Il brusio del piovanello pancianera e il raid delle cantautrici

In questa epoca oscura di rapaci, da qualche parte, c’è uno stormo numeroso e talentuoso di cantautrici che, se solo capisse la potenzialità dello stare unite, potrebbe riempire tutto di merda


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Il rondone maggiore, nome scientifico Tachymarptis Melba, è in grado di volare per sei mesi di fila, senza mai fermarsi. Vola, mangia, si riproduce, dorme, tutto in volo. Alcuni studi parlano addirittura di dieci mesi su dodici in un anno passati senza mai toccare terra, complici le correnti di aria calda, che permetterebbero un volo continuo e senza bisogno di battere le ali, di qui il pter dormire in cielo.

Ho letto questa notizia, provando un misto di ammirazione e di sconcerto. Pensate che palle a dover stare costantemente in movimento, anche dormendo o trombando. Certo, chi di noi non ha dormito mentre magari faceva un volo transoceanico, mia moglie Marina dormirebbe anche durante la tratta Milano-Roma, in aereo, ma non è che su quel volo ci passiamo dieci mesi di fila, una sorta di versione aerea di Snowpiercer, né siamo noi a dover pilotare l’aereo (a meno che in quel noi non sia incluso anche qualche pilota, ma in genere un noi che anche includesse un pilota annullerebbe con tutte le altre professioni, io scrivo, questo pensiero), pensate l’ansia di svegliarsi di colpo e trovarsi, che so, al volante della propria auto. A me è capitato un paio di volte, quando per ragioni familiari mi trovavo a coprire quasi tutte le settimane la distanza tra Milano e Ancona, andata e ritorno, nel weekend. Il tutto dopo una settimana di lavoro. Marina, mia moglie, a dormire la mio fianco, il sonno a assalirmi con una costanza e una ostinazione quasi encomiabile, il caffè e l’aria fresca che entrava dal finestrino incapace di respingere quell’assalto. Roba di frazioni di secondo, intendiamoci, niente che abbia portato a incidenti o altro. Ma comunque un grande spavento, al punto che per un po’ ho preso a guidare bevendo Redbull, un’esperienza incredibile, la stanchezza sparita, le percezioni amplificate, roba che sentivo uno che metteva la freccia, il rumore ritmico di quel ticchettio, anche a distanza di metri, come una sorta di Spiderman con la barba, salvo poi leggere che effetti fa la bevanda austriaca su chi la prende senza poi sfasciarsi in un rave, e aver optato per smettere di guidare tutti i fine settimana su quella tratta. Il rondone di cui sopra, dicevano vari articoli, è in grado di coprire nell’arco della propria vita, che può arrivare fino a venti anni, qualcosa come quattro milione di chilometri in volo. A dirla tutta c’era chi sosteneva tre, chi cinque, il quattro è una mia conclusione salomoniana.

In realtà ho poi letto che una giovane pittima, uccello di cui ignoravo ovviamente l’esistenza, nel 2021 ha compiuto quello che viene considerato il viaggio più lungo compiuto da un uccello, stando almeno a quelli monitorati scientificamente, andando a coprire un tragitto di 13050 chilometri tra l’Alaska e la Tasmania, sorvolando l’Oceano Pacifico, il tutto in undici giorni, il che va un po’ a annullare la notizia precedente. Cioè, facendo un paio di calcoli veloci, quattro milioni di chilometri in venti anni fanno una media di duecentomila all’anno, a meno che il pittima, o la pittima, vallo a sapere, non abbia fatto quel volo tra Alaska e Tasmania per poi spiaggiarsi da qualche parte a bere un Daiquiri tra un reggaeton e un bagno, credo che in un anno ne coprirebbe quasi il doppio, la media è di mille chilometri al giorno, si decidano, queste riviste scientifiche. So anche, me lo ha raccontato Saverio Lanza, autore e produttore musicale, che esiste un uccello che per fare questo, attraversare oceani e coprire distanze lunghe in periodi di tempo ancora più lunghi, mangia fino a diventare quasi obeso, andando poi a consumare quanto mangiato durante il volo, come uno che abbia un serbatoio particolarmente capiente e che prima di partire faccia un pieno sufficiente per tutta la durata del viaggio, roba che dal momento in cui entrerà il vigore lo stop ai derivati del petrolio su strada sarà praticamente la fantascienza, l’idea di questo uccellino che parte obeso e arriva in forma è davvero curiosa, vai poi a capire se pure quella frutto di un qualche bontempone prestato alla scienza o del tutto reale.

Questa cosa degli uccelli migratori, vivo a Milano e più e più volte ho avuto a che fare con le evoluzioni incredibilmente affascinanti degli storni, una volta mi è capitato anche di assistere a un bombardamento di uno di questi storni degno di Dresda, tutti in strada a ammirarli e un attimo dopo a scappare, colpiti da centinaia di pallottole di merda d’uccello, come in un diluvio universale senza però l’ausilio di un’Arca di Noè a trarre qualcuno in salvo, io il solo saggio nascosto sotto un albero, mi ha sempre affascinato, ma mi è tornata in mente per un motivo che con gli uccelli di per sé avrebbe poco a che fare, Guillermo Del Toro. Ho infatti visto su Netflix gli otto episodi della serie da lui ideata, Guillermo Del Toro’s Cabibet of Curiosities, e l’ultimo episodio, Il brusio, parla appunto di due studiosi del Piovanello Pancianera. Un piccolo uccello migratore, il Piovanello Pancianera, visibile anche da noi in Italia, protagonista di migrazioni transoceaniche. Che gli uccelli siano animali tanto familiari e al tempo stesso enigmatici al punto da finire come spunto per storie di paura non è certo una scoperta di Guillermo Del Toro, basti pensare a Alfred Hitchcock, che per altro Del Toro cita esplicitamente a ogni inizio di puntata, considerato a ragione uno dei capolavori del maestro inglese. Nell’episodio cui facevo riferimento, però, la cosa che mi ha colpito avviene proprio all’inizio quando la protagonista, una ornitologa problematica assai poco calcolata a livello accademico, mostra in video a studenti e colleghi una serie di evoluzioni fatte in volo da uno stormo di Piovanelli Pancianera, ultima coreagorafia dei quali del tutto identica a un enorme uccello, modo con cui questi piccoli e paciosi uccellini spaventano i loro nemici. Qualcosa di affascinante, seppur piuttosto distante, per dire, dall’idea pacificatoria e in perfetta sintonia col creato che passava dalle liriche de Gli uccelli di Franco Battiato. Cosa quei Piovanelli Pancianera lì a compattarsi fino a creare, come in un flashmob di quelli che in genere siamo abituati a vedere sui social, un gigantesco rapace, mi abbiano ispirato è ovviamente la parte fondante della trama della seconda parte di questo testo, dove al mondo dell’ornitologia, anche qui non dico nulla di nuovo, andrò a sovrapporre il magico mondo della musica, provando a essere il più possibile coerente e credibile.

Partiamo quindi dagli ingredienti che ho fin qui buttato sul tavolo, manco fossi Benedetta Rossi, quella di Fatto in casa da Benedetta. Ho parlato di uccelli migratori capaci di compiere imprese erculee, voli transoceanici, record impensabili per mezzi sofisticati costruiti dall’uomo, figuriamoci per piccoli esserini fatti di piume e penne, certo mettendo in dubbio la veridicità di alcuni passaggi, ma comunque sottolineandone la potenza fisica e anche quella estetica. Sono poi passato, a volo d’angelo, mi si passi questa grammatica popolare, a parlare di horror, certo horror di qualità, da Hitchcok a Guillermo Del Toro, citando classici e roba contemporaena, per poi includere nel discorso, en passant, Battiato e il suo fare i conti col mondo. Su tutto, per posizione occupata nella narrazione e enfasi usata nel modo di raccontarlo, lo stormo di Piovanelli Pancianera che danzando in cielo vanno a formare un gigantesco uccello in grado di spaventare predatori molto più cattivi e grossi di loro, singolarmente.

No, non è vero. Non è vero niente.

Certo, il rondone maggiore è in grado di volare per sei mesi di fila. Il o la pittima ha battuto un record volando per 13050 chilometri di fila, tra Alaska e Tasmania. L’ultimo episodio della serie Netflix di Guillero Del Toro parla del Piovanello Pancianera e delle sue evoluzioni, fornendomi per altro il gancio per allestire tutto un parallelismo tra piccoli e apparentemente innocui esserini, fragili e leggeri, e i cattivi predatori, i primi a unirsi usando la fantasia al punto di mettere i secondi in fuga, ma non è di questo che andrò a parlare ora, è scritto nelle stelle. Tutto questo mio parlare di uccelli migratori, e di permanenze in aria, di circonvoluzioni lunghe e articolate era finalizzato a farmi dire di quella volta che un diluvio di merda è piovuto sui passanti innocenti di via Teodosio, a Milano, lì si svolgevano i fatti, a Città Studi. Un modo di procedere, il mio, che volendo avrei potuto spacciare per uno stilosissimo riprodurre con parole e frasi quelle circonvoluzioni affascinanti dei Piovanelli Pancianera, voi lì con naso per aria a leggermi, ma era solo di uno stormo di uccelli che ha cagato sulla folla che volevo dire, l’ho fatto, ora vado oltre.

Perché quello di cui volevo in realtà parlare sin dalla prima parola vergata di mio pugno, si fa per dire, è di chi, oggi, dovrebbe andare a muoversi come quello stormo di uccelli. Certo, ripeto, l’immagine dei Piovanelli Pancianera che si coalizzano per andare a costruire, ognuno a svolgere il proprio ruolo in quella elaboratissima figura geometrica, un gigantesco rapace capace di spaventare il nemico, i continui riferimenti a Hitchcock e Del Toro stanno lì per quello, no?, sarebbe stata di suo abbastanza potente, ma non era alla potenza evocativa che volevo mirare, né all’idea mera e semplice dell’unione che fa la forza, non sono certo i Piovanelli Pancianera i soli animali che si mettono insieme per combattere avversari più forti, volevo semmai andare a ipotizzare un futuro, un futuro prossimo, in cui chi oggi più di ogni altro è rappresentabile da un essere fragile, bello e in grado di compiere evoluzioni affascinanti è in grado di sommergere un pubblico sì incantato, ma anche passivo, volendo anche ingenuamente passivo, di uno squassante mare di merda. Certo, da qui alla fine dovrò elaborare un passaggio grazie al quale potrò dire, senza ambiguità, che la faccenda della merda nulla ha a che fare con la qualità delle opere di questi esseri fragile eccetera eccetera, o alla peggio muovermi con armonia su in cielo, distraendo chi legge, sperando non si soffermi troppo su questo passaggio, ohi, guarda, ora sta facendo una capriola a testa in giù.

Il fatto è che, in questa epoca oscura di rapaci, parlo di Spotify che non si è limitata a mangiare tutto il mangiabile, ma anche a ordinare il pasto per il giorno dopo, quel “meglio uscire con un pezzo al mese che fare un album” di Daniel Ek, lì, perentorio, come a chiedere agnelli sacrificali pronti via, in questa epoca oscura di rapaci e di mercato conseguentemente convulsivo, ogni settimana uscite di emeriti stocazzetti che si alternano in vetta, i vecchi dinosauri a guardare increduli dalle posizioni più basse, sapere che ci sono esserini in apparenza, si badi bene, in apparenza fragili, ma in realtà capaci di dire la propria, se solo qualcuno prestasse loro attenzione rincuora.

Sto ancora facendo circonvoluzioni, spero apprezziate, e sono in volo da qualcosa come milleottocento parole, milleottocentosedici, per la precisione, non dico come un rondone maggiore, milleottocentoventisette, ma quasi, voi col naso per aria, qualche altra parola e vi sarete dimenticati di quel che è successo in via Teodosio, io sotto un albero.

In questa epoca oscura di rapaci, da qualche parte, c’è uno stormo numeroso e talentuoso di cantautrici che, se solo capisse la potenzialità dello stare unite, lì, a fare circonvoluzioni affascinanti e ammirevolissime, potrebbe riempire tutto di merda, intendendo con questo, ci siamo, con il sovrastare gli altri e mandare a ramengo il mercato. Cantautrici che, proprio per quel loro essere altro rispetto i rapaci e quel che l’essere rapaci o l’ambire a essere rapaci prevede, sanno bene che devono e possono giocare un’altra partita, libere di andare per la propria strada, fare le proprie tratte dall’Alaska alla Tasmania, volteggiare per aria andando a inseguire traiettorie invisibili a occhio nudo. Se non mi passeranno mai in radio, perché non faccio parte dei giri giusti, perché non ho dato le edizioni al network giusto, perché semplicemente non mi omologo al canone dei due minuti e quindici, un numero fisso di BPM, il ritornello che entra subito, in barba a strutture consolidate negli anni, tanto vale fare canzoni che seguano strutture tutte loro, l’ispirazione, si sarebbe detto un tempo. Cercare un percorso non ancora battuto, farlo proprio, arrivare comunque dove ci si era fissati di arrivare, magari in buona compagnia. Ecco, la buona compagnia. Questo è forse quello che ancora manca. La consapevolezza del poter essere, unendosi, in buona compagnia, in ottima compagnia. Perché uno più uno fa due, e questo lo sanno anche i bambini dell’asilo, ma quando si parla di centinaia di nomi, ognuno dei quali con un proprio pubblico, fosse anche un pubblico di nicchia, beh, allora si potrebbe anche ipotizzare di avere per le mani una scena, numeri abbastanza alti da ingolosire proprio quei rapaci, ingolositi, sì, ma timorosi di fronte a questo stormo che nel mentre ha assunto le sembianze di un gigantesco uccello feroce. Si tratta solo di farglielo capire, alle cantautrici, di convincerle a fare squadra, ognuna con il proprio piumaggio, il proprio modo di intendere il volo, ma forti nel momento in cui ci si fa stormo, pronte a cagare in testa a quel pubblico che passa il tempo a naso per aria, inconsapevoli di quel che potrebbe capitare loro.

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