Michielin, gli artisti devono anche stare sul cazzo, ma tu non ci riesci

Stare sul cazzo agli altri è una faccenda seria, difficile, a tempo pieno. Non confondiamo i professionisti con i dilettanti

MILAN, ITALY - Dec 6, 2022 : Singer Francesca Michielin attends the press conference of X Factor Italy Final 2022 at Forum Assago in Milan, Italy.


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Ho letto un pezzo di Claudio Cabona, collega con almeno due ottimi assi nella manica, la competenza e l’essere tifoso del Genoa, su Cani sciolti, il nuovo album di Francesca Michielin. Leggo pochi colleghi, per vezzo e perché, appunto, li trovo spesso poco interessanti, e quasi mai li leggo quando si occupano di artisti che ritengo irrilevanti, mix mortale come Roipnol e Champagne, auguri Kurt, solo credo con nessun tipo di fascinazione. Quello che mi ha colpito del suo pezzo sul nuovo album di Francesca Michielin, pezzo frutto del suo, di Cabona, aver preso parte alla conferenza stampa organizzata a riguardo su Milano, una volta tanto evito l’altro mio vezzo di girare vorticosamente intorno al vero incipit dei mie pezzi, è contenuto come claim nel titolo, “A volte gli artisti devono anche stare sul cazzo”, vuoi perché è una frase sbarazzina, con tanto di “cazzo” lì in bella mostra, vuoi perché dalla Michielin uno si potrebbe e dovrebbe aspettare altro, non è che basta dire cazzo per diventare un’anticonformista, infine, ma queste sono conclusioni mie, irrilevanti per quanto andrò a dire, perché l’idea che una artista, Dio mi perdoni, costantemente proposta in tutte le salse, parte di una scuderia importante, la medesima di Marco Mengoni e di Alessandro Cattelan, di una major che, nonostante una emorragia importante di dirigenti è pur sempre la seconda a livello mondiale, la Sony,con alle spalle un ufficio stampa potente, Goigest di Dalia Gabershick, che vanta nomi quali Laura Pausini, Eros Ramazzotti, Biagio Antonacci, Jovanotti e tanti altri, ecco, lei si ritenga un cane sciolto, appunto, e si ritenga tale perché scopo dell’artista è stare sul cazzo. Cioè, una che è costantemente dentro le televisioni e anche dentro le radio, ospitata nelle playlist giuste su Spotify, concorrente, duettante, direttrice d’orchestra a Sanremo, presentatrice di X Factor, titolare di un proprio programma ecologista su Sky, con un podcast che sta per partire con la seconda edizione, Maschiacci, un romanzo uscito per Mondadori, cinque album e un fottio di feat e collaborazioni in dieci anni di carriera, talmente mainstream da poter passare agevolmente da Eurovision al Mi Ami, si ritiene un cane sciolto, un outsider, una che deve stare sul cazzo, intendendo con questo il non dover/voler compiacere il pubblico, lo scansare la deriva populista a favore, semmai, di quella meramente pop.

Lascio da parte Cabona, che si sarà capito volevo omaggiare a prescindere dal pezzo in questione, spero abbiate apprezzato che non abbia citato anche Bresh, usato a mera scusa per parlare d’altro, della narrazione, quindi, e di come a volte basti decidere di raccontare qualcosa perché in molti prendano quel raccontare sul serio, senza quindi capire che un racconto è un racconto, come quando da bambini si tende a prendere alla lettera quel che si vede dentro la televisione (oggi probabilmente su un device), i fantasmi sono fantasmi, i draghi draghi, Johnny Depp può essere Willie Wonk come il cappellaio Matto, o Jack Sparrow, evitiamo di star lì a farci troppe domande a riguardo.

Un racconto è un atto di mediazione. C’è un autore (anche più autori), dei personaggi, una trama, uno spazio e un tempo in cui il racconto si svolge. A volte, quando il racconto esce dall’alveo della narrativa, penso al cinema, al teatro, ma qui stiamo parlando di racconti che atterrano nel mondo reale, pur rimanendo ovviamente racconti, c’è anche chi è chiamato a interpretare quei personaggi. Qui la faccenda si complica, ma è pur sempre qualcosa di facile da spiegare e quindi da comprendere. Perché la narrazione prevede una lingua, ovviamente, che è poi quella che chi scrive, in qualsiasi forma, adotta, uno stile, che è la forma con cui quella lingua viene usata, e una voce. Un racconto, qui sto facendo astrazione, ha una voce narrante, che può essere esplicitata o meno. La voce narrante può o meno coincidere con quella del protagonista, e può coincidere o meno con quella dell’autore. Quindi ci possono essere tre voci, quella dell’autore, che però è infiltrata nel racconto ma non visibile, quella narrante, che è la voce che accompagna la narrazione, e le singole voci dei protagonisti, se il racconto è in prima persona ce ne sarà una principale, quella dei coprotagonisti o personaggi minori che si esterna nei dialoghi virgolettati. Sulla carta sembra complicato, ma è sempre così, chiunque legga un romanzo o un racconto lo capisce, magari senza accorgersene in maniera chiara, alla stessa maniera per cui sappiamo che se accendiamo un fornello per far bollire l’acqua per la pasta sappiamo cosa accadrà senza conoscere appieno ogni singolo passaggio. Quando il racconto è quindi un racconto a uso di chi decide di confrontarsi con un personaggio pubblico, un interprete, appunto, la faccenda si semplifica per certi versi, nessuna voce narrante, nessuna presenza della voce dell’autore, un personaggio definito e scritto che però si confronta con la realtà, quindi senza seguire pedissequamente un copione, e al tempo stesso si complica, perché per il pubblico, loro sono i beneficiari di questa narrazione, spesso pretende sincerità e verità laddove la verità è un concetto labile e indefinito e la sincerità può al massimo essere intesa come un mood, non certo come una armatura.

Tutto questo per dire che Francesca Michielin, la Francesca Michielin che sta occupando militarmente i media negli ultimi anni, è un personaggio, magari un personaggio di cui è lei stessa autrice, non la conosco personalmente se non per averci scambiato due battute anni fa, esattamente come lo sono io, inteso non tanto come colui che ne sta scrivendo, quanto più come colui che voi vi siete prefigurati sia il me stesso che sta scrivendo, e ve lo siete prefigurati per le parole che ho scelto anche in questo pezzo, per il modo in cui ve le ho porte, per come sono uso apparire sui social e via discorrendo.

Tempo fa, parecchio tempo fa, ho letto un’intervista a Stefano Benni, non credo serva spiegare chi è, nella quale decantava i meriti della narrativa rispetto, che so, al cinema, erano tempi nei quali la digitalizzazione era ancora lontana, e l’idea di usare i computer per alterare la realtà, almeno sul piano visivo, erano quasi fantascientifici. In quel frangente Benni disse qualcosa come: “il bello della scrittura è che se io scrivo che adesso irrompono in scena seicento elefanti in effetti irrompono in scena seicento elefanti, in qualsiasi altro tipo di narrazione è impossibile”. Ora, a parte l’anacronismo dell’aneddoto che ho scelto, oggi puoi davvero far apparire tutto, col DeepFake potrei anche fare un video in cui Benni dice che la sua narrativa fa cagare, immagino, resta pur vero che la narrazione parte da un patto di fiducia tra lettore e autore, nel quale al lettore viene chiesto di credere sempre e comunque all’autore, pena il crollo di tutto il castello di carte messo in piedi, a patto, ovviamente, che la narrazione sia avvincente, credibile non per quello che dice, ma per come lo dice, i seicento elefanti non potrebbero irrompere qui secondo la logica o la natura, ma far fare astrazione è uno dei principali compiti del narratore.

Francesca Michielin non è un cane sciolto. Non fa incazzare nessuno. Non farà populismo, non voglio mettere in dubbio che le sue “battaglie” ecologiste e femministe non siano supportate da sincera adesione ai concetti esternati, ma sicuramente non esce mai dal recinto del mainstream, neanche quando finisce a cantare al Mi Ami, che ormai da tempo è una sorta di foresteria del mainstream stesso, per molti addirittura un trampolino di lancio per provare a lanciarsi a peso morto in quel laghetto lì. Francesca Michielin è quanto di più sistemico si possa pensare, e non è una brava narratrice (o non è una brava interprete, non saprei dirlo con certezza) nel momento in cui prova a intortarci con la faccenda del cane sciolto, del doversi schierare, del dover andare controcorrente, essere, appunti, cani sciolti. Per altro, ma questa è una nota a margine buona giusto per una chiosa, non riuscirebbe a stare sul cazzo a nessuno anche volendo, anche, che so?, se dopo aver mangiato all’indiano, come cantava in non ricordo più quale canzone frutto di non saprei dire quale collaborazione, decidesse di salire in ascensore con noi e scoreggiare. Stare sul cazzo agli altri è una faccenda seria, difficile, a tempo pieno. Non confondiamo i professionisti con i dilettanti.

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