Anna e l’Appartamento e il culo di Moby Dick

Anna è uno di quei talenti che sanno come mettersi a fuoco, esprimersi al proprio meglio, riconoscersi come risolti

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Sarà capitato anche a voi, immagino. Siete di fronte a qualcuno che conoscete poco, o che comunque non frequentate con quella continuità dal fare della sua presenza nella vostra vita qualcosa di familiare, di quelli di cui sai praticamente ogni reazione a qualsiasi tipo di stimolo. Sapete che questo qualcuno sta per affrontare un qualche tipo di sfida, un esame, una prova importante, magari sta semplicemente per tentare la sorte con un gratta e vinci, e di istinto gli dite il più classico degli “in bocca al lupo”. Potreste dirgli auguri, volendo, ma siete tra quanti ritengono che un in bocca al lupo abbia un influsso positivo maggiore, perché augurare una buona riuscita in qualsiasi campo a chicchessia, in genere, equivale quasi a portargli sfiga, al punto che tra amici, invece, tra persone cioè che si conoscono a tal punto da ritenerli giustamente parte della propria vita, finite sempre per dire a gran voce “Auguri” prima di quella prova, quell’esame, quel gratta e vinci, proprio per stemperare la tensione, depotenziare la sfiga, ribaltandola, mandare a gambe all’aria la scaramanzia.

Comunque, sarà capitato anche a voi di dire a qualcuno che non vi è parente stretto o amico intimo “in bocca al lupo”, attendendo per risposta il canonico “crepi”, perché guai rispondere “grazie” a un in bocca al lupo, questo è proprio l’ABC della scaramanzia modello basic, dici “grazie” e te la stai tirando addosso da solo, ecco, sarà capitato anche a voi e sarà quindi capitato anche a voi di sentire questo qualcuno cui avete detto “in bocca al lupo” rispondervi con un decisamente alla moda, contemporaneo, volendo anche figlio di questa epoca di cambiamenti climatici e giustamente fondamentale attenzione all’ambiente “viva il lupo”. Così, senza preavviso alcuno, senza neanche aver disseminato da qualche parte segni comprensibili a occhio nudo, a sangue freddo come il romanzo di Truman Capote, “In bocca al lupo”, “Viva il lupo”. Vi sarà capitato, allora, di provare un intimo senso di disagio, tipico di chi si trova in una situazione di imbarazzo, ma non dell’imbarazzo dettato dall’aver fatto qualcosa di imbarazzante, intendiamoci, ma dall’aver visto qualcun altro, il titolare di quel “viva il lupo”, mettersi alla berlina da solo, dando vita a una situazione che proprio in questa epoca, quella dei cambiamenti climatici e la giusta attenzione all’ambiente, i giovani definirebbero cringe, un imbarazzo conto terzi difficile da superare in cavalleria. Vi sarà capitato quindi di strabuzzare un poco gli occhi, come quando stiamo bevendo e qualcuno fa una battuta che ci fa tornare su di colpo l’acqua, ma non volete sputarla fuori, sul tavolo, quindi strabuzzate gli occhi come sforzo, per trattenere quella sorpresa. Tentati quasi, tentazione di poco conto, che riuscite in un nonnulla a mandare a fondo, senza lasciare tracce visibili, di chiedere ragione di quel “viva il lupo”, una risposta animalista, immaginate, come se si stesse davvero parlando di un lupo, non di un modo di dire, e il nostro dire “crepi” potesse in effetti causare la morte di qualche lupo, ben di più di quando diciamo a qualcuno “vaffanculo”, ben sapendo che non accadrà e che se invece dovesse in effetti accadere, che cioè il nostro interlocutore vada a fare in culo, che sarebbe poi una forma contratta del farsi dare nel culo, quindi dell’essere passivi in un rapporto anale, ecco, se tutto ciò accadesse, uomo o donna che sia, ci sono ottime probabilità che dipenda da una sua scelta, o da una scelta del suo partner che il diretto interessato, uso un maschile di servizio, ha deciso di assecondare, quindi entrando nel campo del piacere, non certo della punizione (o se anche di dolore si tratta, sempre consapevole e in qualche modo ricercato, nulla da augurare come maledizione). Vorreste anche spiegare che dire “viva il lupo” è un controsenso, perché se un lupo nella cui bocca si finisce vive, ci sono buone probabilità, siamo nel campo delle metafore, che chi ci finisce muoia, esattamente il contrario di quanto si intendeva augurare. Sapete anche che probabilmente racconterebbe la storiella del lupo che tiene i propri cuccioli il bocca, e quindi che il dire “viva il lupo” sia in realtà un modo per augurare il bene, che se il lupo muore mentre ci sta portando in bocca, noi suoi cuccioli, sarebbe come augurarci di fare una brutta fine, e poco importa che noi non siamo cuccioli di lupo e che questa spiegazione sia assolutamente posticcia, figlia di questa epoca di animalismi alla moda, pret-a-porter, roba da hipster, da vegani, quelle storie triste lì. Situazioni imbarazzanti dalle quali solitamente si esce solo perché in effetti l’”in bocca al lupo” è arrivato prima di una prova, un esame, anche il grattare sul cartoncino sottile di un gratta e vinci, quindi a tale augurio, scaramantico, cui è stato risposto a cazzo con quel “viva il lupo” si dovrà pur dar seguito con l’esame, la prova, il grattare, vaffanculo il “viva il lupo” e chi l’ha detto.

Una convenzione è una convenzione, inutile star lì a fare i sofisti, perché in fondo resta sempre una convenzione. Non è che a inizio di un pasto diciamo “buon appetito”, in barba al galateo, mi dicono, significa che auguriamo ai nostri commensali di avere un improvviso appetito, di quelli buoni, è un modo per augurare a chi ci sta intorno di mangiare con piacere e soddisfazione, sia a livello di gusto che di sazietà, al punto che lo diciamo anche a chi, magari, ha di fronte una foglia di insalata perché sta a dieta. Idem, non è che quando rispondiamo con un “salute” a uno starnuto, intendiamo andare oltre all’impasse di una situazione che potrebbe essere di imbarazzo, la salute con un semplice starnuto, in genere non viene tirata in ballo.

A tal proposito, succede che, quando diciamo a qualcuno “salute”, questo qualcuno ci risponda, sempre suppongo per la questione dell’imbarazzo, “altro che salute, raffreddore”, o qualcosa del genere. O meglio, questo succedeva prima del Covid, ora starnutire o, peggio, tossire in pubblico è diventato davvero sconveniente, al punto che c’è la famosa battuta, non elegantissima, “un tempo a chi scappava di scoreggiare in pubblico non serviva altro che coprirla con un colpo di tosse bello forte o uno starnuto, oggi se ti scappa da tossire devi scoreggiare rumorosamente per non farlo sentire”, comunque succede anche adesso, magari, che a uno starnuto noi si dica “salute”, e ci venga risposto in quel modo, che evidentemente viene ritenuto dal nostro interlocutore simpatico. Ecco, lì è la simpatia a giustificare il rompere una convenzione, per altro irrilevante. Non c’è dietro un retropensiero, qualcosa di filosofico. Mentre in quel “viva il lupo” si nasconde un voler salvare i lupi, da noi crudeli umani che non abbiamo cura della natura e del pianeta che ci ospita.

Tempo fa, credo prima che una parte dell’umanità abbia deciso di mettersi dalla parte dei lupi, e per altro va detto che siamo noi italiani a usare questa espressione, altrove si parla semplicemente di fortuna, qualcuno ci ha sorpreso, perché la prima volta sicuramente c’è stata sorpresa, forse anche divertimento, rispondendo a quello che era il nostro augurio con un altro augurio, che suona così “in culo alla balena”. Alla nostra iniziale sorpresa, sto ricostruendo narrativamente qualcosa di cui non ho ovviamente nessun ricordo, il nostro interlocutore ci avrà spiegato che, tanto si deve rispondere “crepi” a un “in bocca al lupo”, tanto si deve rispondere “speriamo che non scoreggi” al suo “in culo alla balena”. Sul perché si debba passare del tempo nel culo di una balena, converrete con me, è meglio non interrogarsi troppo, immagino si intenda un luogo caldo e sicuro, chi mai proverebbe a andare a cercarci nel culo di una balena, so solo che col tempo questo modo di dire è diventato usuale, per un po’ anche di moda, al punto che sono sorte tutta una serie di variazione sul tema, come il marchigiano “tra le pocce della formica”, dove per pocce si intendono le tette. Oggi mi sembra abbastanza sfumato, come modo di dire, perché un corrispettivo del “viva il lupo” per il culo della balena è difficile da trovare, e perché quel “in culo alla balena” è obiettivamente impresentabile in contesti nei quali manca la confidenza e la colloquialità.

 Sulle origini dell’in bocca al lupo, parlo di prima del revisionismo storico praticato dagli animalisti, ci sono versioni incerte, ma la più accreditata è quella che ci dice che fosse un modo usato da chi salutava i cacciatori, augurando loro di arrivare così vicino ai lupi da finirci praticamente in bocca, al fine di poterli uccidere senza difficoltà. Hai voglia a dir loro “viva il lupo”, sarebbe stato come augurare di venir sbranati in un sol boccone, tipo la nonna di Cappuccetto Rosso.

Il fatto che qualcuno, giuro che c’è, sostenga che il riferimento al trovarsi nel culo della balena abbia invece addirittura origini bibliche, con chiaro riferimento alla storia di Giona, che nel ventre della balena, non nel culo, ci visse, storia che poi sarà ripresa cinematograficamente da Disney, che trasformerà in balena il tonno dentro il quale finirà Pinocchio, trovandoci il suo babbo Geppetto, fa davvero sorridere. Per altro anche la Bibbia non parla di balene, ma di grande pesce, dentro il quale Giona vivrà per tre giorni e tre notti, salvo poi essere vomitato in spiaggia, dopo insistenti preghiere al Dio del Vecchio testamento. Nessuno, lì, parla di cagare, quindi il culo della balena o grande pesce che sia, non viene mai menzionato. E ci mancherebbe pure altro. Non lo menziona mai neanche Melville in Moby Dick, e dire che motivi validi per avercela con la balena bianca, Achab, ne aveva, sua ossessione in grado di distruggere l’intera sua vita.

Ecco, una mia ossessione, che spero non mi porti però a fare la fine di Achab, è il mondo del cantautorato femminile. Un’altra mia ossessione, anche qui, spero non fatale, dovessi proprio scegliere mi vedrei meglio nei panni umidi di Ishamel, è la presenza/assenza/rappresentazione del corpo femminile nelle canzoni, specie quelle italiane. Per questo, anche per questo, non solo per questo, quando mi capita di incrociare lungo il mio cammino un talento assoluto che in qualche modo appaghi questa mia ossessione non posso che esultare e iniziare a parlarne con la stessa foga con cui Achab, sempre lui, ha spinto la sua PeQuod e il suo equipaggio all’inseguimento di Moby Dick, provando a trascinare con me anche i lettori, che poi sareste voi, da questo momento parte di un onnicomprensivo noi. Certo, a tratti il mio entusiasmo potrebbe sembrare eccessivo, specie se confrontato col disagio misto a disgusto che paleso nei confronti di chi invece è già visibile da chiunque a occhio nudo, le popstar di casa nostra soprattutto, non tutte ma parte, col risultato che magari esalto una artista che ancora non ha tirato fuori neanche un singolo e devasto una carriera fatta di centinaia di dischi di platino e successi anche internazionali, evocando il diritto di critica e soprattutto una distanza netta tra critica alle opere e conteggio di meri e tristi numeri.

Anna e L’Appartamento risponde esattamente a questo profilo, pensatemi per un momento nei panni del Professo Reed di Criminal Minds, e il suo andare a incarnare i panni del mio personale Moby Dick, so che dare della balena a una artista potrebbe non suonare benissimo, ma l’estetica gioca decisamente a suo favore, credo di poterlo fare senza correre rischi di ambigui doppi sensi, e il nostro primo incontro, l’epifania, è avvenuto proprio all’insegna di una sfida fisica, come quella di un capitano che prova a tenere sopra le onde la propria nave, anzi, di una doppia sfida. Succede che Anna, vero nome Anastasia Brugnoli, mi contatta sui social, scegliendo per altro quello che meno frequento, Instagram, rispondendo a un mio posto lanciandomi appunto il guanto di una sfida, qualcosa che suona come “parli sempre di dar spazio a nuovi talenti, specie femminili, ma lo daresti anche a una pura esordiente?”. Sbam. Figuriamoci se mi tiro indietro di fronte a una sfida, specie su un tema che mi è tanto caro. Il tempo di ascoltare quello che di lì a breve sarebbe stato il suo primo singolo, primo di questo progetto dal nome singolare, Anna e l’Appartamento, e eccomi a rilanciare la sfida. È il 2020, in potenza per me annus mirabilis che di lì a brevissimo si sarebbe dimostrato annus terribilis per me e l’umanità tutta, complice il Covid19, e sto per andare a Sanremo, dove durante la settimana del Festival della Canzone Italiana mi sarei ritrovato a dar vita al forma Attico Monina, cinquantasei ore di diretta tra OMTv e Rtl 102,5, oltre settanta ospiti, tra cantanti in gara, cantautrici, artisti provenienti dal mondo del folk, varie e eventuali, “avresti il coraggio di venire a esordire proprio da quel palco?, in caso questo è l’indirizzo, ti aspetto”. Tempo qualche giorno e quindi ecco Anna e L’Appartamento interpretare voce e pianoforte Plastic Fantastic e quindi fare il suo esordio al mio fianco, sul divano di Attico Monina, e da lì in poi questa mia personale Moby Dick mi ha dato modo più volte di compiacermi del mio intuito nel riconoscere i talenti e soprattutto i talenti compiuti, quelli che sanno come mettersi a fuoco, esprimersi al proprio meglio, riconoscersi come risolti. Dalla partecipazione al Premio Bianca D’Aponte edizione diciassette, quella dell’ottobre 2021, in gara con Provvisoria, alle semifinali di Musicultura, sempre nel 2021, fino al passaggio al mio Rock Down-Altri cento di questi giorni, al Teatro Elfo Puccini, una dei trecentosette lettori che per settantadue ore si sono alternati alla lettura del mio diario tenuto nei due anni di pandemia, nel mezzo la pubblicazione dell’EP omonimo, arricchito da una grafica originale, da lei stessa creata. Una voce potente, importante, che si appoggia su composizioni mature che nascono al pianoforte, suo strumento naturale, per poi essere vestite da un electropop affatto italiano, niente a che vedere con quella roba scialba cui ci hanno abituato negli anni gli alfieri della nostra musica leggera, complice prima Michele Iorfida Canova e in seguito Dardust, quanto piuttosto una Lady Gaga in chiave padovana, ritmo e melodia che si fondono con quella lama che arriva dritta dritta dalle corde vocali. Electropop che poi si spoglia, la versione unplugged di quella Provvisoria di aversana memoria, lì a indicare un talento che si esprime al massimo quando è illuminato da una luce stroboscopica, un tubino di paillet a vestirla come un guanto, ma che anche completamento nudo è in grado di emozionarci, colpirci e affondarci, come la Pequod del capitano Achab.