Saint Omer, due donne, un infanticidio e il mistero della maternità

La regista franco-senegalese Alice Diop s’ispira a un fatto di cronaca per parlare di maternità, identità, discriminazione sociale. Denso, ma troppo simile a una lezione universitaria. Dall'8 dicembre in sala

Saint Omer

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Saint Omer, vincitore alla Mostra di Venezia 2022 del Leone d’argento Gran Premio della Giuria e del Leone del Futuro per l’opera prima, racconta la vicenda di una scrittrice e docente francese di colore, Rama (Kayije Kagame), che decide di seguire il processo a Laurence Coly (Guslagie Malanda), immigrata senegalese incriminata per aver ucciso la figlia di 15 mesi. L’intenzione è quella di ricavarne un volume ispirato al mito di Medea – col suo editore ha già in testa un titolo, “Medea Naufragata”.

Il dibattimento ha su di lei un effetto imprevisto, devastante. Rama, incinta di quattro mesi, non può fare a meno di proiettare qualcosa di profondamente autobiografico sull’immagine della donna sotto accusa, di origini senegalesi come lei, e anche con una formazione universitaria, sebbene Laurence, diversamente da Rama, non sia riuscita a concludere gli studi e coronare le sue ambizioni. A lasciarla sgomenta è anche l’atteggiamento dell’infanticida, che ammette il gesto ma non la colpa dell’assassinio – “Non sono sicura di essere la vera responsabile in questa faccenda” –, trincerandosi dietro un distacco apparentemente glaciale, e adducendo motivazioni, il malocchio, che in un’aula di tribunale occidentale non possono che risultare inaccettabili.

Come la sua protagonista Rama, la regista Alice Diop è una donna francese nata da genitori senegalesi, con all’attivo, prima di questo esordio al lungometraggio di finzione, diversi documentari spesso ruotanti intorno ai temi dell’identità e dell’esclusione (l’ultimo Nous, riflessione sulla banlieue parigina e affresco sui tanti volti di una Francia altra, è stato premiato alla Berlinale 2021). Saint Omer, il cui titolo è quello della cittadina in cui si svolge il processo, è un ulteriore tassello nella stessa direzione, ispirato a un tragico fatto di cronaca che ha scosso l’opinione pubblica francese: il ritrovamento di un corpicino trascinato dalle onde sulla spiaggia di Berck-sur-Mer, che si scoprì essere stato soppresso dalla madre di origini africane – la Diop aveva seguito il processo come il suo alter ego del film.

Escluse poche sequenze iniziali e finali dedicate alla vita privata della scrittrice, Saint Omer è quasi costantemente asserragliato nell’aula di tribunale, di cui segue i rituali con stile oggettivo e minuzioso. Non ci sono colpi di scena o il calor bianco sensazionalistico cui ci hanno abituati i film giudiziari all’americana. Anche perché in questo caso la colpevolezza non è mai posta in discussione. Il tema, più sfuggente, è legato al perché di un gesto che resta inspiegabile.

Infatti la giudice (Valérie Dréville) non è tanto interessata alle prove, quanto alla ricostruzione del retroterra biografico, culturale ed emotivo di Laurence. La quale, al netto del suo atteggiamento enigmatico, rivela il profilo di una donna trattata da invisibile nel paese in cui ha scelto di vivere, con rapporti sociali quasi inesistenti e una relazione con un uomo imbelle e molto più vecchio di lei che non l’ha mai presentata alla sua famiglia e nemmeno ha assistito al parto. Anche la bambina, nata in casa e mai registrata all’anagrafe, è un perfetto fantasma, priva di una identità ufficialmente riconoscibile.

Saint Omer vuole essere una riflessione asciutta ed elusiva – seppure assertiva nello stile visivo ieratico e immobile – su temi che da un lato toccano corde profonde e radicali – la maternità nel suo intreccio di istinto, biologia e cultura –, dall’altro, fotografando la condizione delle società cosmpolite contemporanee, pongono questioni relative a processi di inclusione ed esclusione per i quali, in un’ottica di sapore intersezionale, sono dirimenti genere, etnia, classe sociale di appartenenza.

Durante il processo lasciano sbigottiti i riferimenti al sortilegio che Laurence dice di aver subito, che agli occhi del pubblico ministero maschio (Robert Cantarella) sono puerili espedienti per sollevarsi dalla responsabilità dell’agghiacciante omicidio. Mentre la docente, francese, con cui si sarebbe dovuta laureare, con fare vagamente discriminatorio esprime perplessità sul fatto che una donna senegalese possa scegliere come argomento della tesi una figura biograficamente così distante come il filosofo austriaco Wittgenstein.

La Diop affonda nel tema misterioso della maternità, riannodando il rapporto tra madre e figlia alla catena di relazioni che la precede, nel quale naturalmente prima di diventare madri si è sempre figlie di un’altra madre che condiziona il proprio modo di essere donna. Per questo in Saint Omer ci sono sia il personaggio della madre di Laurence, che assiste al processo e con cui anche Rama ha delle laconiche conversazioni, sia gli inserti di filmini di famiglia della scrittrice che indagano in immagini granulose la relazione di una ragazzina sensibile con una madre austera e taciturna.

Partendo dalla sua formazione di documentaristica, la Diop costruisce un oggetto esteticamente complesso, un ibrido stilistico che incrocia diversi piani. Ricorre esplicitamente al riferimento alla tragedia greca per il tramite della versione cinematografica della Medea di Pasolini con Maria Callas. E, nella sequenza d’apertura, fa vedere una lezione accademica in cui Rama parte da Hiroshima Mon Amour, mostra immagini di repertorio di collaborazioniste con gli occupanti nazisti punite con la rasatura e ricorda le tesi di Marguerite Duras sulla “sublimazione del reale” che aiutano a guardare in un altro modo queste colpevoli, quali “soggetti in stato di grazia”.

Guslagie Malanda nel ruolo della madre infanticida di Saint Omer

Quest’affermazione si ricollega idealmente all’arringa finale dell’avvocata di Laurence, che parla delle cellule del dna che migrano durante la gestazione dal feto alla madre: “Cellule chimeriche, le chiamano gli scienziati. Le donne sono tutte chimere, portiamo dentro le tracce delle nostre madri e delle nostre figlie, che a loro volta portano le nostre tracce, siamo tutti mostri ma terribilmente umani”.

È a questa terribilità, all’orrore estremo di una donna che uccide la sua bambina e nonostante tutto resta un essere umano che si riferisce Saint Omer, parlando di tutte le forme di esclusione sociale, che non dipendono solo dai crimini commessi ma sono incisi sulla propria identità discriminata per le ragioni già ricordate di genere, etnia, classe, cultura (“questa è la storia di una donna fantasma”, ammonisce l’avvocata, che guarda in macchina rivolgendosi allo spettatore chiamato in causa).

Le perplessità suscitate da questo film denso e interrogativo sono legate proprio a questa dizione esageratamente saggistica, in cui gli inserti e le citazioni danno l’impressione di note a piè di pagine, postille a margine buone per una tesi di dottorato. E che purtroppo, invece di ampliare il discorso, corrono il rischio di offrire una lettura quasi univoca delle questioni sul campo, davanti alle quali lo spettatore ha la sensazione di essere trasformato in uno di quegli studenti della lezione universitaria di Rama (e quindi di Alice Diop).

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