The Fabelmans, per Steven Spielberg il cinema è maestro di vita

Molto più di un ritratto biografico dell’artista da giovane. È un’opera sul mestiere di regista e di spettatore. E soprattutto sul cinema come arte che insegna a stare al mondo

The Fabelmans

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The Fabelmans non è semplicemente il ritratto autobiografico dell’artista Steven Spielberg da giovane. Naturalmente è anche questo. Però, più in generale, è un’opera sull’arte di fare e guardare cinema, che ruota intorno al mestiere di autore e a quello che lo precede, materialmente e logicamente, di spettatore. Ma soprattutto è un film sul mestiere di vivere. Col quale il cinema entra in una dialettica perpetua: perché insegna a stare al mondo, dando forma alle passioni, facendo conoscere il dolore, offrendo uno strumento di indagine che aiuti a capire il senso dell’esistenza.

Non è un caso, a testimoniare la serietà di fondo dell’operazione, che lo sceneggiatore sia Tony Kushner, il commediografo autore di Angels in America che è stato accanto a Spielberg per alcune delle sue opere più severe e meditabonde, Munich e Lincoln, che costituiscono anche delle riflessioni sulla Storia con la esse maiuscola. Esattamente come The Fabelmans, che dietro l’apparente minimalismo del racconto di un microcosmo familiare è un affresco sull’identità americana colta in uno dei suoi passaggi epocali, alla metà di quel secolo, il Novecento, che ha consegnato interamente la narrazione di sé all’occhio del cinema.

Sammy Fabelman (da bambino Mateo Zoryan) ha solo sei anni quando nel 1952 i genitori lo portano a cinema per la prima volta, a vedere Il Più Grande Spettacolo del Mondo di Cecil B. DeMille. La sconvolgente sequenza dell’incidente del treno si imprime nella sua memoria, come un incubo. Così quando il padre Paul Dano gli regala un trenino elettrico, lui decide di filmarlo, ricreando lo scontro tra vagoni, che guarda e riguarda fino a quando non riesce a liberarsi dal turbamento.

È questo il punto di partenza della vocazione registica di Sam (e di Spielberg). In cui quindi, sin dall’inizio, il cinema non si configura, secondo una lettura conciliante, come la fabbrica dei sogni con cui costruirsi una versione più bella e accomodante della realtà. La settima arte invece è all’origine dell’angoscia perché al bambino, che guarda il film con degli occhi di purissimo azzurro che sono il simbolo stesso dell’ingenuità fiduciosa in un mondo che ancora non si conosce, consegna un’immagine della realtà minacciosa, da cui emergono tutte le sue brutture.  

Allo stesso tempo il cinema fornisce anche la risposta all’inquietudine che partecipa a creare, perché l’infinita ripetizione da sogno delle immagini aiuta a rivivere in forme fantasmatiche il trauma, così da superarlo. Non è un caso allora che la scena cinematografica primaria abbia a che vedere con un treno. Perché, almeno così vuole la leggenda, la prima immagine del cinema è quella del treno dei fratelli Lumière, che durante la proiezione del dicembre del 1895 (o meglio gennaio 1896) avrebbe persino spaventato il pubblico, che temette la locomotiva stesse per investirli. Il cinema insomma, non concilia un bel niente, nasce con uno spavento che, come per le fiabe, ci insegna a maneggiare le nostre paure. E serve a capire come funziona la vita.

In The Fabelmans la passione di Sam per le immagini in movimento cresce senza sosta e sopravvive anche ai passaggi che scandiscono la storia della sua famiglia, dall’infanzia al trasferimento, durante l’adolescenza, prima in Arizona e poi in California, al seguito dei progressi della brillante carriera del padre informatico Burt (Paul Dano). Sam (ora Gabriel LaBelle) sperimenta la sua vocazione usando i generi cinematografici, coinvolgendo i familiari in filmini comici e, inevitabilmente, passando attraverso i generi fondativi dell’identità (non solo cinematografica) americana, il western e il film bellico.

Di fronte ai suoi occhi si para una versione manichea della realtà: da un lato c’è il padre scienziato posato che considera il cinema un hobby; dall’altro Mitzi (Michelle Williams), la madre pianista di talento che ha sacrificato la sua vita per i figli e lo incita a continuare. Insomma, la testa e il cuore, la ragione e il sentimento. Ed è ancora una volta il cinema il dispositivo che gli consente di comprendere la complessità del mondo, rivelandogli per davvero cosa pensano, sentono e vivono i suoi genitori. I quali grazie ai filmini di famiglia che Sam gira smetteranno di essere due figurine cartonate, stereotipe e perfette, per divenire due esseri umani, fallibili, con i quali dovrà imparare a confrontarsi su basi nuove.

Il passaggio in California è un altro momento fondamentale del romanzo di formazione del Sam di The Fabelmans. Per la prima volta capisce cosa significa essere ebreo in una comunità di americani biondi e dai corpi scolpiti, in cui l’antisemitismo è strisciante. Il cinema costituisce nuovamente la chiave risolutiva per comprendere la natura delle cose. A Sam viene chiesto di riprendere la festa di fine anno della scuola. Lui ci tira fuori un cortometraggio nello stile del più insipido dei generi cinematografici, il beach movie – siamo nei primi anni Sessanta, quando le storie da spiaggia con le facce da bravi ragazzi di Fabian e Annette Funicello sono popolarissime.

Solo che, filtrato dalla macchina da presa che amplifica l’intuitivo sguardo di Sam (e, certo, dello Spielberg adulto), il filmettino estivo si trasforma in una riflessione sull’immaginario americano e, insieme, sul cinema come ambigua macchina mitopoietica. Ad accorgersene meglio di tutti è Logan (Sam Rechner), il bullo che lo ha perseguitato. Sam si vendica perseguitandolo a sua volta, riprendendolo a ralenti mentre gioca a torso nudo a beach volley o vince una gara di corsa. Offrendo di lui un’immagine vincente e monumentale che mette il ragazzo perfetto pesantemente a disagio – sia detto en passant, il corto è anche un piccolo saggio sull’omoerotismo latente proprio del beach movie.

Insomma, in The Fabelmans il cinema fa tutto tranne che conciliare o intrattenere piacevolmente. Al contrario, decostruisce stereotipi, producendo tanto gli incubi che il loro antidoto. Anche perché Logan potrà pure aver trovato imbarazzante e fastidiosa la sua fasulla versione grandiosa su pellicola. Però, è grazie a quella immagine mitizzante, come gli fa notare Sam, che è riuscito a conquistare la ragazza dei suoi sogni, conquistata dal Logan di celluloide, mica da quello in carne ed ossa. Anche per questo, preoccupato di trovare un lieto fine che mascheri la natura tutt’altro che rassicurante ed edificante di questa storia, Spielberg si rifugia in un altro mito cinematografico, affidandosi alla lezione del John Ford di L’Uomo Che Uccise Liberty Valance sulla leggenda (e quindi sul cinema) che ha la meglio sulla realtà e ai suoi consigli sul modo di rapportarsi all’orizzonte. In un’inquadratura e nella vita.

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