La linea sottile parte da Genesis P-Orridge e arriva a Kayla Trillgore

Kayla Trillgore sembra voglia provare a fare esattamente l’operazione opposta a quella cui si erano sottoposti nel tempo Genesis P-Orridge, andando a separare il suo essere carne e sangue dal suo essere spirito, uno spirito oscuro che però emana luce


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E dire che ci vorrebbe così poco. Basterebbe guardare al mondo dell’arte, non che la musica non sia un’arte, intendiamoci, ma intendo il mondo dell’arte inteso come il mondo dell’arte identificato anche accademicamente come tale, la pittura, la scultura, le arti performative, e mettere insieme qualche idea altrui, giusto passandoci sopra una mano di smalto, tanto per uniformare il tutto o far passare il tutto per originale, tanto il mondo della musica, intendendo con questo il mondo del pop, perché anche un certo tipo di musica è inquadrabile in quell’arte lì, ma non certo il pop e men che meno il pop per come lo vediamo praticare oggi, tanto il mondo del pop dell’arte, di quell’arte lì, non sa davvero nulla, neanche una blanda infarinatura, figuriamoci chi scoprirebbe cosa. Basta vedere quel che ha fatto Achille Lauro, per dire, e come quel che Achille Lauro ha fatto è stato ammantato di ammirazione, oh, che originalità, e perché no?, anche quel che hanno fatto i Maneskin, anche se loro hanno attinto più che altro al mondo della musica stessa, contando sulla scarsa memoria del loro pubblico e sulla scarsa memoria in genere, la frammentarietà baumaniana, il mare di input ipermodernisti, l’oggi. E dice che ci vorrebbe davvero così poco, come del resto c’è voluto poco a chi, in fondo, si è mosso per primo in questa direzione, giocando d’anticipo, certo, ma consapevole che chi gioca d’anticipo in certe situazioni arriva sì per primo, ma a volte arriva talmente tanto prima degli altri da risultare incomprensibile, come uno che volesse fare il veglione di Santo Stefano a metà novembre. Dico questo perché mi sono visto su Youtube, a volte anche lì si trovano cose interessanti, il documentario Theory of Obscurity: A Film About The Residets, dove per The Residents si intende la oscura e misteriosa band californiana che da una cinquantina e oltre d’anni si mostra in pubblico di frac vestita e con in testa le simpatiche maschere da bulbo oculare i capelli coperti da gigantesche tube. Una band sull’indentità dei cui membri si è sempre fantasticato, all’inizio del documentario si dice come di volta in volta si sia pensato ci fossero dietro (o sotto) da George Harrison a David Byrne, passando per Bono degli U2 e chi più ne ha più ne metta. Una band di rock alternativo, certo, che ha però fatto della parte performativa una parte portante della propria opera, giocando certo su certo esoterismo di facile metabolizzazione anche in occidente. Non è però dei The Residents che voglio parlare, andatevi a vedere quel documentario, seppur in inglese e senza sottotitoli, merita a prescindere, quello di cui volevo parlare, lo sto già facendo sin dalla prima frase di questo pezzo, è di come a volte basterebbe davvero poco  per rendere la propria musica tridimensionale, certo, partendo dall’inoppugnabile dato di fatto che se la musica che si propone fa cagare, tridimensionalità o non tridimensionalità, continuerà sempre a far cagare, ma visto che viviamo in un’era di sovraffollamento di input e di conseguenza nella più totale impossibilità di orientarsi nel mare magnum degli ascolti (molti gratis dentro il nostro cellulare, si tratti di Spotify o di Youtube) accompagnare la propria poetica, sempre che ce ne sia una, con un immaginario, non solo poetico ma magari anche estetico, potrebbe essere di deciso aiuto.

Certo, a guardare indietro, o anche al presente, ci sono casi eclatanti di chi, partito per quella tangente, cioè quella di un approfondimento performativo che sconfina apertamente nell’arte, roba da museo, laddove il museo non viene e non deve venir visto come un luogo in cui trova ospitalità l’arte del passato, ma dove l’arte continua a agitarsi, giorno dopo giorno, penso alla parabola personale e artistica di Genesis P-Orridge dei Throbbing Gristle, band industrial mancuniana, una volta divenuto artista solista, l’industrial che sfociava in una pioneristica acid house, comincerà a lavorare su un progetto dal nome Pandrogeny Project insieme alla sua seconda moglie, Jacqueline Breyer. Convinto che l’essere umano fosse per sua natura sessualmente fluido, motivo per cui da sempre si è scagliato contro quella che oggi viene identificata come comunità LGBTQ+, Genesis P-Orridge e sua moglie hanno cominciato a sottoporsi a una serie di operazione di chirurgia estetica al fine di assomigliarsi sempre di più, con l’idea finale, vanificata dalla morte di Genesis per leucemia nel 2020, all’età di settant’anni, di dar vita a una sorta di nuovo essere, una specie di coppia di gemelli siamesi separati dal nome Breyer P-Orridge. L’arte vista come qualcosa di talmente centrale da entrare a gamba tesa nella vita dell’artista, modificandone addirittura il corpo, come del resto la Body Art ha sempre fatto (a tal proposito vi consiglio di andarvi a leggere gli scritti di Lea Vergine a riguardo).

Ora, senza star qui a suggerire al cantante di turno di modificarsi l’aspetto, più di quanto già non si tenda a fare per convenzione, anche se in quel caso l’idea è di conformarsi sempre di più ai canoni vigenti, non certo quello di provare a farne un vessillo della propria personalità artistica, un veicolo delle proprie emozioni, per dirla proprio con Lea Vergine, contro quello che è il reale.

Certo, qualcuno ci prova, anche da noi. Qualcuno, cioè, giocando su una sperimentazione certo non spinta sul piano musicale, niente di ostile o ostico, accompagna il tutto con un uso artistico della propria immagine, lavorando quindi sul corpo, sul modo di esporlo come di muoverlo, camminando sul filo del rasoio che la censura, specie quella bigotta che impera sui social, in una multimedialità che l’arte di suo dovrebbe sempre prevedere, i media e l’arte non è che siano esattamente lo stesso piatto di pasta. Penso a Nava, artista mediorientale che avevamo tutti pensato (forse anche sperato) sarebbe entrata in una scorsa edizione di X Factor, lei così clamorosamente sopra le righe, in un luogo in cui tutti sono categoricamente dentro le righe anche nel loro provare a dimostarci di essere dei ghepardi, un electropop europeo che dall’oriente evidentemente attinge energie accompagnato con un modo di muoversi sul palco accattivante, originale, decisamente sensuale, ma Manuel aveva altro per la testa, non si è ancora capito esattamente cosa. Lei ha continuato a muoversi, lì, sinuosa e ironica, sexy e destabilizzante, se capitate da Roma nel weekend non perdetevela nel contesto interessantissimo di RomaEuropa Festival, dentro la cornice di LineUp!, rassegna sulle nuove promesse del pop, dell’elettronica e dell’urban al femminile curata da Giulia Di Giovanni e Matteo Antonaci di scena al Mattatoio, che la vede a fianco di altri nomi interessanti, si parte l’8 con LaHasna, proprio prima di Nava, il 9 con LNDFK e poi Joan Thiele, e si chiude il 10 con Elasi. Penso però anche a un’artista che ancora in quel giro non ci è magari entrata, ma che è lì lì per farlo, altrettanto sfrontata e enigmatica di Nava, al tempo stesso carnale e spirituale, come del resto l’arte spesso si trova a mostrarsi, Kayla Trillgore. Chi ha già avuto il piacere di ascoltare Nerodenso, il suo ultimo singolo, si sarà perso in queste sonorità electrodark, i titoli si trovano lì anche per dare indicazioni, prodotto per la prima volta in solitaria, dove la sua vocazione all’essere ipnotica e destabilizzante si eleva all’ennesima potenza, lasciando l’ascoltatore incantato come di fronte agli occhi di Sir Biss, ben felici di lasciarsi stringere nella sua morsa mortale. A dirla tutta, visto il punto panoramico da cui sono partito, Kayla Trillgore sembra voglia provare a fare esattamente l’operazione opposta a quella cui si erano sottoposti nel tempo Genesis P-Orridge e sua moglie Jacqueline Breyer, andando a separare il suo essere carne e sangue dal suo essere spirito, uno spirito oscuro che però emana luce, come a voler dimostrare che si può essere più di una semplice figurina da appiccicare in una determinata pagina, ambendo magari a essere tutto l’album. Se vi pare poco…

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