Michael Jackson e le pantere nere

Vi racconto il paradosso di Michael Jackson, artista che ha vissuto una vita che lo ha visto giorno dopo giorno diventare più bianco, e le pantere nere, animali che hanno dato il nome al più importante movimento politico radicale afroamericano, esattamente l’opposto del diventare bianchi o assoggettarsi a un prospettiva bianca

GOLD COAST - APRIL 17 : Damien Shields performs a tribute to Micheal Jackson at the Arts centre Gold Coast, in the show Australian Tribute to Micheal Jackson on April 17, 2010 in Gold Coast, Australia.


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Sono cresciuto negli anni Ottanta. Certo, sono cresciuto anche negli anni Settanta, come nei decenni successivi, diciamo i Novanta. Poi magari la crescita si è fermata, sono stato inquadrato ufficialmente tra gli adulti e la faccenda dell’essere cresciuti si è fermata, ma negli anni Ottanta sono passato dall’essere un bambino all’essere un ragazzo, quindi dire che sono cresciuto negli anni Ottanta risponde tecnicamente al vero. Mi sono quindi affacciato al mondo in un’era che è stata poi bollata come la più superficiale, grazie anche a chi ai tempi ha parlato di edonismo reaganiano, Roberto D’Agostino, in un’epoca nella quale non solo non esisteva internet, se ne cominciava giusto a parlare in certi laboratori americani e nei romanzi degli scrittori cyberpunk, William Gibson su tutti, e in cui per apprendere qualcosa, di qualsiasi cosa si trattasse, si doveva ricorrere alla biblioteca, se si parla di argomenti legati alla cultura, o al passaparola, se si parla di un po’ tutto il resto.

Il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, non dirò nulla di sorprendente, è solitamente legato al cosiddetto sviluppo, cioè al diventare in grado di riprodursi, parlo adesso di me e più in generale del genere umano come fossimo animali. Un modo pudico, certo, per dire che si comincia a essere ragazzi, uso un maschile generico, patriarcale, forse, nel momento in cui ci si sviluppa sessualmente e si comincia a provare attrazione appunto sessuale verso altre persone (se avessi detto l’altro sesso, temo, sarei stato non solo patriarcale, ma anche sessista e più in generale ostile alla comunità LGBTQ+). Ai tempi, interessarsi alle ragazze, sono un maschio bianco eterosessuale, in pratica l’incarnazione del privilegiato, se solo ai tempi fossi stato anche ricco avrei fatto bingo, equivaleva fare i conti con un mondo del tutto sconosciuto, non si parla di queste faccende a casa, non se ne parlava a scuola, e tutto quel che concerneva il sesso era lasciato a un metaverso fatto di ragazzi più grandi che davano indicazioni, spesso di seconda mano, e magari di immagini rubate a certi giornalini a luci rosse. Sì, perché prima che esistesse il web, oggi immagino che sapere esattamente come sia l’anatomia di un uomo o di una donna non sia cosa così complicata da apprendere, per capire come fosse fatta una donna, parlo sempre per un ragazzo etero, toccava controllare su certe pagine di giornalini che immortalavano scene di sesso esplicito, per altro aprendo a chiunque quell’abisso di incomprensioni e frustrazioni che è il confrontarsi con un mondo assolutamente falso di posizione atletiche e di misure oversize. Niente a che vedere coi video che oggi girano in rete, ovviamente, le immagini fotografiche restano comunque statiche, ma pur sempre una finzione falsa e artificiosa.

Già capire di cosa si parlava quando si parlava di sesso era un primo passo, il successivo era capirlo davvero, ma su questo si sarebbe prima lavorato di fantasia e solo in un secondo momento si sarebbe arrivati a un grado di comprensione abbastanza vicino alla realtà. A fianco di tutto ciò, il passaparola, appunto, rimaneva l’iconografia a nostra disposizione, quasi mai attinente appunto al mondo del porno, le tv private che trasmettevano film a luci rosse sarebbero arrivate dopo, e nelle Marche neanche tante. Detto in parole povere, di questo sto provando sempre con un certo pudore a parlare, cominciavamo a provare attrazione per certe nostre conoscenze, compagne di classe o di scuola, ragazze che magari abitavano dalle nostre parti, a volte anche insegnanti, non è il mio caso. E poi c’erano i personaggi famosi, che col loro mostrarsi, più o meno ammiccante, hanno costruito il nostro immaginario, in qualche modo, azzardo, influenzando anche le nostre strade future (su questo non ho basi abbastanza solide per esprimermi, nel senso, non so se eravamo attratti da chi poi avremmo cercato di trovare nel nostro cammino, o se chi ci attraeva avrebbe poi determinato chi saremmo andati a cercare, vallo a sapere). Certo, uno potrebbe tirare in ballo Edipo, Elettra, Medea o quelle storie lì, indicando in madre e padri la matrice di queste ricerche, ma quel che penso della psicologia è piuttosto distante dalla fiducia universale, e diciamo che la donna con la quale divido la mia vita dal 1988 non risponde esattamente al cliché estetico di mia madre, a dirla tutta neanche di chi andrò a raccontare a breve.

Faccio un passo indietro, proprio a quegli anni Settanta che ho nominato al volo, ma che difficilmente indicherei come anni di una qualche mia formazione, sono del 1969, nei Settanta facevo l’asilo e le scuole elementari, prevalentemente. Credo fosse il 1972, neanche tre anni compiuti, quando ho fatto quello che la mia famiglia, intendendo con mia famiglia prevalentemente i miei genitori, mia madre nello specifico, indica come il mio primo disegno. Non che prima non avessi mai impugnato una matita e una penna e ci avesse scarabocchiato qualcosa su un foglio, ovvio, ma è nel 1972, prima di compiere il mio terzo anno di età che ho fatto un ritratto abbastanza preciso di Raffaella Carrà, che ai tempi imperversava nei varietà del sabato sera in televisione. Il ritratto abbastanza preciso è in pratica un tipico disegnino da bambino, una figura umana in cui il corpo è composto da un rettangolo da cui spuntano le quattro righe degli arti, le mani con poi cinque righe alla sommità che fungono da dita, le gambe con due cerchi che sarebbero i piedi, sopra una testa tondeggiante, con dei capelli fatti con righe che dovrebbero indicare un caschetto, quello appunto della Raffa nazionale, un semicerchio a fare la bocca, un puntino a fare il naso e due a fare gli occhi. La precisione del ritratto, di questo parlavo, sta nel cerchietto che si trova nella parte inferiore del rettangolo che indicava il corpo, il famoso ombelico esibito da Raffaella Carrà in televisione, vero scandalo ancor prima che arrivasse il Tuca Tuca fatto con Enzo Paolo Turchi. Il fatto che io a due anni, tre ancora non compiuti, avessi riconosciuto nell’ombelico qualcosa di importante dimostra come quell’ombelico fosse appunto sessualizzato, e come io, ancora bambino, ne fossi incredibilmente attratto. Non che io in seguito abbia cercato quell’ombelico o un caschetto biondo in giro per il mondo, va detto.

Credo che il primo ricordo sessualizzato che ho, a livello di immaginario, a parte questo di Raffaella Carrà, che è in realtà un ricordo indotto, cioè che mi è stato a sua volta passato di seconda mano, un disegno fatto di mia mano come prova, è Nastassja Kinski nuda che amoreggia con Malcolm McDowell nel Bacio della pantera di Paul Schrader. Un film inquietante, quello di Schrader, in cui l’attrice tedesca interpretava la sorella del protagonista di Arancia meccanica, vittima di un sortilegio che li vedeva figli entrambi di fratello e sorella, cioè di un rapporto incestuoso. Rapporto incestuoso necessario perché i genitori erano destinati a trasformarsi in pantere nere dopo aver avuto rapporti sessuali, solo i rapporti incestuosi glielo avrebbe impedito, e una volta trasformati in pantere potevano tornare umani solo sbranando degli altri umani. Non è la trama, complicata e anche un po’ stopposa, quello di cui voglio parlarvi. Non è importante. L’importante è che Il bacio della pantera sia stato un film particolarmente inquietante, di quell’inquietudine che porta con se un carico di erotismo assai difficilmente gestibile per un adolescente, il film è del 1982, come la vittoria ai mondiali di Spagna da parte dell’Italia di Pablito Rossi e di Bearzot. Vedere ripetutamente in scena Nastassja Kinski completamente nuda, il folto mantello di pebi pubici, allora usava così, a svettare su un fisico androgino, poche tette, erano i tempi di Sabrina Salerno e Samantha Fox, o lo sarebbero stati di lì a poco, credo abbia colpito il giovane me e lo abbia in qualche modo segnato. Questo film, del resto, visto incautamente al Cinema Enel, come recita il nome una sorta di dopolavoro della compagnia elettrica nazionale, con scomode sedie di legno e una programmazione assolutamente di qualità, è lì che avrei visto un altro dei tre film che hanno dato l’imprintig alla mia emancipazione, I guerrieri della notte di Walter Hill, terzo di tre film iconici 1997 Fuga da New York, visto credo al Cinema Marchetti, parlo sempre di Ancona, mi ha letteralmente sconvolto, credo di poter dire che Nastassja Kinski sia stata la prima donna completamente nuda che ho visto in una pellicola, al massimo mi era capitato di vedere Sidney Rome o Minnie Minoprio sfoggiare topless appena celati da t-shirt bagnate oltre all’incredibile culo di Nadia Cassini, qualcosa in grado di rianimare uno di quegli zombie che nel mentre animavano altre pellicole. Una bellezza androgina, quindi, quella della Kinski in quella pellicola, ma anche tanto altro, ricordo che tanti anni dopo, non saprei dire esattamente quando, Mino Damato, anchorman televisivo prestato a Domenica In, in realtà ho controllato, era il 1986, intervistando proprio Nastassja Kinski perse completamente il suo solito aplomb da giornalista. A dirla tutta perse proprio la lucidità, andando completamente in bambola e parlandole in maniera confusa, come di chi ha perso la testa. Non sarà mica un caso che anni dopo il regista e attore Sergio Rubini, da poco divenuto famoso con la sua opera prima, La stazione, la volle al suo fianco nel successivo La bionda, era il 1993, solo per, parole sue, poterci girare delle scene a letto insieme. Ripeto, qualcosa di sovrannaturale.

Come fu sovrannaturale anche un’altra epifania che ebbi a quei tempi, non troppo diversa per almeno un elemento visivo, l’androginia. Era esattamente un anno dopo l’uscita de Il bacio della pantera quando dentro la mia televisione, categoricamente in bianco e nero almeno fino al 1990, quando grazie ai mondiali americani sarebbe finalmente arrivato anche il colore, come ho su scritto, ero un uomo bianco e etero, ma non particolarmente ricco, apparve questa tizia coi capelli corti, solo in seguito avrei scoperto di un rosso tendente all’arancione, in reggiseno, reggiseno che poco aveva da coprire, come Nastassja Kinski esibiva un fisico androgino, a cantare col suo compare, uno con le meches e la barba di sogni erotici, Sex Dreams. Era Annie Lennox, insieme al suo ex compagno Dave Stewart metà degli Eurythmics, band di synty-pop per la quale avrei perso letteralmente la testa. Il fatto che fosse lei a cantare, una voce incredibile, scura, bassa, ma capace di arrivare molto in alto, come avrei scoperti ascoltando There Must Be an Angel, un’altra hit impreziosita tra l’altro dall’armonica a bocca di Stevie Wonder, il fatto che fosse lei a cantare, credo, ha avuto un peso non da poco in questo mio diventare un loro devoto fan, ma va detto che gli Eurythmics sono stati davvero fenomenali, come del resto i due sarebbero stati anche in seguito da soli, Jack Calling di Dave Stewart and the Spiritual Cowboys e Love Song For a Vampire, parte della colonna sonora del Dracula di Bram Stoker di Francis Ford Coppola, due delle mie canzoni preferite di sempre.

Ora, dovessi star qui a dire che l’identificare con Nastassja Kinski o Annie Lennox l’incarnazione di un qualche immaginario erotico sia stato qualcosa di cui ero cosciente all’epoca mentirei sapendo di mentire. Intendiamoci, ovvio che quando ho visto Il bacio della pantera come quando vedevo settimanalmente il culo di Nadia Cassini il messaggio che mi arrivava era chiaro e ben scandito, ma per il resto rimaneva tutto nel campo del subliminale, dell’inconscio, o più semplicemente è oggetto, oggi, di un mio retropensiero, di una rilettura del passato a partire da alcuni passaggi anche nobili, vuoi mettere dire che sono cresciuto col feticcio di Nastassja Kinski e Annie Lennox piuttosto che con le tettone volgari e sovrabbondanti di Samatha Fox?

Il fatto che in seguito, parlo di pochi anni, proprio la Kinski sia diventata anche la compagna di quel genio assoluto di Quincy Jones, tra le altre cose deus ex machina di quell’altro deus di Michael Jackson a rendere il tutto ancora più cool, i miei miti, per dirla con un noto spot, sono differenti.

E proprio a Michael Jackson sto per arrivare. Perché sempre in quella decade, nel 1985 per la precisione, uscirà una canzone che con il film di Paul Schrader ha più che qualcosa a che fare, una canzone che porta la firma dei tre fratelli Gibb, Barry, Robin e Maurice, cioè i Bee Gees, anche produttori del brano come del resto delle tracce che compongono l’album omonimo, e che vede la titolare del’opera Diana Ross, duettare proprio con l’autore di Billie Jean, sto parlando di Eaten Alive, mangiato vivo. La canzone, che sembra esattamente una canzone del Michael Jackson di Thriller, album blockbuster di tutti i tempi uscito tre anni prima, o del successivo Bad, del 1987, vede Diana Ross muoversi agitata e nervosa su una base elettronica, coi tipici incedere dell’epoca, Michael a arrivare in falsetto sul ritornello. Il video che accompagna la canzone, siamo in piena epoca MTV, rete televisiva nata non a caso proprio all’inizio di quel decennio, e proprio in quel medesimo 1985 immortalata a futura memoria nell’esordio letterario dell’enfant prodige del minimalismo tossico americano Brett Easton Ellis, Meno di zero, ci mostra appunto Diana Ross, esattamente come la Nastassja Kinski di Il bacio della pantera, trasformarsi a più riprese nel felino nero, in un concentrato di paura e eros. Jackson, credo per scelta della stessa Ross, che del brano resta titolare assoluta, non compare mai, forse per non oscurare la sua collega e amica. Collega e amica che di lì a un paio d’anni entrerà seppur erroneamente nella mitologia jacksoniana per quel brano, Dirty Diana, che farà favoleggiare di un qualche stalking subito da Jacko da parte della cantante di Upside Down, lei di quattordici anni più grande di lui. Col tempo si dirà anche che il brano fosse in realtà rivolto a Diana Spancer, al secolo Lady D, sua amica. Nei fatti Quincy Jones spiegò come la canzone in questione, a sua volta dotata di un forte tasso erotico e coi suoni non troppo diversi da quelli di Eaten Alive, con però la chitarra Steve Stevens, storico membro della band di Billy Idol a imparentarla con la precedente Beat It, dove la chitarra solista era affidata a quel genio di Eddie Van Halen. Esiste un breve frammento di una esibizione del 1981, proprio di Uspide Down nel quale si vede Diana Ross cantare e ballare insieme a un giovane Michael Jackson, Thriller ancora lì da essere pubblicato. Piccola deviazione sul tema principale, il fatto che Diana Ross sia del 1944, notizia che mi è ovviamente saltata agli occhi andando a ricercare le date precise di questo racconto, mi ha spiazzato, perché mia suocera, Franca, madre di mia moglie, è del 1946 e per lei la massima espressione di anticonformismo, in gioventù, lì in Abruzzo, era Peppino Di Capri. Ma, dico l’ovvio, sto divagando, come se la mia scrittura non fosse in fondo un contunuo divagare. Il 1985, già che mi trovo, è anche l’anno di Live Aid, il progetto discografico, prima, con la canzone We Are the World, che ha in Michael Jackson e Lionel Richie i maggiori promotori. Nel video del brano Diana Ross compare appena prima di Michael, mentre legge uno spartito nel momento in cui Tina Turner, che per la cronaca ha due anni  meno di mia madre, e Billie Joel vanno a incastrare alla perfezione le loro voci, lei con la felpa bianca di USA for Africa già esibita da Kenny Rogers. Finitoil duetto di Tina e Billie ecco che arriva lui, Michael Jackson, il suo inconfondibile falsetto introdotto in video dai suoi calzini di maglina argentata, i medesimi del suo guanto, quando si dice essere il Re del Pop, Re del Pop in ottima compagnia, prima di lui hanno cantato anche giganti come Paul Simon e Stevie Wonder, per dire. Quando tocca Diana, dopo Michael, la felpa è magicamente scomparsa, un vestito nero, i piedi scalzi, a fare da contrasto alla giacca da Commodoro di Jacko. Poi è la volta di Dionne Warwick, Willie Nelson, Al Jarreau e al potentissimo Bruce Springsteen e via via a tutti gli altri, Dio mio che capolavoro assoluto. Per la cronaca, al momento del coro, tutti inquadrati dopo gli strilletti incredibili di Cindy Lauper, Quincy Jones a dirigerli, Diana, la mano destra stretta a quella di Michael, la sinistra  a quella di Stevie Wonder, indossa di nuovo la felpa bianca, giusto il tempo di lasciare la parola a Bob Dylan, la cui faccia annoiata proprio in quell’occasione ci ha regalato uno dei meme più incredibili di sempre.

Proprio nel periodo in cui Nastassja Kinski sarà la signora Jones, moglie di Quincy tra il 1991 e il 1995, uscirà una canzone di Michael Jackson con sua sorella Janet, lì a muoversi sinuosi come Nastassja e Malcom McDowell ne Il bacio della pantera, in uno scenario futuristico, la location è un’astronave, proprio ai tempi delle prime accuse di molestie sessuali, avrà pensato Jacko, un bel video in cui si gioca con l’eros con sua sorella non poteva che essere un toccasana. Il brano, per la cronaca, non fu prodotto da Quincy Jones, ormai non più al suo fianco, ma dai due fratelli Jackson con Jimmy Jam e Terry Lewis, spesso al fianco di Janet.

Nel video, e qui sto incamminandomi di mia spontanea volontà su per un sentiero particolarmente scivoloso, un burrone lì, sotto i miei piedi, Michael e Janet appaiono di pigmentazione assai differente, il bianco e nero del girato e soprattutto i colori scelti per i vestiti di scena, neri, a contrasto col bianco accecante della location ben lo evidenziano. Ciò mi offre il gancio non tanto per parlare dello schiarimento della pelle che ha accompagnato la parte finale della vita di Michael Jackson, poco è rilevante sapere se a causa di una forte forma di vitiligine o per una serie di interventi di chirurgia estetica, quanto per tornare a palare di pantere, il felino nero. In realtà, ti pareva che non c’era un trucco, la pantera altro non è che una variante di volta in volta del leopardo, del ghepardo, del giaguaro e del puma, grandi felini che si trovano in diverse aree del globo. A renderle nere una caratteristica della loro pelle, il melanismo. Cioè per mutazione di un gene dominante o recessivo, a secondo della specie, questi grandi felini si presentano completamente neri, esattamente come per l’albinismo si presentano completamente bianchi. La pantera nera più presente negli zoo è il leopardo melanico, per intendersi la Bagheera de Il libro della giungla, quello il cui numero è maggior in natura a seguire è il giaguaro. In pratica le pantere in quanto tali non esistono, sono delle varianti di questi grandi felini, in alcuni casi figli di leopardi melanici che si accoppino, in altri figli anche solo di un genitore melanico, nel caso dei giaguari, dove la variante dominante permette un passaggio di geni anche da un solo genitore al figlio. Tutti questi grandi felini tendono per loro attitudine a vivere solitari, andando a avvicinarsi agli altri esemplari nel periodo degli accoppiamenti, spesso i maschi si sfidano per le femmine, e venendo poi cacciati con violenza estrema una volta che le femmine rimangono incinte. Il fatto che il leopardo melanico richieda due genitori melanici per portare a una prole a sua volta melanica attesta come spesso questi animali si riproducano tra consanguinei, esattamente come i protagonisti del film di Paul Schrader con Nastassja Kinski e Malcolm McDowell. Anche se parlare di incesto tra animali è ovviamente un errore sia formale che teorico. Gli animali, che che ne dicano filosofi specisti, non sottostanno alla stessa nostra morale, motivo per cui, quando ai tempi si cominciò a parlare con una certa crudele ironia del rapporto che lo stesso Jackson aveva con la sua fedele amica Bubbles, uno scimpanzé entrato a sua volta nella leggenda, lì a Graceland, era su Jacko che si ironizzava, non certo su questo simpatico animaletto. Resta il paradosso di questo discorso che ruota intorno a Michael Jackson, forse l’artista afroamericano più famoso di sempre, artista che ha vissuto una vita che lo ha visto giorno dopo giorno diventare più bianco, e le pantere nere, animali che abbiamo scoperto non esistere in natura e che però hanno dato il nome al più importante movimento politico radicale afroamericano, esattamente l’opposto del diventare bianchi o assoggettarsi a un prospettiva bianca. Per il resto che l’autore di Thriller avesse particolarmente a cuore la natura è cosa più che nota, andatevi a rivedere il video e rileggere il testo di Earth Song per vedere come già nel 1995, sempre nel 1995, come Scream, certi temi legati al clima e al nostro rapporto malato col pianeta e i suoi abitanti non-umani. Sarà mica un caso che la cover più famosa, e forse anche meglio riuscita di una sua canzone, Smooth Criminal, sia da parte di una band, per altro poi scomparsa nel nulla da cui era venuta fuori, dal nome Alien Ant Farm, formicaio alieno.

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