Dolly, le pecore elettriche e i sogni degli androidi

Vi racconto una deriva particolarmente iconica e escatologica della pecora, animale che di suo è talmente poco dotato di personalità, da essere costantemente utilizzata per rappresentare l’omologazione


INTERAZIONI: 117

Ho visto cose che voi umani non potete immaginare.

Raramente capita che una semplice frase sia in grado di evocare scenari e immaginari tanto precisi quanto questi versi, recitati nel finale di Blade Runner da Rutger Hauer nei panni dell’androide Roy Batty.

La reciti, così, a memoria, e subito ti vengono in mente notti illuminate da neon e videowall in una Tokyo futuribile, con una Daryl Hannah quantomai conturbante, i negozietti che vendono cibi non catalogabili per noi occidentali, sporcizia e degrado in una strana idea di domani. Una sorta di Vecchio West traslato nel mondo della rete, anche se di rete non si parla, ovviamente, il film è del 1982 e è tratto da un romanzo del 1968, Blade runner di Philip K. Dick, meglio noto come Il cacciatore di androidi, ma a breve vedremo che anche quello è una riscrittura ex novo.

In realtà la frase esatta sarebbe “io ne ho viste che voi umani non potreste immaginare. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi beta balenare nel buio vicino alle porte di Tannahuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire”. E a recitarle un androide sul punto di farla finita, il tema del film è proprio la coscienza dei transumani, pensate quanto era avanti Dick, nel suo essere un pazzo visionario. A sentire quelle parole Deckard, il cacciatore di androidi di cui sopra, interpretato da Harrison Ford, uno che tra Deckard e lo Ian Solo di Guerre Stellari ha segnato col suo volto la fantascienza al cinema.

Dicevo del titolo del romanzo di Phil K. Dick, parlando di androidi, quindi di macchine dalle sembianze e non solo quelle degli umani, Dick intuisce che il rapporto tra aspetto fisico e anima, chiamiamola così, ma potremmo dire pure coscienza e consapevolezza di sé, è un aspetto che prima o poi dovrà essere oggetto di dibattito. Come del resto, nel mentre, lo intuiranno anche altri suoi colleghi scrittori di fantascienza, penso alle tre leggi della robotica di Isaac Asimov. Nel caso di Dick, questa intuizione è perfettamente racchiusa nel titolo originale di quello che, grazie proprio al film di Ridley Scott, diventerà il suo romanzo più famoso, Do Androids Dream of Electric Sheeps?, Gli androidi sognano le pecore elettriche?. Il riferimento è chiaramente relativo al nostro modo di dire “contare le pecore”, un modo contadino per prendere sonno, ma ben indica la domanda delle domande rispetto quel che a giocare con il transumano prima o poi finirà sotto i nostri occhi.

Pecore, quindi. È curioso che la pecora sia entrata nel nostro futuro o nella futuribilità attraverso il titolo di un classico della fantascienza, e come, poi, fisicamente, sia finita per entrare a gamba tesa nella storia, superando in corsia di sorpasso il cane Laika, lì disperso nello spazio dentro un razzo, come il protagonista di Space Oddity di David Bowie, infatti, la pecora Dolly è a tutti gli effetti il primo essere vivente clonato di cui si abbia notizia.

L’idea del doppio è sempre stata nelle fantasie dell’uomo, come quella della replicabilità, ma l’idea che un giorno la vita fosse decodificabile al punto da venir clonata, copie perfette come neanche nella massima idea di alienazione anticapitalistica (curioso che l’anticapitalismo finisse spesso, a livello di immaginario, per pascolare nel campo della medesima mancanza di identità, spersonalizzazione dovuta all’annullamento del principio di individuo) poteva anche solo ipotizzare. È il 5 luglio 1996 quando al Roslin Institute di Edimburgo viene clonata somaticamente una pecora, dando vita a Dolly, primo mammifero clonato al mondo. La nascita, chiamiamola così, di questo animale aprirà un dibattito tuttora aperto sulla clonazione, da una parte considerata una incredibile risorsa sullo studio delle malattie, umane e non, capace anche di salvare dall’estinzione specie a forte rischio, ma a grande rischio anche di eugenetica, spauracchio sin da quando, durante il nazismo, si è cominciato a lavorare su una selezione dei geni delle singole razze. A Dolly, che per la cronaca è vissuta fino al 14 febbraio 2003, meno dei dieci, dodici anni di vita media di una pecora, ma comunque abbastanza per poter dire che si tratta di un esperimento perfettamente riuscito, cosa invece non accaduta in tanti altri casi, anche precedenti a Dolly stessa. L’annuncio della clonazione che ha dato vita a Dolly avvenne in realtà un anno dopo, il 23 febbraio 1997, e il nome scelto, Dolly, era un omaggio alla cantante country statunitense Dolly Parton, per motivi piuttosto curiosi: la cellula da cui era partita la clonazione era una cellula mammaria, e Dolly Parton, oltre che per la sua voce e la sua simpatia, è famosa per avere una sesta di seno piuttosto generosa. A rendere possibile la nascita di Dolly, oltre che gli scenziati del Roslin Institute di Edimburgo, ben tre “madri”. Una ha fornito la cellulare contenente il DNA, quindi la pecora che poi verrà effettivamente clonata, una ha fornito la cellula denucleata al cui interno è stato inserito il nucleo clonato, e una è stata sostanzialmente la madre surrogata di Dolly, portando avanti la gravidanza. I resti imbalsamati di Dolly si trovano dal 2003 presso il National Museum of Scotland, nello specifico nel Royal Museum di Edimburgo. Il suo invecchiamento precoce, cui gli scienziati del Roslin hanno sempre replicato raccontando di come quasi tutte le pecore della fattoria che ospitava Dolly si fossero ammalate di polmonite, facendo la sua stessa fine, soppressa in quanto incurabile, hanno indotto il mondo scientifico a dichiarare che la tecnica di clonazione nucleare applicata su Dolly non avrebbe mai potuto funzionare con gli esseri umani, anche se basta farsi un giro per la rete per trovare paginate e paginate di siti complottistici, come di forum di liberi pensatori che sostengono come la clonazione umana sia in atto già da lungo tempo. Non fosse che il tema è serio verrebbe da sorridere, se non ridere apertamente, non perché la cosa sia da escludere a priori, quanto piuttosto per la sicurezza con cui se ne parla in totale assenza di prove.

Stando quindi ai fatti, le pecore elettriche sognate dagli androidi su cui si interrogava il titolo del romanzo di Philip K. Dick e la pecora Dolly, il primo mammifero clonato al mondo, per comodità considerato il primo animale clonato, fa sì che la pecora si sia trovata, suo malgrado, a occupare militarmente l’immaginario fantascientifico, animale in natura tutt’altro che invadente o aggressivo.

Curiosa questa deriva particolarmente iconica e escatologica della pecora, animale che di suo è talmente poco dotato di personalità, parte di un gregge, da essere costantemente utilizzata per rappresentare l’omologazione (in questo, forse, l’essere clonata ne è cristallizzazione). Anche se a ben vedere, su questo in tanti hanno ugualmente detto la loro, dai fratelli ora sorelle Watchowski in qua, l’essere omologati sembra una costante di quel che il futuro ha in serbo per noi, il divide et impera messo in atto dalla rete coi social, il depotenziamento dell’io dato da quell’uno vale uno cui molti avevano guardato con reali speranze democratiche, l’alienazione che più che agli alieni, da tempo scomparsi di scena, è figlia di questa frammentazione che è esattamente l’oggi e qui. Pensiamo alla musica, di questo ci si occupa da queste parti. Il genere che impera nelle classifiche di casa nostra, con un delay di qualche mese che a volte diventa anche qualche anno, è un mix tra pop e urban, l’indie e la trap a fare da colori primari, che vede come interpreti tutta una genia di artisti, Dio mi perdoni, intercambiabili. Intercambiabili in quanto in tutto simili ai propri colleghi, nei nomi bizzarri, certo, ma anche nel modo di porsi di fronte al microfono, chiamarlo cantare mi sembra davvero troppo, l’autotune a omologare ulteriormente le voci stonate, sgrammaticate, afone. Intendiamoci, non sono tra quanti ritengono che cantare con l’autotune sia cosa facile, che potrebbe fare anche un bambino. Provateci, se ci riuscite, ma l’autotune è un effetto che, se usato dal vivo, richiede una certa pratica, né più né meno di quella che richiede usare uno wah wah se si imbraccia una chitarra elettrica. L’autotune, però, omologa la voci, che finiscono per suonare tutte uguali, per altro non troppo distanti dal suono del belato delle già più e più volte citate pecore, l’effetto robotico, privo di profondità e di emotività, a occupare la scena. Se ci mettete che lo scrivere e interpretare questo genere è partita giocata da chi poi si muove esclusivamente su Spotify, o chi per lei, quasi mai dal vivo, sicuramente mai su fisico, digitale che non conosce analogico, ma più che altro digitale pensato per lo smartphone, le frequenze medie a farla da padrona, via le alte e via i bassi, niente dinamica, ché sullo smartphone funzionano i suoni piatti, ecco che abbiamo di fronte un genere omologato, da pecore, su cui cantano o ci provano artisti omologati, pecore. Pochi colori a disposizione sulla tavolozza di chi si muove su quelle frequenze, come un pittore che debba dipingere usando solo due dei tre colori primari, a volte anche solo uno. Melodie che si somigliano perché derivano da pochi ripetitivi giri armonici, quelli a disposizione ragionando in quei termini. Non è tanto un boomerismo dire che oggi le canzoni sono tutte uguali, è più un prendere coscienza che si somigliano tutte parecchio perché pochi fattori hanno a disposizione. Figuriamoci, per anni ci siamo sentiti dire, specie se accusavamo qualcuno di aver copiato qualcun altro, che le note sono sette, per altro notizia affatto vera, le note sono al limite dodici, stando alla notazione occidentale, e che quindi le combinazioni possibili sono limitate, cosa mai si potrà tirare fuori se le note a disposizione diventano anche meno, sensibilmente meno, e se a fianco di una melodia banale non si può che aggiungere una ritmica stereotipata, in assenza totale di dinamica.

Ripeto, omologazione, musica fatta da pecore clonate per pecore elettriche, ancor più che per androidi, con buona pace di Dolly Parton e del suo country, oltre che delle sue tette.

Continua a leggere su optimagazine.com