Il dodo, il Tropicalismo e la nostalgia per un posto che non c’è

Vi spiego cosa unisce questi concetti soffermandomi sul Tropicalismo, che prende il nome da un album di Caetano Veloso


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Tutti, più o meno, abbiamo sentito parlare del Dodo. Non solo per un noto ciondolo di un marchio di gioielli, parlo proprio del simpatico volatile dalla forma goffa. Un volatile della famiglia dei columbidi di corporatura piuttosto grande, alto circa un metro, incapace di volare e considerato non eccessivamente sveglio, oltre che dal sapore particolarmente sgradevole, questo il significato del nome che rispettivamente i portoghesi e gli olandesi gli hanno affibbiato, Doudo significa “sempliciotto”, mentre Walgvogel significa “uccello disgustoso”, estintosi nel XVII secolo dopo aver vissuto esclusivamente nell’isola di Mauritius. Uccello da secoli estinto, quindi, che proprio in virtù della sua estinzione e del suo avere caratteristiche curiose, il non saper volare, appunto, fatto che lo spingeva a nidificare in terra, quanto il suo non essere un’aquila, nel senso di non avere un’intelligenza particolarmente arguta, lo ha reso automaticamente simpatico, facendolo finire dentro una serie di romanzi, film, cartoon e videogiochi, per stilare una velocissima carrellata da Alice nel paese delle meraviglie ai Pokemon. Un simbolo di quanto le razze animali siano a rischio di scomparire, al punto che, come il Panda, che però ostinatamente resiste, il Dodo è in qualche modo un simbolo per il WWF, oltre che oggetto di studi di zoologi che nel tempo hanno provato a scoprire le reali ragioni della sua estinzione. Se infatti dapprima si pensava che la sua fine prematura, sempre che esista una fine prematura in natura, alla caccia da parte di portoghesi e olandesi che invasero Mauritius, col tempo si è giunti alla conclusione che probabilmente il Dodo sia scomparso più per l’azione che i colonizzatori hanno rivolto all’habitat naturale del simpatico pennuto, vedi alla voce disboscamento, che un intervento diretto nei suoi confronti, essendo appunto la sua carne considerata immangiabile. Tutte scoperte fatte ex post, come spesso capita quando ci si mette a studiare qualcosa che non c’è più e che diventa oggetto della nostra curiosità proprio per il suo non esserci più.

Fatto, questo, che mi spinge a virare il discorso altrove, consapevole che probabilmente il Dodo era tonto ma non così tanto, se è vera la faccenda del calabrone che vola solo perché non sa di non poter volare, lui ne era evidentemente consapevole, quindi con una infarinatura anche solo approssimativa di fisica, e per questo si limitava a camminare, andando a larghe falcate verso l’estinzione. L’interesse che si rivolge verso chi non c’è più. O magari anche verso chi non c’è realmente mai stato. Si può sentire la mancanza di qualcuno che non abbiamo mai conosciuto? O di qualcosa che non abbiamo mai o ancora avuto? Si può sentire nostalgia per un luogo che non abbiamo ancora visto, nel quale non abbiamo vissuto, sul quale non abbiamo, più o meno metaforicamente appoggiato i piedi?

In sostanza, e so che sto inerpicandomi in un sentiero irto e pieno di spine, di quelli che ti fanno riconoscere agli occhi dei più giovani come un boomer, anche se boomer tecnicamente non sei, e agli occhi dei tuoi coetanei uno che ha un sacco di tempo libero da dedicare alle sciocchezze, vaglielo poi a spiegare che questo non è tempo libero, ma tempo in cui lavori, in sostanza, dicevo, ti chiedi se l’assenza che scatena la nostalgia, chiamala anche saudade, morabeza o come diavolo ti pare, sia giustificata anche se posta lì dove prima non c’era niente, invece che generata dall’improvviso liberarsi di uno spazio fino a un attimo prima occupato. Me lo chiedo e me lo sto chiedendo ora a voce alta, perché la nostalgia, quella strana forma di malinconia anche piacevole, struggente, certo, ma che come certe cicatrici sulle quali passiamo le dita quasi senza accorgercene, ci rassicura, ci dimostra che siamo in qualche modo vivi, è una delle costanti della mia vita, e la nostalgia per il luogo nel quale sono nato, sono cresciuto e nel quale non vivo più da venticinque anni, tra poco dalla porzione più lunga della mia vita, in modo particolare.

Non c’è giorno che io non pensi al luogo nel quale, fossi un albero, starebbero ancora piantate le mie radici, e non c’è giorno, specie da aprile a settembre, nel quale io non mi ripeta che è sul Monte Conero, esattamente sul Conero, che vorrei fosse seppellito il mio cuore, quando, spero non troppo presto, arriverà il momento di salutare e andarmene. Al punto da trasformare quella nostalgia, quella saudade, la medesima che fa scrivere certe Bossa Nova ai cantanti brasiliani, o fa dare di matto i calciatori brasiliani che si trovano a giocare in Italia durante i giorni del Carnevale di Rio, fate voi. Le radici ancora piantate, per altro, sarebbero nel mentre ricoperte da sterpaglie, o forse qualcuno, incauto, ci avrebbe gettato su una colata di cemento, per costruirci una casa, perché se le radici, parlo ancora come fossi uno che si interessa di natura e che più che altro ha mai guardato a sé come a una pianta, sono ancora lì, all’ombra del Conero, è evidente che il resto è andato altrove, un altrove lontano dal mare, lontano dalle Marche, lontano anche da quello che nelle Marche ho lasciato, i miei cari, i miei amici, la mia vita prima di andarmene.

Mi capita spesso, specie quando mi chiedono di riassumere in pochissime righe la mia biografia, per la bandella di un libro, per una presentazione o quel che è, di scrivere che sono “nato in Ancona”, usando quell’in invece del a o, peggio, ad, con la d eufonica, e che ora “vivo e lavoro in esilio a Milano”, sottolineando, metricamente, quello stare in esilio. Lo faccio, siamo sempre lì, perché ho tempo da dedicare alla scelta delle parole, in fondo quello delle scegliere le parole giuste da usare è il mio mestiere, e perché mi posso concedere il vezzo, il lusso, anche, di forzare la mano, imponendo un modo di dire locale, in Ancona diciamo “in Ancona”, e la d eufonica non la userei neanche sotto tortura, e in effetti sono partito in esilio, venticinque anni fa, spinto dall’amore per colei che poi è diventata mia moglie, e la madre dei nostro quattro figli, mia compagna di vita da trentaquattro anni, ma anche spinto a andarmene da una situazione che mi vedeva impossibilitato, anche volendo, a fare quello che in effetti è poi diventato il mio mestiere. Per questo, forse, o anche per questo, vallo a sapere, credo di essere lo scrittore marchigiano che ha dedicato più spazio nei suoi libri, ma anche nei suoi articoli, e non sapete che imbarazzo mi metta lo star qui a scrivere di me in terza persona, come fossi Maria Grazia Cucinotta in una intervista, facendo del mio essere marchigiano, di essere anconetano, del volere fortissimamente che il mio cuore venga seppellito sul Monte Conero, citazione di Geronimo, certo, ma rivisitata in salsa anconetana, una cifra riconosciuta tra chiunque si occupi di musica in Italia. È di quello che scrivo, in fondo, prevalentemente, e anche quando sconfino, parlando d’altro, magari anche facendo narrativa, è sempre qui che torno, almeno col pensiero. Al punto che se anche molti non hanno ben presente dove sia esattamente questa nostra terra, potenzialmente assai più visitata di quanto non sia, è certo che tutti coloro che leggono me hanno presente che è da qui che vengo, e qui che, una volta morto, vorrei il mio cuore potesse tornare.

Esattamente dieci anni fa ci ho anche scritto su un libro, il titolo è quello, Seppellite il mio cuore sul Monte Conero, e quando mi è capitato di presentarlo, all’interno della cornice della Loggia dei Mercanti, in Ancona, alla presenza del sindaco Mancinelli, dell’allora presidente della provincia, di qualche senatore e politico locale, ho chiesto fermamente che questo titolo e queste mie parole venissero prese alla lettera, auspicando, certo c’era del sarcasmo nelle mie parole, che non mi si facesse poi fare la fine di Franco Scataglini, poeta anconetano tra i maggiori poeti del novecento italiano, cui il Comune ha dedicato una via sgaruppata dalle parti del Joyland, oggi Auchan. Una via senza neanche numeri civici, forse metafora talmente alta che fatico a decifrarla, comunque sorte indegna per chi alla lingua locale ha dedicato la sua vita. Siccome non difetto in autostima, e mi piace giocare con quelle parole che, sono un ragazzo fortunato, mi danno da vivere, ho anche chiesto che in vita mi si concedesse la possibilità di tornare dal mio esilio, non definitivamente, la mia vita è sicuramente sintonizzata su Milano, lì ho casa, lì vanno a scuola e all’università i miei figli, ma almeno parzialmente. Ho cioè chiesto, e da quel momento sono tornato a farlo con una certa frequenza, che mi si regalasse la Torre di Portonovo, non perché, una volta lì, io potessi continuare a cantare della mia terra, lo faccio agilmente anche affacciato sulle strade trafficate della città in cui pago le tasse, quanto perché chi si trovasse a passare di lì, magari d’estate, arso dal sole e asciugato dal sale, sapesse che dentro quelle mura antiche c’è chi a quella terra, questa terra, ha dedicato una grande parte della sua vita professionale.

Sapevo, nel chiederla, che non era di proprietà né del Comune di Ancona, dentro il quale si trova Portonovo, né dell’Ente del Parco del Conero, coinvolto in quella presentazione, e ero quindi conscio che quella pretesa sarebbe caduta nel vuoto, ma essere in esilio e non poterlo in qualche modo sottolineare, non sapendo io scrivere bossanove come Marisa Monte o Chico Buarque de Hollanda, mi sembrava davvero troppo. Anche la prossima volta che partirò per fare ritorno a Milano, ultimamente mi è capitato di tornarci anche per faccende legate al mio lavoro, la vita non finisce davvero di sorprendermi, guarderò il Conero, unica variazione sul tema di questo tratto di costa adriatica, farsi sempre più piccolo nello specchietto retrovisore, immagino anche un po’ sfocato dalla foschia, finché, dopo una curva, non lo vedrò più. Esattamente un attimo dopo comincerò a provare quello strano senso di nostalgia per un luogo che, a ben vedere, forse è solo frutto della mia fantasia, come quando sentiamo di non aver ancora incontrato colui o colei con i quali passare il resto della nostra vita, una assenza che ho creato scavando laddove prima c’era semplicemente il mio cuore, cuore che un giorno, spero non troppo presto, vorrei fosse seppellito qui, sul Monte Conero.

Visto che ho parlato, neanche poco, di saudade e di bossa nova, mi chiedo se, fossi io un cantautore e fossi un cantautore che compone Bossa Nova, mi ispirerei più al Pan di Zucchero, col suo Cristo Redentore, o alle vette gemelle dei Dois Irmaos, entrambi visibili dalla spiaggia di Ipanema. Sì, quella fermata da Antonio Carlos, per tutti Tom, Jobim e Vinicius de Moraes nella giustamente celebre Garota de Ipanema, The girl from Ipanema per il mercato americano, una delle più celebri Bossa Nova di tutti i tempi, portata al successo inizialmente dalla voce dello stesso Vinicius, alla sua prima esibizione nell’occasione del lancio del brano, insieme allo stesso Tom Jobim e a Joao Gilberto, per cui i due compositori avevano già scritto quella che viene considerata la prima Bossa Nova di tutti i tempi, Chega de saudade, nel 1958. Dovessimo mettere un terzo brano nell’empireo, tanto per dare una simmetria corretta a questo passaggio, direi che non si può che andare dalle parti di Desafinado, del solito Jobim, insieme a Newton Mendoça,e interpretata dal solito Joao Gilberto, brano nel quale la fusione tra la cultura tradizionale brasiliana, la samba-cançao, e il jazz ha forse la sua massima espressione. Questo prima dell’arrivo della Bossa Nova in USA, grazie al sassofonista Stan Jetz e al suo Samba Jazz, prima, e alla collaborazione con Joao Gilberto, poi, con quella chicca di The girl from Ipanema cantata da Astrud Gilberto che porterà il lavoro fino al secondo posto della Billboard 2000, a un solo gradino dalla vetta, occupata, è il 1965, dai Beatles, mica gente di passaggio. Figli di quella generazione lì, a suo modo di rivoluzionari, almeno in musica, sarà la genia dei vari Caetano Veloso, Gilberto Gil, Milton Nascimiento, Maria Bethania, Tom Zé, Gal Costa, compresa la band degli Os Mutantes, partiti tutti dalla bossa nova e presto approdati altrove, al Tropicalismo, all’impegno politico militante, schierato contro la dittatura dei militari, a costo di incappare nel carcere, e poi nell’esilio. Sorte toccata anche a  Chico Buarque de Hollanda, altro cantautore partito dalla bossa nova per andare a sperimentare altrove, costretto per questioni legate alle sue posizioni critiche nei confronti dei militari, a lasciare il Brasile, pronto per approdare con Vinincius de Moraes a Roma.

Il Tropicalismo, che prende il nome da un album di Caetano Veloso, in compagnia di Gilberto Gil e Gal Costa, Tropicalia Ou Panis et Circensis, uscito nel 1968, sarà una versione aggioranta della bossa nova, con influenze anche del rock ‘n roll, del foxtrot, del pop inglese, oltre a quelle ormai sedimentate del jazz, qualcosa di estremamente rivoluzionario, per altro inviso ai militari, che non tanto nei testi quanto nell’attitudine di questi artisti vedevano qualcosa di pericoloso e quindi da stigmatizzare, quanto degli studenti di sinistra, che li criticavano per un loro presunto essere assoggettati a istanze colonialiste e filoamericane, queste ultime riprova di come spesso la sinistra tenda a tagliarsi le gambe da sola, le prime presto diventate vera e propria condanna, con l’arresto di lì a poco di Caetano e Gil. Il Tropicalismo è presto uscito dai confini patri, approdando da noi come in America, al punto che molti artisti art-rock occidentali se ne innamoreranno, da David Byrne, fondatore della Luaka Bop che ha ripubblicato i lavori di Os Mutantes e di Tom Zé e a sua volta titolare dell’album Rei Momo, la sua versione di Water of March con Marisa Monte, contenuta nell’album antologico Red Hot and Blue 2, è qualcosa di spettacolare (lo è anche la versione di Ivano Fossati, dal titolo Acqua di marzo, elaborazione di quella che cantò a suo tempo Mina, adattata in italiano da Giorgio Calabrese), a Arto Lindsay, in seguito al lavoro con Marisa Monte, passando per Beck, che omaggerà proprio gli Os Mutantes con l’album del 1998 Mutations e poi con la canzone in esso contenuto dal titolo Tropicalia, non prima che nel 1993 Kurt Cobain aveva espresso il suo amore incondizionato per la stessa band a Rio, in occasione della partecipazione dei Nirvana a Rock in Rio.

Ho citato Marisa Monte, che, sia messo agli atti, considero da sempre una delle migliori voci al mondo, se non proprio la migliore in assoluto. Ecco, quando mi struggo davvero, quando, cioè il non essere dove in fondo ho scelto di non essere, anche perché non essere in un luogo che si è idealizzato in virtù dello starne lontano, un non luogo, è condizione ovvia, mi capita di mettere in loop O que me importa, tratto dal suo album capolavoro, sempre che ce ne siano non capolavori nella sua discografia, intitolato “Memórias, crônicas e declarações de amor”, cover del brano di Cury Heluy che sotto le sue mani diventa qualcosa in grado di prenderti il cuore e fartelo a pezzetti, tutti trafitti da coltelli affilati, quei pezzetti. Pensatemi così, col cuore sanguinante come una qualsiasi Madonna dei sette dolori, quando il sole volge al tramonto e il cielo si tinge di rosa, e se nel mentre mi voleste in effetti regalare la Torre di Portonovo, lo ripeto, questo mio struggermi sarà quantomeno un po’ più sopportabile, al vostro buon cuore.