Perseverare è diabolico, due errori imperdonabili ai quali sono sopravvissuto

Vi racconto questi due gravissimi errori che ho fatto, uno quando ero giovane, l'altro quando ho deciso di metter via la mia collezione di audiocassette

Ryazan, Russia - December 25, 2021: Vintage audio cassette BASF close-up. Analog audio format


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Nella vita, parlo della mia vita professionale, come direbbe Madame la mia vita privata è fuori da qui, checché se ne pensi, nella mia vita professionale ho sicuramente commesso un paio di errori gravi, gravissimi, e il primo di questi errori l’ho commesso ben prima che la mia vita professionale mi apparisse come tale. Mi spiego, ho commesso due errori gravi, gravissimi, e uno di questi errori gravi, gravissimi, l’ho commesso in giovane età, quando cioè la vita mi appariva come un qualcosa che si svolgesse semplicemente giorno dopo giorno, senza una progettualità, senza ovviamente conoscere la parola progettualità, senza una prospettiva, e forse la parola prospettiva la conoscevo, allora, quantomeno per averla sentita a scuola, durante l’ora di tecnica o di disegno. Sì, perché il primo dei due errori gravissimi che ho commesso nella mia vita professionale l’ho commesso alle scuole medie, figuriamoci se pensavo al futuro e a quello che nel futuro sarei poi andato a fare o a provare a fare. È una storia che ho già raccontato, quindi lesinerò nei dettagli. Quando facevo la prima elementare il mio maestro di allora, alle elementari cambierò non saprei dire neanche io quanti insegnanti, una media di uno all’anno, quando facevo la prima elementare il mio maestro, di cui ora ignoro ovviamente il nome, ricordo solo che era stato un arbitro, come mio padre, e che era omosessuale, ma questo non lo sapevo allora, perché come per la parola progettualità non la avevo mai sentita nominare, figuriamoci se a metà degli anni settanta, in Ancona, si parlava in casa di omosessualità, magari usando anche le parole con cui la si raccontava allora, roba tipo “pederasta”, credo di non averla proprio mai sentita in casa mia, almeno fino a quando sono diventato un adulto, certi discorsi restavano fuori dalla porta, non saprei dire se per pudore, anche quello, certamente, o per legittima incapacità a decifrare l’indecifrabile, la provincia, il cattolicesimo, l’assenza di un vocabolario idoneo, di una educazione sentimentale e sessuale, anche. Comunque il mio maestro elementare ci ha fatto ascoltare in classe, con un mangiadischi, il tema principale del Lago dei cigni, quello della morte, così, per svolgere appieno il suo ruolo di educatore e di educatore che voleva provare, santo subito, a incuriosire le nostre giovani menti, a attirarle in un luogo altro, la cultura. Dopo avercela fatta ascoltare ci ha chiesto cosa questo brano ci ispirasse, come a dirci che la musica, anche in assenza di parole, come nelle canzoni, era in grado di raccontare storie. Io alzai la mia giovanissima mano, erano i primi mesi delle scuole elementari, io sono nato a giugno, non avevo neanche compiuto sei anni e mezzo, e dissi che mi faceva venire in mente qualcosa che avesse a che fare con un animale che si lascia morire. La cosa lo stupì al punto di convocare mia madre, un raro caso di performance scolastica degna di nota, invitandola a farmi approfondire la musica, perché, diceva, avevo un talento innato, una sorta di cuore assoluto, corrispettivo sentimentale dell’orecchio assoluto, ero cioè capace di capire cosa un compositore voleva dire, seppur involontariamente. Questa del cuore assoluto, che oggettivamente è una bella idea, una trovata letteraria degna di uno scrittore quale in effetti sono, il maestro non l’ha neanche sognata, figurati se un maestro elementare negli anni settanta si potesse permettere di lasciarsi andare a una visione tanto poetica, tanto più un maestro omosessuale riconosciuto come tale, quindi maestro al solo scopo di circuire bambini innocenti, questo che avete appena letto non è un mio giudizio, ma una sorta di proiezione temporale ai tempi in questione, ricordo, a mezze parole, che in casa mio padre raccontò che a un certo punto non lo avevano più fatto arbitrare, ritenendo non corretto che stesse in mezzo a tanti giovani in calzoncini corti, roba che oggi ci farebbero su un romanzo, un film o una serie tv. Di fatto mia madre prese alla lettera i consigli del maestro, e io mi ritrovai a suonare il clarinetto nella Banda di Ancona, con un maestro basso e con le mani tozze e callose, la voce rauca, dentro la sede del Buon Pastore devastata dal terremoto di qualche anno prima, il 1972. L’hanno tirata a lucido di recente, la sede del Buon Pastore, coi tempi tutti anconetani che ha visto il Teatro delle Muse ricostruito quasi sessant’anni dopo il bombardamento che l’aveva distrutto. Ci siamo stati una sola volta, al Teatro delle Muse, riaperto quando già abitavamo a Milano, per ascoltare Keith Jarret e il suo trio in concerto, una cosa spaziale, in un weekend folle che ci aveva visto prima passare il sabato e la domenica nell’agriturismo che all’epoca aveva a Carpineti, sui colli reggiani, Massimo Zamboni, quel Massimo Zamboni lì, dei CCCP e CSI, amico sulla cui amicizia non intendo però soffermarmi ora, poi da lì andare in Ancona, ascoltare il concerto in questione, strepitoso, interrotto poi durante i bis perché a qualcuno è suonato il cellulare, allora si chiamavano ancora così, a casa a dormire, e via, verso Milano il lunedì mattina all’alba, ché Marina doveva tornare in ufficio per le nove, Lucia, allora di un paio di anni, lasciata per la prima volta lontana da noi, dalla nonna. Tornando però al Buon Pastore, all’epoca non ristrutturato, le travi di legno a reggere la facciata, lì un maestro di musica di cui non ricordo ovviamente il nome, mi insegnava i primordi del solfeggio, noiosissimo, e come far uscire note da un clarinetto, oltre che come preparare l’ancia per farlo suonare. Esperienza di un anno, forse anche meno, perché il clarinetto non mi piaceva, e perché ero decisamente troppo giovane per suonare nella banda cittadina, per altro musica assai meno raffinata di quella che si ascoltava in casa, Lago dei cigni compreso. Perché sì, avevo bluffato, sono sempre stato un cialtrone, uno bravo a vendere agli altri quello che ancora non ero, ma credevo, a volte a ragione, che sarei potuto diventare. Avevo azzeccato, a grandi linee, la storia del Lago dei cigni perché conoscevo la storia del Lago dei cigni. La conoscevo perché con mia madre e mia sorella Caterina, sei anni più grande di me, andavo tutte le domeniche ai Concerti della domenica, non saprei mettere le mani sul fuoco sul nome di questo cartellone, una serie di concerti di musica classica che si svolgevano nell’aula magna del Liceo Classico Rinaldini della mia città. Ogni domenica un concerto, con tanto di introduzione. Lì avevo sentito per la prima volta una esecuzione, immagino sommaria, del Lago dei cigni, e poi l’avevo riascoltata a casa, nello stereo col quale mia sorella ascoltava la musica che poi doveva studiare al Conservatorio Rossini di Pesaro. Lei studiava oboe, e in quello si sarebbe diplomata, col maestro Volpe di Rovigo, questo me lo ricordo bene, non saprei dire perché, come ricordo che a Rovigo, ogni volta che ci passavamo per andare in montagna, i miei hanno passato le vacanze estive, sempre in montagna, prima a Vigo di Fassa, poi a Ziano di Fiemme e Pozza, poi in altri luoghi, sempre nelle Dolomiti, anche per questo, credo, io odio la montagna, come odio la ripetitività, e sia messo agli atti, odio anche la musica classica, ma di quell’odio carico di eros che fa tanto film di Michael Haneke, ricordo, comunque, che a Rovigo pioveva sempre, una specie di Seattle italiana, senza però aver dato vita a Hendrix, il grunge o Grey’s Anatomy, ogni volta che ci passavamo pioveva che Dio la mandava. Comunque, mia sorella studiava oboe e per questo ascoltava in casa musica classica, e per questo, credo, andavamo tutte le domeniche al Rinaldini a ascoltare concerti di musica classica. O magari è il contrario, siccome andavamo tutte le domeniche al Rinaldini a ascoltare musica classica mia sorella Caterina ha iniziato a suonare oboe, potrei anche chiederglielo, solo ne avessi voglia. Di fatto io sapevo la storia del Lago dei cigni, e quando ho parlato in classe ho bluffato. Non ho mai capito, in verità non ci ho mai pensato fino a adesso che lo sto scrivendo, vai poi a sapere se quello che ho scritto è vero o frutto di una mia ricostruzione fantasiosa, succede che mi reiventi anche il passato, oltre che il presente, non ho mai capito se mia madre avesse capito che avevo bluffato, lei sapeva in effetti che io avevo già ascoltato il Lago dei cigni, o se aveva semplicemente rimosso l’informazione perché sapere che avevo un talento musicale era esattamente quello che in cuor suo voleva sentirsi dire, lei nipote di un direttore d’orchestra di Tolentino, uno che poi aveva sperperato tutti i suoi averi, costringendo la famiglia a cambiare città, lei settima di otto fratelli, in realtà non vigesse il patriarcato dovrei dire sorelle, un solo fratello, Giorgio, sesto in linea temporale basta però a rendere le sette sorelle parte di un generico “fratelli”, tutte appassionate di musica classica, forse a eccezione della più piccola, Giuliana, quasi tutti i miei cugini con almeno un tentativo di studiare uno strumento, credo la sola Caterina e mio cugino Giovanni, violinista, a portare a termine gli studi. Di fatto mi era bastato parlare di animali morenti e mi ero trovato nella banda di Ancona, mi era bastato dire che la banda non faceva per me per trovarmi a studiare all’Istituto Pergolesi, la depandance del Conservatorio di Pesaro lì, nella nostra città. Il fatto che Pesaro avesse il Conservatorio e Ancona no, confesso, mi ha sempre lasciato perplesso, cresciuto come sono nella convinzione che Ancona fosse una grande città, era il capoluogo di regione, quella che si citava nello spelling, A come Ancona, oltre che la più citata nel gioco Città, Frutta, Animali e non ricordo cos’altro, anche se volendo vincere toccava andare su Asti o Alessandria, Ancona decisamente inflazionata. Al Pergolesi, sette anni, io studiavo violoncello, dal maestro Moscardelli, e solgeggio con la Rosignoli. Moscardelli abitava esattamente davanti a casa mia, al numero 2 di via Vittorio Veneto, fatto che aveva indotto lui a proporre e i miei a accettare, di andare a fare lezione direttamente a casa sua, una sala buia, le serrande sempre tirate giù, la puzza di pece, la pece veniva usata sull’archetto, per farlo scivolare sulle corde dello strumento, davvero ricordi orribili, anche oggi. Ricordi orribili che, dopo circa tre anni, mi porteranno a chiedere di cambiare di nuovo, diciamo che la costanza non è mai stata il mio punto di forza, passando a suonare il pianoforte, sempre lì, al Pergolesi. Mia sorella si era fidanzata con Mauro, di lì a breve suo marito, e Mauro, che lavorava per una azienda che aveva a che fare coi riscaldamenti, non ricordo esattamente le specifiche, da giovane aveva fatto il turnista suonando per Roberto Soffici e Luciano Rossi, quello di Ammazate oh, che io confondo sempre con Stefano Rosso, quello di Una storia disonesta, quella di “che bello, gli amici, una chitarra e uno spinello”, fatto, quello di essere stato un turnista, e di essere ancora parte della più popolare band da feste di piazza delle Marche, la Smile Orchestra, una specie di istituzione, grande appassionato di Billy Joel e Stevie Wonder, era un pianista autodidatta di grande talento, fatto che suppongo avesse influenzato la mia scelta, ancora una volta assecondata dai miei, e quando dico i miei intendo mia madre, credo di non aver mai sentito mio padre dire una parola riguardo la musica classica, lui grande appassionato di Modugno, e in seguito di Renato Zero e di Elio e le Storie Tese.

Per farla breve, si fa per dire, atterro sul pianoforte, dotato comunque di un buon orecchio, sapevo già tirarmi giù le canzoni che ascoltavo senza bisogno di spartiti, a volte anche i motivi di musica classica che dovevo studiare, tipo la Marcia turca di Mozart, o la anche troppo stereotipata Per Elisa di Beethoven, e dopo un po’ il calcio si mette tra me e la mia passione per la musica, passione, lo avrete intuito, lievemente indotta. Fino a quel momento non ho mai potuto giocare, perché se no mi sarei fatto male, e mi si sarebbero rotte le cartilagini, fondamentali per suonare il violoncello come il pianoforte. Per questo, amando anche il calcio, sono diventato un piccolo campione di Subbuteo, passione che porterò avanti fino al Liceo, andando a fondare un mio club, dedicato al concittadino Andrea Agostinelli, titolare dell’Atalanta e mio vicino di casa. Quando però la voglia di giocare si fa troppo forte, comincio a superare i divieti, per altro dimostrando di saperci fare coi piedi più che con le mani. Poco prima del matrimonio di mia sorella mi rompo il malleolo del piede destro, una gamba, la destra, destinata nel tempo a subire diversi infortuni, al punto da maturare in me la necessità di diventare ambidestro, se non vero e proprio mancino, cosa che in effetti accade, la caparbietà non mi ha mai fatto difetto, nelle foto del matrimonio di mia sorella con Mauro esibisco un gesso fino al ginocchio, infatti, gesso che non mi ha impedito di continuare a giocare anche così, e questo attesta quanto la passione per il pallone si stesse facendo preponderante. Al punto che, di fronte a esplicita domanda “scegli, o la musica o il calcio”, non ho esitato un secondo, andando a tirare due calci al campo della Lunetta, nannimorettianamente poi diventato un parcheggio.

Ecco, questo credo sia stato un errore gravissimo, per la mia vita professionale. Errore di cui mi sono in realtà accorto di lì a un paio di anni, quando ho preso la chitarra di mio fratello Marco, otto anni più di me, mai utilizzata, in verità, chitarra che era entrata in casa per assecondare la sua passione per la musica della west coast, passione poi passata anche a me, e ho cominciato a studiarmela da solo, agevolato dagli anni di studi classici, ma comunque autodidatta, ma che oggi mi pesa non poco, perché avessi conseguito il diploma del Conservatorio saprei decisamente più cose di quante non ne sappia, non ho mai smesso di studiare teoria, ma una cosa è farlo da solo una cosa farlo in maniera più programmatica, e soprattutto potrei fischiare Hell Raton senza paura di sentirmi rimbrottare che non ho i titoli per farlo, sia mai che uno fischia il producer della Machete e giudice di X Factor senza essere prima passato da esami di composizione e solfeggio. Certo, ho conoscenze di armonia e so cosa sia la dinamica, e so mettere le mani su diversi strumenti, in casa ne ho una decina, alcuni anche decisamente importanti, parlo di bassi, chitarre, pianoforti elettrici, ma quello che so è frutto di ore di studio personale, vorrei avere più capacità di quante un talento decisamente non eccelso, so bene che non è il saper suonare il mio talento, infatti faccio altro, mi consente. Errore gravissimo, appunto.

L’altro errore, a sua volta gravissimo, l’ho commesso, fatto ancor più grave, gravissimo, pochi anni fa, quando cioè ero già un critico musicale e quando, peggio me la racconti, la musica mi aveva dato modo di comprare una casa, certo in buona compagnia di mia moglie e del suo lavoro, e stava appunto portandoci a venderla per comprarne una più grande. Preso come ero dal furore di dover eliminare cose che ritenevo superflue o obsolete, non ho mai capito perché quando si lascia una casa per una più grande, quindi più spaziosa, si tenda a buttare via un sacco di cose, come se si dovesse in effetti passare da una casa grande a una piccola, ho deciso che avrei dovuto buttare via la mia collezione di audiocassette. È vero, stavano da sempre in cantina, le avevo portate a Milano nel tempo, da Ancona, perché quando ero arrivato a Milano erano già state sostituite dai cd, i vinili sono ancora lì dove devono essere, ma non avevano fatto male a nessuno, se non si vuole ritenere un male l’occupare una quantità ingente di spazio, quasi tutto quello che non era occupato da immani quantità di libri, anche essi passati da cantina a cantina, dentro scatoloni sigillati. La faccio breve, e due, si fa sempre per dire, decidiamo di cambiare casa, e io mi lascio andare a questa idea folle di liberarmi della mia collezione di audiocassette. Va beh, dirà qualcuno, che sarà mai?, qualche cassetta da buttare, ci siamo passati tutti. Immagino di sì, nel mio caso si parla di oltre diecimila audiocassette, quasi tutte registrate, cioè non originali, catalogate in maniera maniacale, pochissime le compilation, mi stavano sul culo da giovane, le compilation, figuriamoci che stima ho oggi delle playlist. Diecimila audiocassette, in buona parte da 90 minuti, adoravo le BASF, pensate di quanti scatoloni sto parlando. Una marea di cassette, per buttare le quali ho dovuto sfliare tutti i foglietti dove avevo appuntato i titoli dei brani, scritti sempre con uno stampatello molto preciso, le audiocassette nella plastica, i foglietti nella carta. Già che c’ero ho buttato anche una quantità immane di videocassette, quelle tutte originali, molte prese in edicola, un tempo erano in vendita con Panorama, con L’Espresso, quelle più d’essai con L’Unità, e molte prese usate da Blockbuster, lì parliamo di diverse centinaia, non di diecimila. Ne ho salvate poche decine, di audiocassette, e anche di videocassette, quelle a cui tenevo di più, e anche quelle che mi riguardavano, ho tutte le registrazioni del mio programma radio On The Rocks, che andava in onda settimanalmente su Radio Marche Ancona nei primi anni 90, ho anche qualche registrazione di concerti della mia band, gli Epicentro, Alessia, una mia amica di gioventù, mi ha anche girato una registrazione di quando con la GS Band ho cantato al diciottesimo compleanno di Marina, di lì a pochi mesi la mia ragazza, oggi mia moglie, cassetta che ha spopolato in Ancona a quei tempi, girata pirata per chissà quante case, come del resto era assai popolare la Pentiganò degli Epicentro, ancora oggi ricordata da chi negli anni Novanta c’era o da chi ha qualche fratello maggiore, se non genitore, che l’ha pogata sotto il palco.

Leggo in questi mesi che stanno rivalutando le audiocassette, le stanno cominciando a tirare fuori, sono nate delle collane a riguardo, anche delle piccole etichette specializzate in, nonostante fossero oggettivamente uno strumento indegno per ascoltare musica, poco fedele e con una tenuta nel tempo ridicola, pur figlia di un prezzo bassissimo. Non è certo questa nuova moda, per altro di ultranicchia, a spingermi a definire un errore gravissimo questo mio essermi liberato di diecimila audiocassette, così, come se niente fosse, anzi, con un iniziale senso di sollievo, le mode mi hanno sempre fatto cagare, non ho cambiato idea a ridosso della terza età, quanto piuttosto la consapevolezza di aver buttato via, irrecuperabilmente, un pezzo del mio passato, una testimonianza, a mio beneficio, di che musica ho ascoltato da giovanissimo, di come accostavo album a album, una porzione neanche troppo piccola di quel cuore assoluto di cui sopra. Del resto, nel trasloco precedente, mi ero liberato di oltre ottocento libri, praticamente regalati al Libraccio, visto che la biblioteca comunale di Ancona non li ha voluti, io che pensavo a una “donazione Monina”, e non saprei dire quante migliaia di cd, molti dei quali neanche scellophanati, quando ancora esistevano i supporti fisici e prima che si capisse che il mandarmi un cd non sarebbe equivalso a una buona recensione ne ricevevo decine ogni settimana, molti dei quali di generi che non avrei ascoltato neanche se mi avessero puntato una pistola alla tempia, mettici anche quelli estorti in redazione al momento dello smantellamento di Tutto Musica, quando alcuni colleghi si sono portati via anche sedie da ufficio e computer, beh, capite come io abbia davvero invaso il Libraccio, quello di via Vittorio Veneto, a Milano, di una marea di fuffa, fuffa probabilmente in compagnia di perle rare, che avrei potuto tenere o vendere oggi su Discogs, andando a farci bei soldi.

Diciamo che quando cambio casa, e non credo di volerne più cambiare, tendo a fare cazzate di cui mi pento in tempi neanche troppo lunghi, e che comunque due errori, seppur gravissimi, su una vita professionale non sono poi così troppi, non ho morti sulla coscienza, giusto qualche cantante in crisi di autostima, niente che qualche anno di psicoterapia non possa aggiustare.

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