermandosi a uno dalla stella, nove. Una squadra che da lì in poi mi avrebbe riservato tutta una serie incredibile di delusioni, retrocessioni, nessuna vittoria di scudetti o coppe, giusto qualche soddisfazione, anche notevole, come l’espugnazione dell’Anfield Road, il campo del Liverpool, in una nota partita di Coppa Uefa, parlo del 4 marzo 1992, certe date uno tende a ricordarsele, tanto più che sono rare gioie, ma che al tempo stesso avrebbe radicato in me quell’attaccamento romantico alla figura dei perdenti, di chi è nobile d’animo ma non viene riconosciuto e premiato per questo, roba da outsider, appunto. Un mashup di quel che poi mi ha portato a essere qui, davanti al computer, insieme a voi, io a scrivere, adesso, voi a leggermi, adesso, perché sono uno che ha studiato musica sin da piccolissimo, appunto, e che poi a un certo punto ha dovuto scegliere un surrogato a quel che amava, il calcio, andando a tifare Genoa e che poi, una volta abbandonata la classica, perché il calcio era più divertente, ha proseguito a amare la musica, andando sul rock, prima, e sul punk, poi, finendo infine per scrivere, questo era il mio destino, sempre da outsider, uno scrittore che si occupa di musica, per chi segue la letteratura come per chi si occupa di musica, un outsider anche nel lavoro.

Una lunga premessa, questa, dove apparentemente vi ho parlato di me, facendo però, attenzione, qualcosa di ambiguo, vai a capire se sto usando il genere del memoir o quello dell’autofiction?, e nel dire questo, vai a capire se lo sto chiedendo davvero o sto anche in questo caso, come quando in precedenza vi ho ripetutamente tirato in ballo, facendo metanarrativa, per finire proprio a parlare di quella sera a Anfield Road, quando il Genoa di Osvaldo Bagnoli sconfisse il blasonatissimo Liverpool, prima squadra italiana a espugnare quello stadio, quello è stato il Genoa più forte da che io tifo per il Vecchio Grifone, quello del Capitano, Gianluca Signorini, di Branco, di Ruotolo, Caricola, Eranio, Braglia e Collovati, e soprattutto di Pato Aguilera, di Tomas Skurahvy, questi ultimi due bomber da quaranta goal in coppia in campionato. Dopo un sorprendete 2-0 all’andata, con goal di Fiorin e di Branco, roba che già sarebbe bastata a sopperire ai tanti anni passati e futuri di delusioni, ecco che a Liverpool succede il miracolo, 1-2, il Genoa che passa alla semifinale grazie ai goal di Pato Aguilera, solo momentaneamente bloccati sul pareggio da un goal di Ian Rush. Pato Aguilera, che in realtà non si chiama, come qualcuno potrebbe penare, Patricio, ma Carlos Alberto, il nome Pato era uno soprannome dovuto al suo modo di muoversi come una papera, appunto, classe 1964, nato a Montevideo, in Uruguay, è arrivato al Genoa nel 1989, per poi passare a fine 1992 al Torino, procurando un dolore insanabile nei nostri cuori rossoblu. Basso di statura e corto di leve, un po’ come Maradona, suo grandissimo amico, Pato sin da subito si è fatto molto amare dai tifosi del Genoa, e non solo da loro. Uruguagio appena arrivato in Italia, non credo sia un caso che colui che ha portato nel vocabolario del nostro calcio la parola uruguagio, in sostituzione del più canonico uruguayano, sia proprio Gianni Brera, storicamente tifoso del Genoa (la lista dei personaggi fighi tifosi del Genoa è troppo lunga per potersela giocare tutta qui, da Fabrizio De Andrè a Frank Sinatra, passando per Gino Paoli e Jack Savoretti, oltre a quel Francesco Baccini che ha scritto Genoa Blues, poi intonato con Faber), Pato si è sin da subito trovato coinvolto in faccende che col calcio hanno poco a che fare, fatto che ha alimentato una sorta di leggenda nei suoi confronti. Si dice, ma lo si dice con perizia, che Pato sia stato chiamato a vestire in panni di giudice di pace in una questione di strada, un contenzioso tra papponi, ruolo da cui non si è ovviamente sottratto, l’essere di Montevideo suppongo gli valesse sin da subito gradi sul campo. Il fatto che però la cosa abbia comportato un suo qualche coinvolgimento in inchieste relative allo sfruttamento della prostituzione, nonché, ma qui siamo davvero nel campo delle leggende metropolitane, dello spaccio di sostanze stupefacenti, ha fatto anche sì che il suo nome girasse velocemente in tutte le curve, sempre guardato col rispetto e la simpatia di chi viola la legge presso chi vede alla legge come a qualcosa che sarebbe bene violare. Non a caso Pato veniva accolto dalle curve avversarie con cori di stima, spesso con testi quali “Aguilera portaci le troie, Aguilera portaci le troie”, sotto lo sguardo sdegnato di chi allo stadio magari ci va con la famiglia. Leggere nella biografia di Diego Armando Maradona, Yo soi el Diego, che per lui Pato Aguilera era una delle persone migliori che gli fosse capitato di incontrare in vita, uomo generoso e rispettabile, e il fatto che lui, Pato, non abbia potuto partecipare alla partita di addio al calcio giocato del Pibe de Oro perché impossibilitato a uscire dall’Uruguay, a causa di una condanna, fa ben da cornice a questo racconto. Il mio cuore, in fondo, era stato a suo tempo rapito da Ian Peters, giocatore di seconda linea dell’Olanda del calcio totale che, appena arrivato a Genoa, aveva ben visto di dimostrare quanto avesse imparato l’italiano bestemmiando in televisione, e in seguito avrebbe battuto commosso per personaggi quali il professor Scoglio o Gasperini, per non dire di Felice Centofanti, che in precedenza era stato adottato come eroe dalla tifoseria della mia città natale, Ancona, capelli lunghi fino a metà schiena, aria da fricchettone, spesso visto ubriaco nottetempo lungo le strade della città, ma poi sempre sul pezzo in campo.

Questa faccenda del fare il giudice di pace per una faida di strada, qualcosa di apparentemente nobile portato in un contesto assai popolare, ovviamente con un substrato di malaffare a fare da contorno, mi ha sempre affascinato, come del resto questa aura da protagonisti di libri di Hubert Selby Jr di buona parte dei giocatori sudamericani, assai più fascinosi di qualsiasi campione norvegese alla Halaand, goal o non goal fatti a secchiate. Per questo, quando giorni fa mi è capitato tra le mani un recente studio dell’Università di Torino che parlava della figura del giudice di pace nelle comunità suine sono quasi trasalito. Sì, perché in pratica, studiando su oltre un centinaio di esemplari di maiali domestici, lasciati vivere in un contesto aperto, si è constatato come nelle situazioni di tensione tra maschi, tensioni dovute alla gestione proprio degli spazi, come delle femmine, sia spesso chiamato in causa una figura terza, diciamo di un conciliatore, il cui intervento è necessario per riportare la pace all’interno della comunità. Duplice la funzione del giudice di pace, chiamiamolo col nome giusto, in questione. In genere interviene dopo che la zuffa è terminata, parliamo di zuffe anche piuttosto violente, e lo fa o andando dal vincitore, per intimargli di smettere di vessare lo sconfitto, di umiliarlo, o per spingere lo sconfitto a non prendersela troppo, riuscendo in entrambi i casi nei suoi intenti, quindi calmano il facinoroso di turno e cacciando le troppe ansie del perdente.

Un vero giudice di pace, quindi, non troppo diverso, so che non potrebbe sembrare, ma quel che sto scrivendo dovrebbe suonare come un complimento, il maiale è il secondo animale più intelligente al mondo, il terzo se ci mettiamo nel gruppo, da quanto a suo tempo si è trovato a fare Pato Aguilera, appena arrivato a Genova e subito chiamato a sistemare faccende di strada. Sarà mica un caso che poi Maradona parlando di Pato aveva solo parole di stima, come invece non accadeva quando parlava di Messi, decisamente più forte coi piedi, ma meno “sportivo” in senso stretto, come si è visto recentemente ai Mondiali di Qatar, quando dopo aver superato ai rigori l’Olanda, accedendo alle semifinali, lo si è visto dileggiare la squadra sconfitta.

Guardando al mondo della musica, mica avrete pensato che il riferimento musicale fosse solo quello relativo ai bei nomi annoverati nelle liste dei tifosi del Genoa al mio fianco?, un mondo particolarmente propenso a ospitare solisti, nel senso più becero del termine, gente che tende a pensare esclusivamente a se stessa, egoriferiti che possono quindi essere parte di una band, per solisti non intendevo certo artisti solisti da contrapporre a chi lavora in gruppo, pensare a una figura che in qualche modo tenga insieme i primi con gli ultimi, i BIG con gli indipendenti, i blockbuster con chi fa flop, è davvero difficile, se non impossibile. Pensare a chi potrebbe incarnare il ruolo di giudice di pace in una zuffa di strada, per intendersi, quando nei fatti le zuffe avvengono quasi sempre alle spalle, mai o quasi mai dichiarazioni pubbliche atte a screditare i colleghi, troppo spesso guardati come eventuali competitor, semmai azioni grigie di screditamento, le famose maledette malelingue cantate a suo tempo da chi con quelle maledette malelingue aveva avuto a che fare, Ivan Graziani, isolamenti maturati in segreto, mai prese di posizione radicali, sembra quasi una impresa epica, di quelle che vanno raccontate in una saga più che in un raccontino a tema animale. Poi, certo, i titoli si trovano troppo spesso lì per rovinare il lavoro di chi scrive provando a innescare meccanismi che giochino su un qualche tipo di climax creato, su un mistero, e Luca Carboni è ovviamente il nome cui avrei mirato magari anche più a lungo, non fosse che sta lì sin dall’inizio. Un cantautore che ha avuto e ha tuttora un peso fondamentale nella storia del cantautorato italiano, primo vero campione di un intimismo che è anche politico, capace di mettere quindi insieme chi aveva dato vita a una forma canzone impegnata con chi si era dedicato più ai sentimenti, due vere e proprie fazioni fino alla metà degli anni Ottanta. Un cantautore che era cresciuto alla corte di Lucio Dalla, certo, ma che presto è diventato a sua volta un vero e proprio modello da seguire, al punto che buona parte di chi si è affacciato al songwriting nel nuovo millennio è a lui che ha guardato con insistenza, dopo che a farlo erano stati personaggi quali Samuele Bersani, il giro romano dei vari Daniele Silvestri, Niccolò Fabi e Max Gazzè, come quello stesso Lorenzo Jovanotti con cui ha anche condiviso un importante tour, ormai trent’anni e passa fa. Un artista con una poetica precisa, riconoscibile, molto imitata, certo, mai divisivo, anzi, capace come pochi di mettere tutti d’accordo, un campione sul campo e fuori, per dirla con le parole che El Pibe de Oro ha scelto per Pato Aguilera, poco importa se lui, Luca Carboni, tifa Bologna e non Genoa, anche i campioni hanno dei difetti, in fondo.

Continua a leggere su optimagazine.com