I due liocorni e il matriarcato, punti di contatto tra Comunione e Liberazione e le Pussy Riot

In Plastic, nuovo singolo delle Pussy Riot non ci sono unicorni, ma Nadja e le sue colleghe dal volto categoricamente coperte interpretano delle bambole, ovviamente sexy

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Capita spesso, non sempre ma spesso, che gli artisti vedano fatti e eventi in anticipo rispetto agli altri comuni mortali. Non voglio parlare di profezie, perché a volte queste loro, chiamiamole così, “visioni” non portano nessun tipo di beneficio all’umanità, ma è un fatto che, ascoltando canzoni, leggendo romanzi, vedendo film o serie tv ci può capitare di vedere indicazioni a volte quasi pedisseque di quel che poi ci capita di vivere. Inutile che io stia qui a citare gli ultimi anni passati in balia del Covid e tutta quella serie di opere che ne avevano anticipato con precisione chirurgica arrivo e svolgimento, da Contagion di Soderbergh in poi.

Del resto gli artisti sono esseri sensibili, capaci di provare emozioni talmente universali da riuscire poi a raccontarle con le giuste parole (parole, immagini, suoni, atmosfere) che rendano quei sentimenti decifrabili anche per gli altri, a volte la loro sensibilità è così acuta da sfociare in fragilità, quindi in dipendenze, o addirittura in follia, il vedere in anticipo quel che sta per accadere è solo un effetto collaterale di un cuore senza pelle, per dirla con Patrizia Laquidara (o Kim Rossi Stuart, a scelta).

Stupisce quindi, e non poco, il constatare come ci siano invece a volte opere d’arte, uso questo termine con paletti molto larghi, generosamente molto larghi, lontanissime dall’aver intuito quel che stava per accadere, se non addirittura rivolte nella direzione opposta agli eventi. Vere e proprie cantonate, di quelle che ti fermi a guardarle con attenzione e provi un po’ di imbarazzo, come quando qualcuno cui vogliamo particolarmente bene si mette in ridicolo o prende una gaffe.

Conoscete tutti questi versi, immagino, “Ci son due coccodrilli ed un orango tango, due piccoli serpenti, un’aquila reale, il gatto, il topo, l’elefante: non manca più nessuno, solo non si vedono i due liocorni.” È il ritornello del brano I due liocorni, meglio nota come Ci son due coccodrilli, una delle filastrocche per bambini fra le più famose in Italia, al pari dei “44 gatti”, quelli in fila per sei con resto di due, o del Gatto puzzolone, prova provata che ai bambini piacciono un sacco le canzoni che tirino in ballo gli animali, specie i gatti. Una canzone del 1978, scritta dalla cantautrice Marina Valmaggi, autrice del testo e di parte delle musiche, scritte con Roberto Grotti, e portata al successo dagli Zafra, band che vedeva la cantautrice collaborare, tra gli altri, con sua sorella Guya. Canzone simpatica, da accompagnare con un balletto fatto di mosse buffe, atte a ricreare l’andatura degli animai descritti, facili da riproporre sia per i grandi che per i più piccini, cui evidentemente è rivolta, la Valmaggi era una autrice di matrice cattolica, lo è ancora, insegnante ormai in pensione tra le prime a animare Gioventù Studentesca a Rimini, la sezione giovanile di Comunione e Liberazione, storia, confesso, io che poco fa sono apparso nel programma Nessun dorma di Massimo Bernardini in onda su Rai5 nella puntata dedicata al cantautore Claudio Chieffo, un grande cantautore ormai scomparso nel cui caso l’essere di Comunione e Liberazione ha contribuito negativamente a tenerlo a margine della storia della musica d’autore italiana, storia che ignoravo completamente, vedi tu quanti talenti sono passati dentro il movimento fondato da Don Luigi Giussani, canzone che però ha totalmente cannato qualsiasi previsioni su quello che sarebbe stato il futuro prossimo, lì, a pochi decenni da quando la canzone è stata composta, non appena scavallata la vetta del nuovo millennio.

Magari non tutti lo sanno, infatti, ma i liocorni che non si vedono nella canzone di cui sopra altri non sono che gli unicorni, esseri mitologici in realtà già nei primi anni Ottanta entrati in maniera dirompente nel nostro immaginario occidentale. Immaginario che a ben vedere abitavano già da tempo, almeno un paio di millenni e passa, essendo comparsi per la prima volta già nella mitologia greca, o meglio, nella letteratura greca, perché in realtà all’epoca si credeva fossero animali sovrannaturali ma realmente esistenti, difficilissimi da vedere ma non per questo non rappresentati in dipinti e scritti, del resto erano presenti già nella cultura sumera, dove si narra fossero presenti in Medio Oriente.

Che gli unicorni esistessero davvero, del resto, è stato creduto a lungo, sicuramente nel corso del Medioevo, quando si pensava che fossero animali molto rari e a loro modo timidi, che si facevano vedere solo da donne vergini e d’animo gentile, al punto da diventare simbolo religioso della sofferenza di Gesù Cristo, le corna dell’unicorno, in realtà di semplici narvali, avevano un mercato ricercatissimo, a loro erano riconosciuti poteri taumaturgici che andavano dall’essere antidoto contro il veleno ai più classici poteri afrodisiaci. Diciamola tutta, un cavallo che ha un corno bello grande sul muso non poteva che avere anche una simbologia sessuale, provate a indovinare che tipo di uso si faccia delle corna di rinoceronte, per dire (no, non vengono usati come dildo, maniaci che non siete altro), solo in epoca Vittoriana si smetterà di pensare che gli unicorni esistano realmente e questi dolci animali cominceranno a popolare solo le storie per bambini, di lì a breve associate anche agli arcobaleni.

E veniamo quindi a noi, non prima di aver citato un breve passo del film che nel 1982 Ridley Scott trarrà dal romanzo di un altro artista molto visionario, e molto matto, Philip K. Dick, Blade Runner, il titolo originale del romanzo suonava suppergiù come Gli androidi sognano le pecore elettriche?, un film assolutamente profetico e visionario, capace di indicare tutta una serie di relazioni tra uomo e virtuale, anime e macchine, che di lì a brevissimo avrebbe influenzato e non poco la combriccola degli autori cyberpunk, William Gibson e Bruce Sterling in testa, non a caso i primi a raccontarci di un mondo virtuale che si svolge in rete, dove si è tutti connessi senza neanche dover alzare lo sguardo da un device. Ecco, chiunque abbia avuto il piacere, di questo si tratta, di vedere il film di Ridley Scott, con protagonisti Harrison Ford, Rutger Hauer e una conturbante e robotica Daryl Hannah, ben sa come l’unicorno sia un simbolo fondamentale nel finale del film, tenete conto che il nocciolo della storia narrata, da Dick e da Scott, è come nella memoria l’uomo torni in contatto con se stesso, e quindi con una sua istintiva animalità perduta col tempo, siamo nel futuro, un futuro oggi passato, l’anno in cui si svolge la trama è in un futuro prossimo al 1982, ormai da tempo superato. Nel film Harrison Ford è un cacciatore di androidi, Rick Deckard, cui un buffo signore con i baffi a manubrio affida l’incarico di eliminare una partita fallata di androidi, i Nexus6, incapaci di stare nei ranghi e vogliosi di poter assaporare più porzioni di vita, come fossero umani. Nel farlo, e poi in altre due scene clou del film, il committente di Deckard gioca con degli animaletti di carta, origami. Nel primo caso un pollo, nel secondo caso un uomo, anche se non è di carta che si parla, ma di fiammiferi, con tanto di cazzo in evidenza, anche sproporzionato rispetto all’altezza,  nel terzo caso un unicorno, di carta stagnola, animale che poi apparirà in effetti nel finale iconico del film, quello in cui l’androide Rutger Hauer, Roy nel film, recita il famosissimo monologo “ho visto cose che voi umani non potete immaginare”, per altro andando poi a liberare una colomba, immagino pensata come vera, nell’atto di morire, scena che fa da contraltare a quella di cui vado ora a parlare. In un’altra delle scene focali del film, infatti, quando Rick incontra per la prima volta Rachel, la replicante in certo senso vero protagonista della storia, interpretata magistralmente da Sean Young, c’è anche un gufo, e lo scambio di battute tra lui e lei è davvero da cineteca: “Le piace il nostro gufo?” chiede la replicante, “È artificiale?” domanda lui, “Naturalmente”, risponde lei. Non sì, ma naturalmente, per indicare qualcosa di artificiale. Un colpo di genio. Un gufo, una colomba. Notte vs candore, Dio quanta simbologia.

Tornando agli origami, simbologia elevata al grado di simbologia, il passaggio tra il pollo, appoggiato sul tavolo dell’investigatore che sta per intraprendere non solo la sua caccia, quanto piuttosto un percorso esistenziale che lo porrà a confronto con se stesso e la quintessenza dell’essere uomo, e l’unicorno, simbolo dell’animalità fittizia, di fantasia, non a caso Rick nel vederlo in terra, di carta stagnola, dopo aver dichiarato il suo amore alla replicante Rachel, lo accartoccerà, distruggendolo, c’è l’uomo, catena di congiunzione metaforica di questo viaggio nell’io (poco prima di compiere questi gesti, dichiarare il suo amore di uomo per una replicante che è cosciente di essere tale e accartocciare il simbolo di una animalità in effetti inesistente, come gli unicorni, appunto, Rick ha sognato proprio un cavallo con un corno sul muso, complice una grande dose di alcool ingerito, certo). Gli unicorni, questo ci dice il film di Scott, tratto liberamente dal romanzo di Dick, ci sono o noi crediamo ci siano, è solo questione di guardarsi bene intorno, altro che I due leocorni che non si vedono.

Arriviamo ai tempi nostri, da tempo superato il Millennium Bug, una società non troppo diversa da quella immaginata da chi scriveva di fantascienza in quegli anni Ottanta qui, a portata di mano, i social, il web, la globalizzazione con  quel che ne consegue. Gli unicorni ci sono, eccome, e sono praticamente ovunque.

Si è cominciato appunto negli anni Ottanta, quando la Hasbro, azienda leader nel mondo dei giocattoli, ha tirato fuori i My Little Pony, da noi in Italia semplicemente i Mini Pony, e si è poi proseguito con una vera e propria invasione, ovviamente pacifica. Non che i Mini Pony nel mentre fossero spariti, ma vedere Miley Cyrus esibirsi con indosso una gigantesca tuta da unicorno, seguita a ruota da Ariana Grande, e vedere come nel tempo gli unicorni siano diventati parte della iconografia del mondo LGBTQ+, associati ovviamente ai colori arcobaleno, animali gentili e sensibili che sono visibili solo dai puri di cuore, in questo decisamente distanti dall’idea di Ridley Scott a livello di simbologia, è qualcosa di quantomeno sorprendente, come è sorprendente come gli unicorni, un tempo associati appunto al corteggiamento gentile o a certa iconografia cristiana, siano col tempo diventati titolari di prodotti, ovviamente ipercolorati, di diverse catene di food and beverage, Starbucks su tutte.

Viene da chiedersi, non fosse che è un peccato di poco conto, di quelli che neanche si dovrebbero elencare durante una comune confessione, cosa aveva per la mente la Valmaggi quando ha scritto la sua filastrocca, perché oggi son ben altri gli animali che non si riescono a vedere, compresi i famosi gatti, almeno se cammini per strada a Milano. Del resto, cosa di meglio di un animale mai esistito ma cui in molti, almeno da piccoli, si è creduto ciecamente, animale elegante, oggettivamente simpatico e innocuo, comunque dotato di sensibilità e poteri magici per rappresentare tutta quella gamma di possibilità inespresse (o espresse nonostante le discriminazioni) cui la comunità LGBTQ+ vuole giustamente dare voce?

Quindi ecco questa parata festante di unicorni nei vari Gay Pride, e ecco gli unicorni emblema di operazioni come Unicorn Dao che vede, tra gli altri, le Pussy Riot impegnate nel opere d’arte in NFT con lo scopo di amplificare i messaggi e supportare l’attività di artiste donne e gli artisti appartenenti alla comunità LGBTQ+, l’attenzione rivolta al gender gap, ancora presente anche nel campo dell’arte. Basta seguire sui social questa realtà per fare conoscenza non solo con l’estrosa iconicità di Nadja Tolokonnikova, che delle Pussy Riot è anima e corpo, ma anche dei suoi amici unicorni. Del resto questa anomala artista punk, attiva sia sul fronte musicale che delle performance artistiche, ha creato con le sue socie, negli anni, un immaginario potentissimo, antiputiniane nell’animo, ricordiamo i due anni passati ai lavori forzati per aver protestato dentro una chiesa ortodossa contro il leader russo, e decisamente antipatriarcali. Al punto che il loro primo album, fin qui si sono sempre mosse con singoli e EP, in uscita durante l’estate, si intitola Matriarchy Now. Un lavoro, presentato come un mixtape e come i mixtape pensato con la produzione dei singoli brani affidata a producer differenti, anticipato dal singolo Plastic, con il featuring di ILOVEMAKKONEN. Lavoro, Matriarchy Now che vede vestire i panni, fatto piuttosto insolito visto che è solita apparire sul palco in topless e comunque anche nei suoi video non è che sia mai troppo vestita, di produttrice esecutiva Tove Lo, cantautrice svedese che a sua volta sta portando avanti da tempo una propria battaglia personale contro il patriarcato, senza tirare in ballo unicorni ma usando come logo il simbolo di una vagina, la doppia O del suo nome e cognome stilizzata. Vedetevi il video di Sadder badder cooler, singolo di un paio di anni fa, video animato che mostra al fianco di una Tove Lo nei panni della killer assetata di sangue, tipo la Kill Bill di Tarantino, un coniglio altrettanto duro e puro, a ispirarle tutte le vendette del caso, coniglio che proprio al centro del petto esibisce il logo vaginale, in pendant con denti canini, scimitarra e occhiali da sole nero. Tove Lo, anche lei fuori a breve con un nuovo lavoro sulla lunga distanza, il suo quinto album dal titolo Dirty Femme, anticipato dai songoli No One Dies From Love, accompagnato da un video futuristico che per certi versi potrebbe ricordare Bad romance di Lady Gaga, e True Romance, la copertina anticipata sui social la vede in uno strano costume intero, anch’esso futuribile, che presenta sul retro quella che sembra una coda da scorpione con tanto di pungiglione (degli scorpioni si parlava qui,https://www.optimagazine.com/2021/12/10/la-muerte-di-yoniro-tra-eros-e-thanatos-tra-smalti-bianchi-e-culi/2255744 a proposito per altro di un’altra artista che qualcosa in comune con Nadja delle Pussy Riot ha una forte somiglianza, sembrano quasi sorelle, a vederle).

In Plastic, nuovo singolo delle Pussy Riot non ci sono unicorni, ma Nadja e le sue colleghe dal volto categoricamente coperte interpretano delle bambole, ovviamente sexy, la sessualità è parte integrante della loro poetica, anche in questo caso un mondo infantile, giocoso, che diventa altro da sé, i tanti colori presenti incapaci di stemperare la carica eversiva che passa da quella canzone in apparenza, ma solo in apparenza, innocua.