Laggiù Qualcuno Mi Ama, l’omaggio di Martone a Massimo Troisi

Dal 23 febbraio nei cinema il documentario sul comico, che il 19 febbraio avrebbe compiuto 70 anni. Un racconto con testimonianze e materiali d’archivio sull’attore e regista Troisi. Che fu voce di una generazione. E ormai icona senza tempo

Laggiù Qualcuno Mi Ama

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Laggiù Qualcuno Mi Ama è l’omaggio-bilancio-riflessione che Mario Martone ha voluto dedicare a Massimo Troisi, che avrebbe compiuto settant’anni il 19 febbraio, e invece ha superato appena i quaranta, scomparso tragicamente nel giugno del 1994 per i gravi problemi cardiaci che ne hanno segnato la carriera. Ieri il documentario è stato proiettato in anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Berlino, nella sezione Special, e dopo una serie di proiezioni straordinarie previste per il giorno del compleanno uscirà nelle sale il 23 febbraio.

Ed è immaginabile che otterrà riscontri significativi, perché ciò che più aiuta a rammentare questo lavoro affettuoso e nutriente è proprio la traccia duratura segnata dall’attore e regista napoletano (Martone insiste molto sulla dimensione autoriale e non solo d’interprete di Troisi) che costituisce – a una distanza ormai trentennale che consente una valutazione critica oggettiva del suo lascito – una figura fondamentale del pantheon dello spettacolo italiano.

E questo non solo per la forza proverbiale delle sue gag passate attraverso molteplici contenitori (dal cabaret della Smorfia con Lello Arena ed Enzo Decaro ai film, fino a certe fulminanti gemme satiriche nascoste in partecipazioni, o persino interviste televisive apparentemente di servizio). Ma anche per l’importanza persino sociologica che riveste il personaggio creato da Troisi nel passaggio tra anni Settanta e Ottanta, dall’impegno politico (che non gli era certo sconosciuto) al riflusso, e nel riequilibrio del rapporto tra i sessi, con il femminismo e la messa in discussione del machismo che la figura del “fragile” Troisi cinematografico così perfettamente incarnava.

Mario Martone la profondità storica della “maschera” Troisi in cui si annodano tempi e fatti di quei decenni la dichiara esplicitamente sin dall’inizio di Laggiù Qualcuno Mi Ama, con un montaggio serrato di spezzoni d’archivio che restituiscono la temperie sociale, conflittuale, povera e proletaria della Napoli post-Sessantotto, recuperata pure attraverso protagonisti della cultura di quella stagione, come Antonio Neiwiller e Annibale Ruccello anch’essi morti giovanissimi. Elementi e presenze che aiutano a definire il contesto umano, politico, identitario da cui gemma non accidentalmente la poetica di Troisi, intimamente collegata a un’epoca di cui si fa interprete dalla sua peculiare prospettiva di attore-autore la cui fisicità, mimica, uso della lingua, tutte incespicanti e frammentate, si fanno interpreti del disagio e delle inquietudini delle nuove generazioni di quell’epoca.

Ha ragione Goffredo Fofi, tra le tante voci intervistate in Laggiù Qualcuno Mi Ama – non tutte essenziali –, quando dice che in una cultura e una comicità fatta da adulti come quella della tradizione partenopea, Troisi segna una discontinuità. È la prima voce adolescente e giovane, immediatamente riconosciuta come tale dai suoi coetanei per la capacità di raccontarli in una chiave che non era più quella obbligatoriamente severa dei gruppi dell’impegno settantesco (che ancora si ritrova nel cinema coevo, sebbene autocritico, di Nanni Moretti, per esempio), bensì con una forma di leggerezza che riscopriva e rendeva lecita la dimensione individualistica (anche narcisistica) alle prese con privato e sentimenti.

Sui quali, comunque, sapeva gettare uno sguardo spietatamente ironico e autoironico, perché sotto la mitezza caratteriale Troisi non era né tenero né conciliante, e decisamente selettivo nelle scelte artistiche – pochi film, rare partecipazioni televisive e senza smania di apparire (come l’annunciata presenza al festival di Sanremo del 1981 per lanciare Ricomincio Da Tre, all’ultimo saltata per i paletti censori posti dalla Rai, con Troisi che, intervistato, impossibilitato a parlare di politica, terrorismo e terremoto, dice di star decidendosi se recitare una poesia di Pascoli o una di Carducci).

Convince meno Laggiù Qualcuno Mi Ama quando Martone prova a creare connessioni cinefile tra la maschera Troisi e l’Antoine Doinel truffautiano. Non credo la sua grandezza necessiti della costruzione di filiazioni o relazioni critiche postume e un po’ posticce. Però il documentario è ricco di intuizioni, quando ad esempio Paolo Sorrentino – il cui ultimo È Stata la Mano di Dio è per sua esplicita ammissione visceralmente legato a Troisi, proprio all’estetica del suo cinema – sottolinea come la lentezza ne costituisca una cifra essenziale, la “comicità non fulminante”, dice, in un mondo di comici tragicamente affetti da logorrea.

Il suo cinema, è lo stesso Martone a sottolinearlo, è fatto di vuoti, o meglio di una dialettica tra pieni e vuoti da cui originava la cadenza irripetibile e così musicale, frammentata e fragile, della sua arte. In questo senso, aggiunge Martone, “il cinema di Troisi era bello perché aveva la forma della vita”. Ne riproduceva le imprecisioni, e anche quella stanchezza che la malattia non poteva non rendere una compagna stabile della sua esistenza. Però sempre filtrata, tenuta a bada e riscattata dalla nota “malincomica” della sua ironia.

Tra le cose folgoranti di Laggiù Qualcuno Mi Ama c’è certamente il diario scritto di suo pugno da Troisi che regala al film Anna Pavignano, prima compagna e poi stabile sceneggiatrice dei suoi film (e giustamente cosceneggiatrice qui insieme a Martone). Quel volumetto serbato da decenni, denso di battute, soggettini, riflessioni, poesie, brandelli di quotidiano non solo dell’artista ma anche dell’uomo, diventa il leitmotiv del documentario, con brani letti da Toni Servillo, Silvio Orlando, Roberto De Francesco, Massimiliano Gallo, Pierfrancesco Favino, Lino Musella, che compongono una polifonia di voci nelle quali risuona quella di Troisi. Il che fa capire con ancora maggiore evidenza come il suo cinema, pur così discreto, minimalista e appartato, costituisse invece il riflesso di una voce collettiva, compiutamente generazionale.

Altro aspetto importante messo in luce da Laggiù Qualcuno Mi Ama è il tema inaggirabile della napoletanità. Martone lo affronta con chiarezza citando il sottofinale di Pensavo Fosse Amore Invece Era un Calesse, quando Francesca Neri abbandonata all’altare il giorno del matrimonio legge il messaggio che gli ha scritto il non più promesso sposo Troisi. La scena è girata nel più oleografico degli scenari partenopei, il belvedere di san Martino al Vomero. Eppure Troisi regista si guarda bene dall’inquadrarlo, rifuggendo la cartolina.

Questo non perché Napoli non ci fosse nel suo cinema, matrice che ne cadenza il dialetto duro ed espressivo che sempre s’ostinò a parlare. Bensì perché l’identità napoletana da un lato in lui – e questo è un nuovo elemento generazionale di cui si faceva carico – costituisce non più un dato oggettivo “naturale” ma un problema emotivo e “culturale” con cui fare i conti. E dall’altro perché il non più emigrante partenopeo ma viaggiatore curioso del mondo – ed è ovviamente il Gaetano di Ricomincio da Tre – ha l’ambizione di diventare un uomo moderno la cui identità non si risolva tutta nella napoletanità. Non antinapoletano né anapoletano, ma magari, almeno, napolide.

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