Gli autonauti della cosmostrada, Amanda Palmer e gli elefanti

Amanda è una cantautrice americana che sta attraversando i nostri giorni lasciando a mio modo di vedere segni indelebili

HRADEC KRALOVE - JULY 2: American singer Amanda Palmer during her performance at festival Rock for People in Hradec Kralove, Czech republic, July 2, 2013.


INTERAZIONI: 106

I bestiari hanno una lunga tradizione. Non sono certo io a scoprirlo, né sono la voce più autorevole a sottolinearlo. Ma è evidente, nel momento in cui uno scrittore decide di confrontarsi con un genere o sottogenere letterario, e quello dei bestiari lo è indubbiamente, che il primo passo sia confrontarsi con la tradizione, magari anche solo per lasciarsela alle spalle o di destrutturarla e provare a ipotizzarne una nuova versione. No, non sto certo dicendo che ambisco all’originalità assoluta, anche se non credo ci siano altri bestiari del genere, o più in generale ci siano altri scrittori e altri critici musicali, magari altri scrittori e critici musicali, perché questo sono, che ne abbiano pensato uno del genere, solo che tendo a vedere la scrittura come una forma d’arte in continua evoluzione, anche quando ricalca canoni già calcificati, figuriamoci nel momento in cui si staccano decisamente dalla riva per provare a prendere il largo.

Tornando però ai bestiari, ce ne sono davvero tanti e di tipi differenti, da quelli medievali, anche vergati da autori rimasti anonimi, a quelli divenuti a loro modo dei classici, penso al Libro degli esseri immaginari di Jeorge Luis Borges, tanto per fare un nome e un titolo, uno mi ha sempre colpito particolarmente, e dico sempre perché, spero la cosa non sorprenda, il mio interessarmi ai bestiari è assai precedente all’aver iniziato a mio modo a scriverne uno, per quanto anomalo questo mio bestiario possa essere. Parlo del Bestiario di Julio Cortazar, autore considerato a ragione uno delle massime espressioni della letteratura sudamericana del Novecento, immagino non solo di quella sudamericana, tanto più che ha vissuto parte della sua vita in Francia, dove è poi morto naturalizzato francese, lui che era comunque nato argentino in Belgio, autore di classici quali Rauyela- Il gioco del mondo, Storie di cronopios e di famas, Fine del gioco, solo alcuni titoli in una bibliografia ricca di romanzi, raccolte di racconti, miscellanee, testi teatrali, saggi. Seppur io nutra profondamente una ostilità sincera nei confronti della letteratura sudamericana, quasi tutta, problema mio, in palese difficoltà a farmi andar giù quei barocchismi fantastici, quel far pesare la cultura degli autori, seppur fingendo deferenza, caratteristica che in effetti condividono con gli intellettuali del meridione d’Italia, quel costruire trame poco lineari e più concentrate sul panorama che sul viaggio o la meta finale, diciamo così, e so di star tagliando con la falce una fetta importante di quanto il Novecento ha prodotto, applicando a un campo altrimenti serioso come la letteratura quella modalità rock ‘n roll che applico in genere alla critica musicale, prendetela come un vezzo, o come l’effetto che il troppo caldo estivo ha su di me, al vostro buon cuore, seppur quindi io non sia un gran frequentatore di autori sudamericani, e a dirla tutta anche francesi, con poche e rare eccezioni, amo Cortazar, per altro proprio per quelle caratteristiche che negli altri sono per me oggetto di fastidio, il mio amore per il suo Bestiario ne è prova provata, ma c’è soprattutto un libro della sua produzione che amo alla follia, un libro che, per una faccenda per altro degna di finire in un romanzo sudamericano del Novecento, a lungo è stato fuori dalle nostre librerie, “Gli autonauti della cosmostrada- ovvero un viaggio atemporale Parigi-Marsiglia”, storia di un viaggio che Cortazar, in fin di vita, ha compiuto con sua moglie, la siua seconda moglie, Carol Dunlop, a sua volta in fin di vita, per trentatré giorni a partire dal 23 maggio 1982, quarant’anni fa, dentro l’autostrada che congiunge Parigi a Marsiglia. Sì, un viaggio metaforico in un luogo atto a abbreviare i percorsi, a permettere, anzi, pretendere velocità, come un’autostrada, senza mai uscirne, sostando in tutte le aree alla sosta preposte, una media di due al giorno, la lentezza, questa sì sudamericana, elevata all’ennesima potenza, fino a rendere il tutto una sorta di viaggio interiore, pubblico, un pulmino Volkswagen di quelli da fricchettoni come mezzo e come casa, un diario a due voci che è una storia d’amore raccontata dai protagonisti, nel libro Orsetta e Lupo, ma anche una summa di tutto quanto la letteratura può essere, reportage, recensione, saggio filosofico, racconto aneddottico, romanzo. Un libro incantevole, nel senso che è come fare i conti con un mondo incantato, nel quale la fine è nota già in partenza, la morte dei due protagonisti è comunque questione di settimane, mesi, la voglia di dettare proprie regole al corso degli eventi altrettanto evidente, potere di chi scrive, almeno sulla pagina. Un libro che però ha trovato un muro, in Italia, per questioni che con i libri in sé non dovrebbero avere a che fare, faccende di gelosie, di amicizia, di dispetti. A impedirne a lungo la pubblicazione, infatti, il niet di Chichita Singer, nome esotico della moglie di Italo Calvino, nota traduttrice argentina di stanza in Italia, grande amica di Aurora Bernardez, anche lei argentina, come Chichita e Julio, anche lei scrittrice e traduttrice. In sostanza, la vedova Calvino, l’autore di Se una notte d’inverno un viaggiatore e Cortazar sono morti a distanza di pochi mesi, ha impedito che il libro uscisse in Italia perché era il libro che cristallizzava la storia d’amore di Cortazar con la sua seconda moglie, lasciando che la sua longa manus agisse in sede editoriale in quel di casa Einaudi. Facendo quindi un piccolo dispetto agli autori, nel mentre entrambi defunti, certo, ma soprattutto a noi lettori, orfani di un testo importante e soprattutto di un testo oggettivamente bello.

Piccolezze borghesi, verrebbe da chiosare, tanto più che oggi tutti i protagonisti di questa storia non ci sono più, e il libro in questione è a disposizione di chi voglia leggerlo, nel catalogo Einaudi.

Continuo a parlare di letteratura, e di letteratura del Novecento, anche se a ben vedere lo farò parlando di un libro uscito nel 2004, quindi a Novecento in apparenza morto e sepolto, in apparenza, badate bene. Voglio infatti parlare di Tristano muore, romanzo di Antonio Tabucchi, è lui lo scrittore del Novecento cui facevo riferimento, sono pronto a affrontare a mani nude chi, appellandosi al calendario, provasse a confutare questa mia solida tesi. Il romanzo Tristano muore, in cui il riferimento a Tristano è un omaggio più al Leopardi delle Operette morali che alla figura mitologica, racconta la storia di un addio, e di un addio doloroso nel quale il protagonista decide di farsi accompagnare da uno scrittore, testimone della sua memoria, certo, ma anche compagno degli ultimi passi del suo cammino. Tabucchi fa riferimento a una caratteristica degli elefanti, animali antichi e per certi versi nobili, che nel momento dell’agonia e quindi della morte decidono, come molte altre specie, di lasciare il branco, andandosene lontano, ma accompagnate da un altro esemplare, esemplare che poi farà il suo ritorno nel branco. Tristano, sulla via dell’addio a causa di una cancrena e lo scrittore che lo ascolta farneticare, più o meno lucidamente, i due elefanti di quel romanzo, a riprova che il mondo animale, in effetti, offra grandi spunti anche narrativi. Del resto, lo si è detto altrove, la memoria è spesso rappresentata, nell’immaginario comune, come una caratteristica peculiare di questi pachidermi, animali fuori dal tempo che sembrerebbe, altrove ho raccontato che non è esattamente così, non dimenticare mai nulla.

Chi evidentemente non ha problemi nel confrontarsi con la propria memoria, a suo modo artista novecentesca e decisamente contemporanea allo stesso tempo, novecentesca nel modo di intendere l’arte come veicolo di messaggi, oltre che come contenitore di sentimenti, ma contemporaneissima nel suo coinvolgere costantemente il pubblico, si tratti di farsi finanziare con un crowdfunding o di chiedere loro di contribuire con spunti alla composizione di brani, su Patreon, è Amanda Palmer, cantautrice americana che sta attraversando i nostri giorni lasciando a mio modo di vedere segni indelebili, anche a memoria di chi verrà dopo di lei a percorrere quei sentieri ancora poco battuti. L’ultimo lavoro di studio dell’ex Dresden Dolls, a oggi, The Will Be No Intermission, oltre che essere un potentissimo manifesto femminista, per altro supportato da canzoni solide come il monolite di Kubrick e leggere come l’etere, altra caratteristica tutta sua, essere dolorosa e divertente al tempo stesso, inanella una dietro l’altra un faccia a faccia, o meglio, un corpo a corpo di Amanda Palmer col suo passato, senza filtri, come mai potrebbe avere filtri una artista come lei, letteralmente e letterariamente sempre a nudo, e senza sconti. Nelle venti tracce che compongono la tracklist, Amanda Palmer è sempre molto generosa, mica per niente appena ha fuori una canzone nuova la mette a disposizione dei suoi tanti fan, a loro volta molto generosi nel supportarla con le loro donazioni, si parla di aborto, di masturbazione, di morte, di suicidio, senza mai essere grevi, senza mai fare leva su una emotività spiccia, evitando categoricamente le scorciatoie, semmai provando a spiazzare con punti di vista decisamente personali, il ridere delle proprie sofferenze e invitare gli altri a unirsi alle risate non è poi così comune, in occidente, men che meno nella musica cosiddetta leggera.

Come nel libro di Cortazar e la Dunlop, come nel romanzo di Tabucchi, l’esporre il proprio corpo, morente, in quei casi, vivo e pulsante nel caso della Palmer, è parte portante della poetica, leva con la quale sfondare la quarta parete, certo, ma anche squarciare il velo che ci impedisce di vedere e essere visti, e mai come nel suo caso il corpo, costantemente esposto, coi suoi peli superflui in bella vista, ci ha scritto su pure una mezza hit per elettronica e ukulele, Map of Tasmania, del resto, è il vero centro della narrazione, un corpo che conturba, disturba, mostra cicatrici e forme, senza vergogna e senza pudore.  Non ho idea un personaggio come Amanda Palmer che animale fantastico sarebbe potuta diventare se raccontata da un Borges o dallo stesso Cortazar, sicuramente un animale dotato di un fascino unico, carismatico, di quelle che usano il loro muoversi come danza di corteggiamento, peli pubici al posto di piume multicolore, che con l’uso della propria voce fanno ben più che comunicare, incantano. E aiutano a tenere viva la memoria, la reiventano, anche, trasformando i dolori in risate e i traumi in trame, un animale degno di finire in un Bestiario.