Favolacce, il film dei fratelli D’Innocenzo è una splendida fiaba nera

Un’opera che si sottrae ai luoghi comuni del “film sulle periferie”, e rimanda solo indirettamente alla realtà attraverso uno stile duro e oggettivo, favolistico e trasognato, spietato e tenero

Favolacce

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Della veloce, fulminante carriera dei gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, nati nell’88 e dunque ancor assai giovani, Favolacce (2020) – che ottenne anche l’Orso d’Argento per la sceneggiatura al festival di Berlino – resta per ora il risultato più alto, un film che nella dizione e nello stile trova una voce decisamente originale.

I due fratelli s’erano rivelati con l’esordio de La Terra Dell’Abbastanza (2018), pure quello passato a Berlino. Seppur pregevole, nella sua secchezza brutale quel film poteva essere riportato nell’alveo riconoscibile del sottogenere “cinema sulle periferia”, con storie di vite giovani e scellerate sempre sul filo dell’illegalità. Quello che colpisce invece di Favolacce, col geniale titolo da fiaba andata a male e corrosa dal male di vivere, è la volontà di scartare dal naturalismo della rappresentazione, senza affidarsi all’appiglio del racconto di un contesto socialmente riconoscibile.

La vicenda è incentrata su di una sterminata periferia alle porte di Roma di villette a schiera con giardino e area barbecue. Si faticherebbe però a individuare precisamente il dove di questi luoghi anonimi e anomici, insieme spazi fisici ed espressione di stati mentali e stili di vita indecisi e slabbrati.

Arroventata da un’estate molle e accidiosa, in questa sorta di piscina accaldata a cielo aperto vediamo muoversi un’umanità indeterminata come il mondo che la accoglie. I personaggi a partire da quello che sommariamente potrebbe definirsi il protagonista, Bruno (Elio Germano), appartengono tutti a una classe sociale indefinita (piccoloborghesi? ex proletari?), che forse s’è appena smarcata dalle proprie origini marginali, raggiungendo un piccolo benessere che teme possa franare a ogni istante. Bruno ne è l’esempio lampante, marito e padre di due ragazzini bravissimi a scuola, e però disoccupato e senza prospettive.

All’interno del racconto corale e plurale di Favolacce il ruolo dei ragazzini emerge con sempre più forza. Sono intelligenti e sensibili, dei preadolescenti alla scoperta di sé stessi, delle prime pulsioni e sentimenti. Diversamente però dal dettato neorealista modello “i bambini ci guardano”, in cui erano osservatori e vittime delle scelte sbagliate degli adulti, questi ragazzi, mossi da motivazioni profonde e forse per l’influsso d’un professore di scienze rancoroso (Lino Musella), esprimono la loro infelicità in un gesto insieme lucido (per la responsabilità che si assumono, diversamente dai genitori inetti), sconfortato e risolutivo.

La storia di Favolacce, di cui ovviamente non si può rivelare il colpo di scena, è più o meno tutta qui, tratta da un soggetto che i gemelli avevano scritto a 19 anni, e che è stato possibile realizzare grazie al credito acquisito con La Terra Dell’Abbastanza. Ma, appunto, non è tanto il cosa ma il come a colpire.

Mette in guardia da qualunque idea di realismo fotografico l’incipit, con la voce fuori campo di un narratore (Max Tortora) che dice di aver trovato nella spazzatura (dove altro?) il diario d’una ragazzina e di aver cominciato a leggerlo. E poi avverte lo spettatore del fatto che “quanto segue è ispirato a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. E la storia falsa non è molto ispirata”.

Favolacce resta sempre nel segno dell’ambiguità. Ambiguità sul piano della linearità dei tempi della narrazione (che comincia e finisce riportando lo stesso fatto di cronaca); ambiguità sociologica e geografica (il chi e il dove restano sempre indeterminati); e infine ambiguità del tono, con la durezza emotiva delle vite raccontate incartata nella presunta soavità della fiaba (fiaba nera, e sicuramente su questo aspetto l’esperienza del Dogman di Matteo Garrone, per il quale i D’Innocenzo hanno collaborato alla sceneggiatura, ha lascito tracce nutrienti).

I registi, ambiziosi, hanno dichiarato di non essersi voluti porre nella prospettiva della cronaca quanto dell’archetipo, issando lo sguardo oltre la minuta descrizione dei fatti, verso la rappresentazione di un ambiente, tanto fisico che esistenziale. Si faticherebbe però a presentare Favolacce come uno spaccato dell’Italia di oggi, perché troppo eterodosso rimane lo sguardo e inservibile a una lettura da dibattito sul paese reale, che filtra forse da certi dettagli, ma non si mostra mai nella sua interezza didascalica.

Resta volutamente impreciso il luogo tra città e campagna, come l’opaca classe senza classe dei personaggi. E lo stile composito accosta senza soluzione di continuità la favola a preziosità letterarie (il narratore che parla di “calligrafia acerba e sognante”, di “sensazione di misteriosa reticenza”) e a una messinscena a tratti scabra e oggettiva, con le riprese in campo lungo delle villette, l’osservazione distaccata di rituali in cui la famiglia simula una inesistente felicità – sempre sul punto di franare, come nel boccone di carne con cui un ragazzino rischia di strozzarsi.

Col senno di poi, che è quello del loro successivo, e però assai meno riuscito, America Latina, si potrebbe dire che Favolacce è il racconto di un’ossessione e di un’allucinazione. Però è difficile non riconoscere nella composizione accorta delle inquadrature fisse, gli esterni a distanza e certi interni minuziosamente descritti la volontà, con uno sguardo non tanto realista ma iperrealista, di scavare sotto la superficie di vite apparentemente ordinate per rivelarne l’artificiosità, la finzione sotto cui si agita un’angoscia autentica.

In America Latina questo meccanismo è stato mostrato in maniera fin troppo esemplare, tradotto materialmente in un sottoscala, tanto fisico che psichico, in cui si agitano i fantasmi del protagonista. Favolacce si muove su di un crinale più allusivo, che mescola brandelli di dolcezza, durezza e disperazione. Disperazione soprattutto per il deserto emotivo che il film radiografa, in cui si è ormai perso il canale di trasmissione di princìpi e valori da una generazione all’altra. I padri di fronte alle incertezze dei figli alle prese con il mistero della sessualità insegnano loro di viversela in maniera sbrigativa, asentimentale, senza tenerezza. E di fronte a una realtà così demoralizzante per loro non resta che la presa d’atto e la scelta di un rifiuto inappellabile.

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