Abbattere la quarta parete guardando Deadpool

l’idea di guardarmi i due Deadpool per non pensare, per rilassarmi, per riposarmi, non è stata l’idea del secolo.


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Giorni fa mi sono rivisto i due episodi di Deadpool, l’1 e il 2, con un gigantesco Ryan Reynolds. Deadpool è un personaggio della Marvel, nell’universo X Men, e a occhio distratto e disattento apparirà prevalentemente come quello che parla di continuo, spesso guardando in camera, sempre usando un linguaggio sboccato, volgare, politicamente scorretto. Uno Spiderman decisamente sopra le righe, già i titolo di testa dei film ne sono prova provata. In realtà la visione di Deadpool, sono un appassionato di fumetti, di supereroi nello specifico, era finalizzata a non pensare, faccio così, a volte, quando voglio riposarmi, guardo un film o una serie Tv che ho già visto, così da non dover stare troppo attento, addirittura in diritto di non seguire la trama, so già cosa sta per accadere, neanche fossi un Dio in assenza di libero arbitrio.

Aver ripreso a viaggiare, a incontrare persone in presenza, so che agli occhi di chi magari ha sempre proseguito la propria vita routinaria la cosa suonerà un filo melodrammatica, che poi il melodramma è uno dei colori nella tavolozza da cui ha attinto l’autore di Deadpool, la tragedia che sfocia in farsa, senza dover tirare in ballo Flaiano, la Marvel ha preso da tempo questa china, a seguire la narrazione trasversale che passa di filone in filone è ben chiaro anche a chi di narrazione sa poco o nulla, aver ripreso a viaggiare, a incontrare persone in presenza ha in qualche modo contribuito a privarmi di quel refolo di energie che ancora albergava in me, l’apatia è nemica dell’energia, è noto, e combattere l’apatia mettendosi in moto è comunque un volersi confrontare con chi è evidentemente più forte e allenato di noi. Resta quindi che la visione di Deadpool, sono un appassionato di fumetti, di supereroi nello specifico, era finalizzata a non pensare, faccio così, a volte, quando voglio riposarmi, guardo un film o una serie Tv che ho già visto, così da non dover stare troppo attento, addirittura in diritto di non seguire la trama, so già cosa sta per accadere, neanche fossi un Dio in assenza di libero arbitrio.

Solo che a vedere lì il supereroe sboccato e disinibito, spudorato dovrei forse dire senza bisogno di ricorrere a troppi giri di parole, sì, spudorato, mi ha fatto fare un ragionamento che non posso ora esimermi di condividere con voi.

Ecco, l’ho già appena fatto, vi ho tirato in ballo, facendo quel riferimento appena accennato al condividere con voi il mio ragionamento tratto dalla visione dei due Deadpool. Ho in sostanza praticato un gesto che, fossimo a teatro, o al cinema, avrei potuto etichettare come “abbattere la quarta parete”, rispondendo il gesto in questione a tutte le caratteristiche di quello specifico canone. Abbattere la quarta parete sarebbe, in sostanza, distruggere quella divisione che separa attore e pubblico, la quarta parete sarebbe una parete immaginaria posta proprio lì, sul proscenio. Gli attori che parlano con il pubblico, coinvolgendolo, i personaggi che si dimostrano tali, quindi scritti, finti, e escono momentaneamente da quella narrazione per dialogare di sé e del mondo con chi è destinatario di quei personaggi e di quel mondo, quello reale come quello immaginato e immaginario, in scena. La narrazione, quindi, che si sfalsa su più piani, la fiction e la realtà, laddove la fiction rimane finzione, e la realtà è a sua volta finzione, scritta e mediata dalla penna dell’autore, interpretata da un attore, diretta da un regista. Anche quando, capita, è parte del gioco, a volte è l’improvvisazione a dettare la trama, lo svolgimento, scrittura non scritta ma comunque mediata. Deadpool, non è certo il primo caso al cinema, come nel mondo dei fumetti, la sensazionale She-Hulk, sulla carta supereroina versione in rosa dell’incredibile Hulk, parlava non solo col lettore, ma anche con il proprio autore, John Byrne, l’abbattimento della quarta parete, in quel caso, era parte portante di quel fumetto, di quel personaggio, conscio di essere appunto un personaggio, e quindi intenzionato a dire la sua sul suo sviluppo, mica per nulla partita come “la selvaggia She Hulk”, ben presto diventerà “la sensazionale She Hulk”, una soprta girl enpowerment lì, a portata di mano, mica solo Pirandello faceva interagire spettatori e attori, suvvia, non facciamo gli snob, Deadpool è un personaggio bizzarro che abbatte costantemente la quarta parete, e nel mentre abbatte anche il senso del pudore, andando così a giocare più partite contemporaneamente, una terza, direi, forse la meno interessante, almeno ai miei occhi, quello della trama vera e propria, tre partite giocate non saprei dire se tutte vittoriosamente.

Ora, è facile intuirlo, sto qui a scrivere da un numero sufficiente di battute per farvelo intuire, appunto, non ditemi che ho miseramente fallito, ecco ancora una volta che vi tiro in mezzo, dopo aver tirato in mezzo me stesso, io che sto qui a scrivere e a dirvi quanto ho scritto, a sottolinearlo, voi, passivi, a leggermi e a essere tirati in ballo in quanto lettori, col dubbio che siate lettori poco intuitivi, fatto che di suo contravviene a quella sorta di codice non scritto che vorrebbe l’autore sempre accondiscendente verso il lettore, sua fonte primaria di lavoro, almeno stando a una vox populi in realtà errata, che non tiene conto della figura dell’editore, comunque, ribadisco, è facile intuirlo, l’idea di guardarmi i due Deadpool per non pensare, per rilassarmi, per riposarmi, non è stata l’idea del secolo. Infatti, affatto avvinto dalle trame, conosciute e quindi prevedibili ai miei occhi, mi sono messo a ragionare proprio sulla quarta parete, o meglio, sull’abbattere la quarta parete, e sull’abbattere la quarta parete e al tempo stesso l’abbattere il senso del pudore. Mi sono messo a ragionare su questo e, in genere finisco sempre per fare questo, lo avrete notato, ho traslato il tutto su quello che da qualche tempo, diciamo circa cinquantadue, quasi cinquantatré anni, è questione di giorni, sto provando a fare su me stesso. Su me stesso e di conseguenza con voi, che come da copione siete lì, o se non ci siete nella finzione che ho allestito a beneficio di questo scritto siete comunque lì, a determinare proprio la veridicità del me stesso personaggio narrato, come chi è costretto a drizzare le orecchie per ascoltare l’albero che cade nella foresta affinché si possa in effetti dire che è caduto, sapete tutti la storiella in questione.

Quando scrivo, queste le conclusioni cui sono arrivato, mentre Deadpool menava fendenti violentissimi, guardando in camera e usando un linguaggio da scaricatore di porto, che già di suo sembra in effetti un personaggio di un episodio futuro di Deadpool, quando scrivo provo a applicare la faccenda della quarta parete, o meglio dell’abbattere la quarta parete, alla scrittura. Non alla scrittura atta a essere recitata, intendiamoci, ma alla scrittura atta a essere letta, non necessariamente a voce alta (poi magari qualcuno la recita pure, vai a sapere, il mondo è davvero un posto pieno di gente strana, ultimamente in parecchi lo hanno fatto). Scrivo e scrivo sempre mettendo nei miei scritti un personaggio che porta il mio nome, il mio cognome, ha la mia faccia e fa il mio lavoro. Io, in pratica. E mentre scrivo la voce narrante, presente nello scritto, quel che scrivo è sempre in prima persona singolare, è la voce narrante che si può ricondurre naturalmente a quel personaggio lì, Michele Monina. Quindi c’è un personaggio che potrei essere io. C’è una voce narrante che potrebbe essere la mia. C’è anche la mia penna, quella che crea il personaggio e la voce narrante, non necessariamente coincidenti, né il personaggio né la voce narrante, con me stesso e con la mia vera voce. Poi c’è il lettore, voi, o tu, a seconda che io voglia creare qualcosa di più confidenziale, intimo, o corale, pubblico. Il o i lettori a cui mi rivolgo, ci si rivolge la voce narrante, a dire il vero, e il personaggio, non io in prima persona, andando a raccontare non solo quello che è lo sviluppo della trama, in forma diretta, facendo svolgere azioni e fatti, ma spiegando come intendo sviluppare la trama, o raccontando come l’ho sviluppata, quindi descrivendo il me stesso che scrive, o almeno il me stesso che scrive che penso sia utile infilare in uno scritto, la scrittura è sempre mediazione e finzione. La quarta parete, in letteratura, non è necessariamente presente, almeno non in maniera esplicita, per questo, per poter descrivere il mio costante impegno nell’abbatterla, sono molto più spesso intento a costruirla, la quarta parete, e a descrivere che sta lì, visibile a occhio nudo.

Lo sto facendo anche ora, per altro, così, transustanziazione di quel che vado descrivendo, loop di me che dico cosa sto facendo e nel dirlo dico cosa sto facendo, a vostro beneficio, o forse, onestà intellettuale portami via, a beneficio di un teatrino kabuki da me stesso allestito.

Fermi tutti, mi sono andato a infilare in un vicolo cieco. In realtà voi ancora non lo sapete, o non lo avreste saputo, non fosse che ve l’ho appena detto io, a meno che non siate appassionati di teatro giapponese. Lo so, so che quest’ultima frase vi avrà urtato clamorosamente i nervi, della serie “ma questo stronzo chi si crede di essere che viene a darci degli ignoranti”, seppure io non abbia esplicitamente detto che siete degli ignoranti, l’ho più che altro sottinteso, o meglio, l’avevo sottinteso prima di andare a mettere tra virgolette un vostro ipotetico pensiero, fatto che in qualche modo ha cristallizzato il mio, di pensiero, e cioè che siete degli ignoranti perché nulla sapete del teatro kabuki. Vedete come è difficile da maneggiare questa faccenda della quarta parete da abbattere, fossi ora She Hulk, o Jennifer Walters, l’avvocatessa che in She Hulk si trasforma, fossi una delle due versioni della medesima persona, quindi, in veste umana o superoistica, me ne starei qui a litigare con me stesso, il John Byrne della situazione, l’autore che si è mosso goffamente facendo danni. Certo me ne potrei uscire fuori dicendo che era tutto voluto, tirare in ballo il mio solito pallino del postmodernismo, John Barth, Robert Coover, Donald Barthelme, costruire ancora una volta un teatro kabuki, e so che sapete che il teatro kabuki in realtà non si basa quasi affatto sulla parola recitata, e quindi sulla trama, più su suggestioni esternate col movimento e la mimica, siete in fondo miei lettori, mica passanti distratti, cazzo, proprio non ce la faccio a farvi un complimento senza rovinare tutto, stavolta attribuendo a me meriti non miei,  potrei certo continuare a portarla per le lunghe, ma credo di aver abbondantemente reso l’idea.

Lasciamo da parte Deadpool, quindi, tentativo miseramente fallito di riposarmi. 

Anzi, no, torniamo proprio a Deadpool, per la precisione alla scena madre di Deadpool 2, perché seppur sia spudorato, ironico e infarcito di metafiction Deadpool è pur sempre un film di supereroi e in quanto tale ha una trama ben congegnata e di conseguenza una scena madre. Nella scena madre di Deadpool 2, che non racconterò per non spolierare niente a quanti di voi, avvinti dal mio parlare di Deadpool e della sua volontà ferrea di abbattere la quarta parete correranno a vederselo, come tutto il mondo Marvel lo trovate su Disney+, a un certo punto parte una canzoncina cantata da una voce infantile, femminile. Una melodia malinconica, seppur poi il tema si apra a qualcosa che vuole indicare coraggio, forza di volontà, quasi orgoglio. No, non è vero, la canzone è e rimane sempre malinconica, è quello di cui parla che mi ha spinto a scrivere quanto ho scritto, e anche quello che sapevo sarei poi andato a scrivere, perché se cito questa determinata canzone, che arriva così, a tradimento, almeno per me, proprio nella scena madre di Deadpool 2, spero avrete apprezzato il mio mancato spoiler, non è certo per la trama del film, di cui ho già detto non mi interessa nulla, punto debole del film, quanto perché la canzone in questione, malinconica ma a suo modo epica, cantata da una voce infantile e femminile, altro non è che Tomorrow, nella versione di Alice Morton, tratta dal film Annie.

A questo punto, immagino, la quarta parete l’ho abbattuta a suon di parole, ma non sono mica in grado di sapere esattamente cosa succede dall’altra parte, cioè in voi che leggete, cioè lo posso ipotizzare, per quel po’ di esperienza di scrittura che ho, lo posso anche sperare, facendo leva su una autostima che, lo avrete intuito, non mi fa difetto, ma non ne ho certezza, vado a occhio, perché a questo punto, immagino, vi starete dicendo “ e sticazzi”, intendendo con questo, e chi se ne frega che la canzone malinconica e epica che arriva nella scena madre di Deadpool 2 è Tomorrow di Alice Morton, tratta dal film Annie. No, fermi tutti, non voglio stavolta darvi degli insensibili, e lungi da me star qui a voler dimostrare che non abbiate idea di cosa io stia parlando quando parlo di Tomorrow di Alice Morton tratta dal film Annie. Il fatto è che io non avevo idea di che canzone fosse, di quale fosse il titolo, a dirla tutta, e di chi la cantasse, né che fosse parte di un film, quel film, Annie, di cui, confesso, anche ora nulla so, come nulla so di Alice Morton,  se non quello che mi sono andato a cercare in rete, Annie è una storia di una orfanella, durante la grande depressione, almeno nella versione originale, storia che è stata lanciata da un musical a Broadway e poi da un film del 1982, ma Alice Morton ne è l’interprete, di Annie e del brano Tomorrow, tema portante della colonna sonora, nel remake del 1999, per la regia di Rob Marshall, quello dei Pirati dei Caraibi e dei remake anche di Mary Poppins e della Sirenetta, quindi non potevo saperne le intenzioni. Anzi, a dirla tutta, io la canzone la conoscevo, per questo ho improvvisamente virato questo pezzo sul brano, abbandonando la faccenda della quarta parete, in apparenza, il fatto che lo dica e che lo dica mentre descrivo quello che sto facendo attesta che la quarta parete è lì, in terra, ridotta in macerie, e perché è una canzone che mi è particolarmente cara, solo che non sapevo fino a pochi minuti fa né il suo titolo, né la sua interprete, né la sua autrice, Aileen Quinn. La canzone in questione, nella sua versione italiana, dal titolo non originalissimo di Domani, mi è cara perché, in una versione vagamente “alla manga”, io ero convinto fosse la sigla appunto di un cartoon, di un manga, di un anime o di come diavolo si chiamano i cartoni animati giapponesi, altro che kabuki (lo confesso, ho scritto questa frase per ingraziarmi chi si fosse sentito offeso proprio dalla questione del kabuki, anche io ho le mie falle, questo il non detto, ora detto). Domani, infatti, era una sample di una canzone che ho ascoltato ormai un diciotto anni fa, forse anche diciannove, quando cioè ho avuto il piacere di ascoltare i primi brani incisi da un giovanissimo rapper, sedici anni all’epoca, incontrato durante uno dei reportage che stavo facendo per Tutto Musica, reportage che indagava sul mondo delle rap battle milanesi, figlio dell’imminente arrivo nelle sale cinematografiche del film 8 Mile con Eminem. In quell’occasione avevo incontrato questo rapper altissimo, giovanissimo e allampanato, piuttosto cupo nei modi e bizzarro nel linguaggio, che rispondeva al nome di Mondo Marcio, e di lui decisi di scrivere dandogli il titolo del reportage tutto: “Ho visto il futuro del rap ed è Marcio”. Da lì, lo ripeto per l’ennesima volta, per dirla alla Maurizio Milani mi vanto, la carriera del giovane rapper esplose, arrivando, primo tra tutti, a firmare con una major, la Emi, ancora minorenne, e a finire in vetta alle classifiche col singolo Dentro la scatola e a firmare con la Mondadori per una autobiografia, scritta a quattro mani, toh, il destino, proprio con me. Quella canzone, quella che conteneva un sample alla manga di Domani era Tieni Duro, primo singolo del primo album, uscito per la Vibrarecords nel 2004. Non fosse che la scena madre di Deadpool 2 era già la scena madre di Deadpool 2, ovviamente in slowmotion, per dirla col protagonista, ce ne sarebbe stato abbastanza per commuovermi, un deja vu degno del gatto che passa due volte in Matrix. Dai, questa la potete capire pure voi, voi che ancora siete su Google a cercare cosa sia il kabuki. Kabuki, con due kappa, per questo non ne siete ancora venuti a capo.