Bones and All, Guadagnino ritrova Chalamet in un romanzo adolescente di carne, amore e morte

Il film mette insieme coming-of-age e road movie per raccontare una storia d’amore tra cannibali dal romanticismo troppo programmatico. Dal 23 novembre in sala

Bones and All

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Bones and All di Luca Guadagnino, già vincitore del premio alla regia all’ultima Mostra del cinema di Venezia, mostra “fino all’osso”, come recita il titolo, l’orrore del diventare adulti, l’intreccio doloroso e disfunzionale dei legami familiari – mai come in quest’opera “legami di sangue” –, il bisogno insopprimibile di amare ed essere amati. Un’opera che è insieme coming-of-age, storia d’amore romantica ed efferata, road movie poetico-politico (l’idea di ambientarlo nella provincia americana degli anni Ottanta di Ronald Reagan, la cui eco giunge da televisori e radio).

Riadattato da Dave Kajganich a partire dal romanzo omonimo di Camille DeAngelis (pubblicato in Italia da Mondadori), Bones and All è la storia dell’adolescente Maren (Taylor Russell, premiata come migliore interprete emergente a Venezia), che vive in una cittadina della Virginia col padre. Il quale però, quando riemergono le oscure predilezioni della ragazza per la carne umana, decide di abbandonarla. Rimasta sola, Maren intraprende un viaggio attraverso la provincia americana decisa a ritrovare la madre, l’unica che forse potrebbe spiegarle il perché della sua singolare natura. Lungo il cammino scopre che esistono altre persone come lei, l’inquietante Sully (Mark Rylance), e poi Lee (Timothée Chalamet), vagabondo un po’ più grande ed esperto di lei, col quale, un giorno dopo l’altro, nasce un legame profondo.

Maren e Lee per sopravvivere sono costretti a rubare e talvolta, vittime del loro appetito, a uccidere. Ma paiono più sbandati e adolescenti irrisolti che autentici fuorilegge – ricordano in questo l’ingenuità al fondo dei due assassini del classico La Rabbia Giovane di Terrence Malick, cui rimanda Bones and All per certe atmosfere e il tipo di paese che i il film descrive. Guadagnino evita tentazioni fantasy, per lui il cannibalismo dei protagonisti è un dato elementare, il loro destino ineluttabile, certo misterioso e molesto, ma oggettivo e immodificabile.

Il tema allora, per un racconto che non arretra mai di fronte all’orrore, è come riuscire ad accettare la propria condizione, tra attrazione e rifiuto di ciò che si è. Qualcosa che riannoda idealmente Bones and All alla precedente miniserie diretta da Guadagnino, We Are Who We Are, ruotante intorno al tema dell’identità di due adolescenti. Per questa ragione il percorso di scoperta del sé non può che passare, per Maren, attraverso il confronto con le radici e l’incontro con la madre, che ha un sapore dolente e sconcertante che ricorda quello di un altro spirito inquieto e diverso, il Carl Trask interpretato da James Dean ne La Valle dell’Eden. Strettamente intrecciata al romanzo di formazione, l’altra nota che deflagra nel cuore di Bones and All è il desiderio, la passione intima e inattesa che si crea con un altro essere umano, in cui si mescolano inevitabilmente dolcezza e orrore.

Coadiuvato dalla fotografia spenta di Arseni Khachaturan, che lo aiuta a ricreare degli anni Ottanta talmente esatti da sembrare ripresi dal vero, Guadagnino dispiega in questo film il meglio del suo non comune talento. In Bones and All c’è la capacità di radiografare i sussulti dei corpi, l’affiorare soverchiante ed elettrizzante delle emozioni, si tratti di filmare ragazzi che fanno un bagno al fiume tuffandosi da una rupe, il pigiama party con le ragazzine che si confessano segreti distese sotto un tavolino di cristallo, le serate spese al luna park d’un remoto paesino di provincia. Situazioni tipiche del cinema ottantesco, che Guadagnino riporta in vita con tocco delicato, accostandovi disturbanti squarci orrifici che intagliano un’altra verità al fondo dell’apparente “normalità”.

E qui Bones and All desta qualche perplessità. Il film parte da elementi noti, e cioè che l’adolescenza è una difficile fase di passaggio, con quella fame di vita e d’amore totalizzante che fa sentire all’improvviso come abitati, anzi travolti da un desiderio contraddittorio, inglobante e fagocitante; come tutt’altro che lineare e trasparente è il rapporto tra genitori e figli sentiti come “carne della propria carne”.  

Il punto è che Guadagnino prende alla lettera il simbolismo fisiologico facendolo esplodere didascalicamente nell’atto del cannibalismo, che fa sì affiorare quanto c’è di scomodo, di psichicamente e socialmente disturbante in quelle tensioni, però traducendo la costitutiva ambiguità del desiderio e le insicurezze dell’identità nella semplicità fin troppo esemplare del raccapriccio, sul quale innesta un romanticismo disperato e in purezza.

Così Bones and All dispensa emozioni sempre ad altissima temperatura, siano esse di ripulsa o d’amore. Le quali potranno far fremere fino all’identificazione il cuore adolescente, ma credo lasceranno qualche perplessità e la sensazione di un effettismo di superficie negli spettatori adulti alla ricerca di una più lucida disamina del binomio abissale “amore e morte”, per il quale forse Guadagnino avrebbe potuto proficuamente ripassare alcuni film dell’amatissimo Bernardo Bertolucci.

Aggiunge poco la cornice anni Ottanta di Bones and All. Non hanno certo importanza i pretestuosi riferimenti ai tempi di Reagan, che non si saldano mai davvero con la vicenda di Maren e Lee (succedeva lo stesso in Chiamami Col Tuo Nome, nel quale l’Italia di Craxi restava puro fondale, senza interagire mai coi personaggi). Semmai il decennio serve a al regista, nato all’inizio degli anni Settanta, per ritrovare il cinema, le canzoni (i Duran Duran), gli oggetti (il walkman con l’idea ruffiana della cassetta con l’ultimo messaggio del padre) dell’epoca in cui lui era ragazzino, permettendogli di sintonizzarsi ancora più facilmente sulle emozioni adolescenti dei suoi protagonisti. È una scenografia sentimentale quella degli anni Ottanta, la politica non c’entra nulla.

Il personaggio di Chalamet si esalta quando ascolta Lick It Up, il primo disco inciso dai Kiss, sottolinea lui, senza più truccarsi. Il trucco invece c’è e un po’ si vede nel film di Guadagnino. Perché una volta ripuliti i litri di sangue impastati come una maschera luttuosa ed esaltata sui volti famelici dei suoi sfortunati ragazzi, quel che resta è un film in cui l’amore indisciplinato angosciato tenerissimo degli incolpevoli protagonisti si srotola a partire da dialoghi non all’altezza del cuore di tenebra che il film intende raccontare: “Hai protetto le persone che ami.” – “Non pensi che sono una persona orribile?” – “Penso soltanto che ti amo”.

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