Esce l’EP Sembra ieri di Ellen, le somiglia

Una voce importante, la sua, e non sto ovviamente parlando solo dello strumento che la natura le ha dato a disposizione, ma anche della sua lingua, la sua cifra, la sua arte


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Vengo dalla provincia. Di più, vengo da una provincia periferica, lontana dai centri nevralgici del paese, sempre che ce ne sia più di uno. Quando vieni dalla provincia ti abitui essenzialmente almeno a un paio di aspetti, centrali nella tua esistenza. Primo, la lentezza. Una lentezza dovuta a una assenza di fretta, certo, a volerla vedere con sguardo benevolo, ma pure a una certa noia, di quella che ti lascia il tempo di pensare, certo, e anche si sognare a occhi aperti. Secondo, guardare tanto a quei centri nevralgici, lontani, quanto alla periferia di quella stessa provincia, a chi quindi è ancora più lontano da tutto di te, con un certo disincanto, Ligabue ci ha costruito su un repertorio e non è neanche stato il solo a farlo.

Per questo, anche per questo, io che sono di Ancona, ho sempre sorriso molto su quella marchigianità che poi ho scoperto essere quasi sempre identificata con tutta una serie di caratteristiche, a partire dalla cadenza, anche mie. Sentirsi cittadini rispetto a chi si considera campagnolo è sempre una questione di sfumature, e forse anche di supponenza giovanile, di fatto quando allo stadio, per dire, negli scontri dirette con le altre squadre della regione la curva Nord dell’Ancona partiva facendo il verso al noto brano di Nino Ferrer, quello di Vorrei la pelle nera, Viva la campagna, cantando “La civiltà è bella ma viva la campagna”, rovesciando un po’ il senso di quella canzone e sfottendo, che so?, gli jesini per quel loro essere da noi considerati cafoni ho sempre riso molto. Avessi anche solo sospettato che altrove mi avrebbero fatto il verso esattamente alla stessa maniera.

Ecco, a Jesi, cittadini ricca dell’entroterra anconetano, famosa per il passaggio del Federico II, per Giovan Battista Pergolesi e poco altro, c’è un modo di dire che da giovane mi faceva impazzire, sintomo di quanto detto sopra, ma che oggi mi sembra davvero incredibile. Per dire “fotografia”, concetto piuttosto quotidiano anche prima che gli smartphone le rendesse davvero onnipresenti, lì dicono, o dicevano, “j’arsumeja”. Un modo dialettale, stiamo parlando di Jesi, non di Los Angeles, che tradotto in italiano suona come “gli assomiglia”. Ora, senza stare a tirare in ballo le note vicende dei nativi americani, che ritenevano che farsi fotografare equivalesse a farsi rubare l’anima, pensare che una foto non sia appunto una foto, quindi una immagine fermata su pellicola, oggi in digitale, quanto piuttosto la raffigurazione di qualcosa che ci somiglia mi sembra fantastico. Quasi una messa in discussione filosofica di quanto il tempo, anche le frazioni di secondo che dividono lo scatto di una foto dal guardarla, possa portare a noi e alla nostra rappresentazione. Magari tirando anche in ballo la faccenda, quella sì filosofica, del riuscire a capire se quel che vediamo, sentiamo, tocchiamo, sia uguale per tutti, se cioè il rosso che vedo io sia esattamente lo stesso rosso che vedi tu, un suono sia il medesimo suono, o non siano tutte riletture personalizzate di qualcosa che poi finiamo per canonizzare al solo scopo di non sentirci incredibilmente soli.

J’arsumeja. Gli somiglia.

In effetti, sarà capitato anche a voi, guardando delle foto di vecchia data, ma anche non vecchissime, di non riconoscerci appieno in quel che vediamo, lì a dire “siamo venuti male”. Per non dire con quel che succede con la nostra voce, chiunque abbia fatto esperienza di radio, o anche solo riascoltato un proprio vocale su Whatsapp, sarà trasalito, non riuscendo a riconoscere se stesso/a in quel che quell’audio ha riprodotto.

Parte da delle foto, quindi dei ricordi, quindi come si guarda ai ricordi e come ci si guarda dentro i propri ricordi, Ellen, cantautrice milanese, che proprio domani esce con il suo EP Sembra ieri, titolo quanto mai preciso, polaroid sparse a terra, su tavoli, su divani, e da lì si perde, la luce che fa ballare la polvere in controluce, la malinconia che si spintona con una gioia di vivere che sposta l’azione dal passato al futuro, il presente troppo labile da ritagliarsi uno spazio rilevante. Canzoni pop, certo, perché la luce che fa ballare la polvere è leggera di per sé, ma che proprio come quella luce, si avvantaggia della fascinazione che un pop d’autore può regalare, una voce in grado di sostenere sia quella leggerezza che quella malinconia, suoni solidi, sì, ma mai pesanti, anzi, quasi sorridenti, come di chi ha lo sguardo perso nel vuoto, appunto perso dentro chissà quale pensiero, ma non riesce a non tenere il tempo col piede.

Un lavoro iniziato quando eravamo tutti fermi, chiusi in casa, durante il lock down della primavera 2020, e uscito solo ora, anzi, solo domani, chissà se Ellen ci si riconoscerà ancora, riterrà che queste storie minimali, Carver le deve aver insegnato a tagliare fino all’osso, ma senza lasciare cicatrici, coincidano ancora con l’Ellen di oggi, anzi, quella di domani, e di dopodomani. Una voce importante, la sua, e non sto ovviamente parlando solo dello strumento che la natura le ha dato a disposizione, ma anche della sua lingua, la sua cifra, la sua arte, lo potete ascoltare qui.

Chissà se Sembra ieri, Ep fuori domani, l’arsumeja ancora.