Quanti moscerini possono entrare in un’arca e quanti allo Zecchino d’Oro

L'Antoniano di Bologna non sarà grande come l’Arca di Noè, ma sembra che di animali e bambini pronti a cantarli ce ne entrino davvero parecchi


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Il mondo è un posto meraviglioso. A dirla tutta anche la mia testa è un posto meraviglioso, non sto parlando di estetica, anche se pure lì gliela ammollo parecchio, parlo di ciò che accade al suo interno. Sto qui che ragiono, si fa per dire, su questioni centrali per il futuro dell’umanità. Succede spesso che io mi perda in tali ragionamenti. Faccio del resto un lavoro che prevede io stia qui a pensare e a pensare anche a cose che non portano da nessuna parte, nella speranza, spesso malriposta, che prima o poi mi venga una idea buona per scriverci su qualcosa. Nel mentre vivo, per dirla con John Lennon, senza neanche l’arroganza di credere che sia utile che per vivere io stia a progettare chissà che. Vivo e basta. E perdo tempo dietro pensieri includenti.

Per dire, neanche cinque minuti fa me ne stavo a pensare all’Arca di Noè. Pensieri che immagino abbiano fatto anche altri, magari non a cinquantatré anni, tanti ne ho adesso, è vero, più quando se ne sente parlare per la prima volta, all’asilo, immagino, o al catechismo. Sto a pensare all’Arca di Noè e mi chiedo, chissà quanti animali c’erano dentro?, considerando che, a memoria, ricordo che ce n’erano una coppia per ogni specie, in alcuni casi anche di più. E subito dopo mi chiedo, chissà quanto doveva essere grande un’Arca perché dentro ci potessero entrare tutti quegli animali?, senza nel mentre aver risposto alla prima domanda, ovviamente, dando più che altro seguito a quella modalità di ragionamento tipica dei giorni nostri, quando la rete ci ha insegnato, prima, abituato, poi, imposto, anche, a procedere per link, uno via l’altro, frammentando il nostro modo di muoversi e di ragionare, certo, e quindi frammentando anche l’idea stessa di sapere. Domande che, in un mondo non dico giusto, ma normale, sarebbero destinate a rimanere inevase, il mio fancazzismo bollato come residuo fuori tempo massimo di peterpanismo, un certo senso di vergogna a coprirle come un manto appoggiato sul moggio, ma invece son qui a scriverle nere su bianco, a riprova che viviamo in questo oggi qui, un oggi che mi ha visto dar seguito a questo mio chiedermelo non tanto provando disagio per il mio disagio mentale, l’onta esibita in pubblico come la lettera scarlatta, che alcuni associano erroneamente a una non più giovanissima ma pur sempre conturbante Demi Moore invece che più legittimamente a Hawthorne, l’onta esibita in pubblico, dicevo, figlia di un senso di colpa malgestito, uno oggi che mi ha visto dar seguito a questo mio chiedermelo andando di nuovo in rete, e dove se no?, a chiedere qualcosa che suonasse come “quanti animali c’erano sull’Arca di Noè?” e a seguire “quanto era grande l’Arca di Noè?”, domande stupide, lo so, che però hanno generato subito risposte precise, a riprova che son domande che non sono il solo a essersi poste e non sono il solo a essersele poste in pubblico. Così ho scoperto che a riguardo ci sono anche studi scientifici, universitari, poco conta che la storia dell’Arca di Noè non sia scientifica, ma legata al Vecchio Testamento, quindi appartenente al campo della tradizione religiosa che si riconosce nel Dio degli Ebrei e quindi dei cristiani, con una deriva fuori da quel contesto nell’Epopoea di Gilgamesh, re sumero della città di Uruk, di cui ricordo giusto l’opera a lui dedicata da un Franco Battiato del periodo operistico, non esattamente quello più a fuoco. Studi scientifici che ci dicono che le specie presenti sull’Arca di Noè, Arca di Noè che la scienza ci dice non essere mai esistita, badate bene a che corto circuito paradossale, erano o sarebbero dovute essere tra le sedici e le ventimila. Ovviamente, in detti studi, il più noto è attribuito a tale John Woodmorappe, autore di quella che a ragione viene considerata la Bibbia degli studi sull’Arca di Noè, e chiedo umilmente perdono per questo mio imperdonabile e sciocco gioco di parole, il testo L’Arca di Noè: Uno studio di fattibilità, si ragiona anche sul concetto di specie, che è ovviamente differente dal concetto di razza e che lascia aperte porte al dibattito, perché ci sono razze differenti anche all’interno della medesima specie, credo che alla fine si sia arrivati alla conclusione che in quei numeri, tra i sedicimila e ventimila, fossero contemplate le specie principali facendo riferimento a quando il Diluvio Universale sarebbe dovuto arrivare, il che, sommato al fatto che la Bibbia ci dice che di alcune specie erano presenti una coppia di esemplari, al fine di far proseguire la specie, in altre fino a sette esemplari, si arriva circa a cinquantamila animali presenti sull’Arca. Animali, ci dice sempre John Woodmorappe, zoologo, per circa l’85% non più grandi di una pecora, dico questo perché il medesimo John Woodmorappe prosegue coi suoi studi calcolando anche quanto spazio detti animali vanno a occupare, basandosi sulle indicazioni che la Bibbia ci dà rispetto la grandezza dell’Arca, lì si parla di cubiti, che era la misura di grandezza dell’epoca pari alla distanza tra un gomito, cubito, appunto, e la punta del dito medio, misure che ci dicono che l’Arca era bella grande, lungi da me riportare qui il calcolo esatto fatto a riguardo. Tanto grande da contenere non solo Noè e gli altri sette membri della sua famiglia, l’equipaggio dell’Arca, ma i cinquantamila animali, il cibo per farli sopravvivere tutti e, Woodmorappe parla anche di questo, la merda che tutti questi animali sarebbe andata a produrre durante il diluvio. Sul come otto persone potessero accudire così tanti animali, disposti su tre piani, temo che si sia dovuto lavorare molto di fantasia. Tutte queste informazioni ottenute con pochi click, in pochi secondi, anche superando il fastidio dovuto dalla mole di negozi di animali che hanno poco originalmente scelto il nome di Arca di Noè.

Quando avevo pochi mesi, neanche un anno compiuto, l’Arca di Noè, non quella vera, che per altro, appunto, non è mai esistita, ma la storia dell’Arca di Noè, approdò in quel del Festival della Canzone Italiana di Sanremo, per voce e penna di un autore piuttosto singolare che la musica leggera italiana ha avuto la fortuna di avere tra i suoi protagonisti, Sergio Endrigo. Una canzone che è poi rimasta lungo la mia infanzia, molto nota ai tempi, come del resto anche altre sue canzoni che tendevano a mettere d’accordo grandi e piccini, su tutti immagino la famosissima Per fare un albero, che in realtà si intitola Ci vuole un fiore, del 1974. Considerato, a ragione, uno dei più importanti cantautori italiani, incluso a volte d’ufficio nella scuola genovese, per vicinanza di temi trattati e di scrittura con un Tenco o un Paoli, seppur nato in Istria, Sergio Endrigo, cui si devono alcuni capolavori assoluti quali Io che amo solo te, Canzone per te, canzone con cui nel 1968 vinse il Festival di Sanremo, dove poi arrivò secondo l’anno dopo con Lontano dagli occhi, e terzo due anni dopo appunto con L’arca di Noè, ma anche Via Broletto 43, la scandalosa, per l’epoca, Teresa, Aria di neve, che poi darà il nome alla band che vide esordire quel talento assoluto di Eleviole?, I tuoi vent’anni, l’elenco rischia di essere davvero lungo, ebbe una carriera parallela anche come autore e interprete di canzoni per i più piccoli. Oltre alla già citata e famosissima Ci vuole un fiore, va assolutamente citata La casa, scritta da Vinicius de Moraes, e tradotta in italiano da Sergio Bardotti, canzone contenuta in un gioiello datato 1969 e intitolato “La vita, amico, è l’arte dell’incontro”, che vedeva de Moraes al fianco di Sergio Endrigo e del poeta Giuseppe Ungaretti, con la partecipazione di Toquinho e gli arrangiamenti di Luis Bacalov. La canzone La casa, per intendersi, è quella il cui incipit recita “Era una casa molto carina, senza soffitto e senza cucina. Non si poteva entrarci dentro, perché non c’era il pavimento” e che poi indica come indirizzo quel Via dei Matti numero 0 oggi divenuto un notevole programma televisivo condotto da quel genio del pianoforte e dell’affabulazione che risponde al nome di Stefano Bollani e di sua moglie Valentina Cenni. Inutile io stia qui ancora una volta a raccontare come in molti mi scambino per Bollani, ho raccontato a più riprese dell’anziano signore che abita di fronte a casa mia che sia convinto di ciò, così come mi è capitato anche in luoghi pubblici, come un ristorante, dove mi sono trovato a ricevere dolci offerti come tributo al mio talento, che in realtà era il suo. Roba davvero da via dei Matti numero 0. Un vero classico delle filastrocche per bambini, arrivata fino ai giorni nostri. Sempre nel medesimo album e sempre rivolto ai più piccoli, come La casa interpretato con un coro di bambini, La marcia dei fiori. Sempre di Vinicius de Moraes sono anche L’arca, che non è L’arca di Noè, Il Pappagallo e San Francesco, contenute nell’album collettivo L’Arca, uscito nel 1972. Vicinius de Moraes, cantautore e poeta, passò buona parte degli anni Settanta in Italia, in buona compagnia dei colleghi di bossa nova Toquinho e Chico Buarque de Hollanda, spinti lontano dal Brasile dal dissenso manifestato verso la dittatura militare e comunque attratti nella nostra terra da un riconoscimento del loro valore artistico che li porterà a tutta una serie importanti di collaborazione, dal duetto con Patty Pravo del 1971 in Samba preludio al già citato L’arca con Endrigo, i New Trolls e altri, fino a arrivare al culmine dell’album La voglia, la pazzia, l’incoscienza l’allegria, inciso nel 1976 da Ornella Vanoni con lo stesso Moraes e Toquinho. L’album che Sergio Endrigo dedicherà invece interamente ai bambini è Ci vuole un fiore, che vede il cantautore istriano collaborare con lo scrittore per bambini italiano per antonomasia, Gianni Rodari. Un vero classico, come a suo modo sarà un classico il successivo album per bambini scritto e interpretato da Bruno Lauzi, altro nome forte della scuola genovese, dal titolo “Johnny il bassotto, la tartaruga e altre storie di Bruno Lauzi”, lavoro del 1976 che vedrà il cantautore presentare le sue canzoni in parte già note per essere sigle di programmi tv rivolti alle famiglie.

Del resto, allo Zecchino D’Oro, la competizione rivolta ai bambini che da sessantacinque anni va di scena all’Antoniano di Bologna, sono passati come autori tantissimi dei nostri cantautori, da Pino Daniele a Fabio Concato, da Renato Zero a Edoardo Bennato, e via via, passando per Lucio Dalla, Mario Lavezzi, Simone Cristicchi, Franco Fasano, Pupo, Biagio Antonacci, Toto Cutugno, Amedeo Minghi, Grazia Di Michele, Roby Facchinetti e Dodi Battaglia dei Pooh, singolarmente, Riccardo Fogli, Fred Bongusto, i Righeira, Tata Giacobetti e Lucia Mannucci del Quartetto Cetra, il maestro Gorny Kramer, Augusto Martelli, il già citato Bruno Lauzi, Tricarico, in coppia con Leonardo Pieraccioni, Flavio Premoli della PFM, Cristiano Malgioglio, Paola Pitagora, Lino Banfi, Castellano e Pipolo, Memo Remigi, Paolo Poli, Mino Reitano, Claudio Baglioni, arrivato secondo dietro Marco Masini, vincitore nella penultima edizione con Superbabbo. Insomma, un vero parterre de roi, cui si andranno a aggiungere, nel 2022,  canzoni quali Giovanissimo papà, che vede la firma di Luca Medici, aliasi Checco Zalone, in compagnia del suo fidato Antonio Iammarino, Il maglione, scritto da Filippo Pascuzzi con Cesareo degli Elio e le Storie Tese, Il panda con le ali, di Virginio e Daniele Coro, al fianco di Federica Camba autore di decine di hit, Gioca con e papà, di Enrico Ruggeri, Mille fragole, di Massimo Zanotti con Deborah Iurato,  La canzone della settimana, di Eugenio Cesaro, degli Eugenio di via di Gioia, Come King Kong, di Gianluca Giuseppe Servetti con quel talento assoluto che risponde al nome di Margherita Vicario. Un mondo pieno di gatti, moscerini (inutile star qui a ricordare che a cantare Il valzer del moscerino, nel lontano 1968, era una piccolissima Cristina D’Avena, appena tre anni, arrivata dietro la vincitrice Quarantaquattro gatti, cantata da Barbara Ferigo, in buona compagnia con l’altra megahit per bambini Il toreto Camomillo, cantata da Michele Grandolfo), cammelli, pappagalli, papere e chi più ne ha più ne metta. Certo, l’Antoniano di Bologna non sarà grande come l’Arca di Noè, ma sembra che di animali e bambini pronti a cantarli ce ne entrino davvero parecchi.

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