Natura viva con picchio, custodia di sax e le canzoni de La Complice

La Complice si è dimostrata autrice di carattere, pronta a rivendicare un punto di vista personale sia rispetto al sistema musica che rispetto alla società


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Nessuno di noi ha scelto il luogo in cui nascere. Almeno credo. Quantomeno se lo ha fatto, se l’ho fatto, è qualcosa che difficilmente potremmo comprendere razionalmente, quindi tenderei a dar per buono il punto di vista di partenza: nasciamo in luoghi che non abbiamo avuto modo di scegliere. Col che si potrebbe provare a allestire tutto un discorso legato alle etnie, come dire che non ci sono meriti o demeriti, premi o colpe, ma lungi da me star qui ora a fare un discorso su come il destino sia stato con noi benigno, nati e cresciuti in un paese senza guerre, senza particolari disagi, decisamente bello da un punto di vista estetico, gradevole da quello climatico. Piuttosto mi preme sottolineare, definitivamente, come nel nascere senza possibilità di scelta in un determinato luogo, inteso come continente, nazione, porzione di nazione, città o paese, ci tocca poi prendere tutto il pacchetto al gran completo, parlo di tradizioni, di usanze, di immaginari, dialetti, cibi attitudini, simboli.

Ecco, non dico niente di strano, immagino, andandovi ora a spiegare che, nel buttare lì passaggi apparentemente a caso, dando vita cioè a un qualche ordine, io abbia piazzato in coda esattamente il punto su cui andrò ora a concentrare il mio sguardo, è un canone comunicativo anche piuttosto usurato, questo, praticato da secoli, immagino, e comunque talmente comune da mettermi quasi a disagio nell’applicarlo. Fatto sta che è di simboli che voglio parlarvi, e anche di disagio, perché no. Perché sono nato in una parte d’Italia, le Marche, che ha per simbolo un animale che, in tutta onestà, non è che mi rappresenti poi così tanto, il picchio verde. Certo, volessi racchiudere ulteriormente lo sguardo alla mia zona, o anche solo alla mia città, le cose non andrebbero certo meglio, il Parco del Conero ha per simbolo un gabbiano, ultimamente non si può neanche pensare a un gabbiano senza iniziare a canticchiare, con la voce neomelodica l’ormai classica “povero gabbiano” di Gianni Celeste, mentre Ancona, la mia città, ha per simbolo San Giorgio a cavallo che infilza con una lancia il drago, troppa epicità per chi in fondo ha fatto dell’iconoclastia e di un certo sentimento minoritario il proprio personale credo. Un picchio verde, quindi. L’origine di questa scelta, ho capito che il simbolo che compariva nel Tg regionale, quando ancora abitavo in quella terra, era un picchio solo dopo che non ricordo bene chi me lo ha specificato, perché, appunto, credo di non aver mai visto un picchio da quelle parti nei ventotto anni che ci ho vissuto, va assai lontana nel tempo, a quando i Piceni abbandonarono i colli Sabini per colonizzare questo lembo di terra cinto dai colli e dai monti e affacciato sull’adriatico. Con loro, i piceni, evidentemente gente non evolutissima, non credo di dire nulla di nuovo, portavano dei Totem dedicati al picchio verde, appunto, per loro animale sacro oggetto di culto. Lo dico da anconetano, quindi con le mie di radici affondate in Grecia, Ankon Dorica Civitas Fidei è il motto del capoluogo marchigiano, i Dori i fondatori, coi loro capitelli e la loro filosofia e la loro matematica. Questo per dire che quando si pensa alle Marche come a una regione Frankestein, zone contigue ma assai diverse tra loro per popolazione, non si pensa a nulla di sbagliato, noi si filosofeggiava facendo di conto mentre i nostri vicini veneravano un tronco d’albero bucato dedicato a un picchio verde. Sul perché sia finito il picchio come simbolo delle Marche, così come sul perché le sorti politiche della regione siano spesso in mano a pesaresi o ascolani, confesso, mi sono anche posto qualche domanda, sempre senza giungere a risposte degne di nota.

Il picchio verde, quindi, animale venerato dai piceni, invece, che so?, di un mosciolo del Conero, questo sì presente solo e soltanto da queste parti, rappresenta le Marche, e anche me, così va il mondo. Del resto chi prova, fuori dalla regione, a imitare il mio dialetto, quello che nella famosa gag nella quale Neri Marcorè, marchigiano, imita i dialetti di tutte le province viene descritto molto simile al portoghese, ecco, chi prova a imitare l’anconetano in genere finisce per fare qualcosa che ai miei orecchi suona come maceratese, che suppongo sia come se imitando un bresciano fai il bergamasco, o per un livernese il pisano, anche se nelle Marche il vero campanilismo è proprio tra Ancona e Ascoli, per motivi prettamente calcistici, e in tutta la regione per prenderci in giro, gli anconetani, in quanto cittadini del capoluogo, sono molto antipatici un po’ a tutti, spesso a ragione, ci dicono “pa’ cu l’olio”, convinti che anche noi lo si dica, anzi, che lo si dica spesso, fatto che non solo non risponde al vero, ma credo che sia il corrispettivo dialettico degli Spaghetti alla bolognese, una leggenda metropolitana che nel tempo ha attecchito sfuggendo al controllo.

Un picchio verde, quindi. In realtà io non ho niente contro i picchi verdi. E a dirla tutta, so che questa cosa verrà mal vista dai miei compaesani, non ho niente neanche contro i piceni, nello specifico gli ascolani. Certo, ho messo piede a Ascoli, fuori dallo stadio, intendo, solo di recente, dopo il terremoto che ha devastato la zona dei Sibillini, terremoto che viene sempre associato a Amatrice, certo, ma che ha sostanzialmente distrutto tutto l’entroterra della metà meridionale della regione, ma ho anche fatto un Festival di Sanremo sponsorizzato dal Rosso Piceno, andando a creare un temporary restaurant con specialità marchigiane e dimostrando, io che in effetti vivo a Milano, come quella terra così arlecchinescamente messa insieme ha forse un qualche senso. Del resto uno dei miei romanzi del cuore, di quelli che ho letto non saprei dire neanche quante volte nella vita, sorte toccata a pochi altri, penso a Ultima fermata Brooklyn di Hubert Selby Jr, Big Sur di Jack Kerouac, London Orbital di Iain Sinclair, Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster Wallace, è Natura morta con picchio di Tom Robbins, come mai potrei avere qualche pregiudiziale nei confronti di questo amabile uccellino?

Tom Robbins è uno di quegli autori che ho amato alla follia, di quelli che magari non mi hanno influenzato da un punto di vista stilistico, ma che lo hanno decisamente fatto da un punto di vista spirituale, anche di attitudine. È stato, insieme a Hunter S. Thompson, uno dei padri della controcultura americana, al pari di un Ken Kesey, di un Richard Brautigan, per certi versi anche di un Tom Wolfe, anche se Wolfe si è più concentrato a raccontarla che a farla, la controcultura, andando a scrivere romanzi infarciti non solo di trame bizzarre, massimaliste, psichedeliche, ma anche di personaggi liberi e vividi come fossero persone reali. Natura morta con Picchio, solo ora che ne sto scrivendo mi viene in mente come l’accostare il picchio simbolo delle Marche alla natura morta del titolo di Robbins possa in qualche nodi suonare come un gesto irriverente, mica è un caso che il colle che copriva parzialmente l’infinito allo sguardo di Giacomo Leopardi, marchigiano di Recanati, sia da queste parti, lui che della natura matrigna è stato cantore, matrigna, appunto, viva e vegeta (a chiosare il tutto sarebbe arrivata poi la ginestra, ma quella era altrove, dalle parti di Napoli), qui mancano un sacco di cose, ma non certo la natura. In realtà, ma questi sono solo dettagli, addirittura dettagli nocivi al sereno svolgimento della narrazione, il picchio del titolo di Robbins sarebbe un Picchio, essendo questo il soprannome di Bernard Wrangle, detto appunto Picchio, professione dinamitardo. Ciò nonostante è a questo romanzo che penso ogni qualvolta vedo il simbolo stilizzato del picchio verde scelto per rappresentare la regione nella quale sono nato, e mica è un caso che proprio questa sia la terra dove ha avuto luogo l’unica rivoluzione anarchica svoltasi in terra italica, quella Settimana Rossa che proprio dalla mia Ancona è partita, per naufragare nel sangue, parola di uno che è vissuto in piazza Errico Malatesta. Sempre Tom Robbins, uno a cui la fantasia non fa certo difetto, e anche la voglia di usarla in grande libertà, è l’autore di Cowgirl il nuovo sesso, romanzo femminista che ha avuto una sua versione cinematografica per mano di Gus Van Sant, quello ancora illuminato dell’epoca Drugstore Cowboy e Belli e dannati, il cui titolo originale, My Private Idaho era decisamente migliore, e con la faccia e tutto il resto di una quantomai iconica Uma Thurman, nei panni della freak Sissy Hawkshaw, dotata di due enormi pollici e quindi predestinata a una vita di autostop, questo solo per lasciar intuire di che tipo di genialità narrativa si sta parlando.

E siccome si parla di Picchi, intesi come dinamitardi innamorati di ex principesse, di picchi intesi come animali venerati dagli antichi piceni, siccome si parla di cowgirl dotate di enormi pollici, lì a fare la rivoluzione correndo su e giù per la Road 66 facendo autostop, credo sia giunto il momento di provare a dare una spruzzatina di controcultura pop anche da queste parti, magari andando a guardare nelle Marche per trovare un Sissy Hawkshaw che faccia all’uopo. Ora, tanto quanto ho fatto su, ponendo la parola simboli alla fine di una carrellata di nomi relativi a un qualsiasi territorio proprio per andare a tirare in ballo l’ormai familiare picchio verde dei piceni e delle Marche, anche stavolta ho detto che avrei provato a fare qualcosa, indicando le medesime Marche come luogo di una mia ipotetica ricerca, giocando biecamente su un canone, e mettendo anche in campo una certe ambigua paraculaggine. Perché è evidente che ho ben in mente di chi voglio parlare, chi, cioè, ai miei occhi, o meglio ai miei orecchi, è la Sissy Hawkshaw marchigiana che si muove nella controcultura pop, solo che dirlo così, senza preliminari, sembrava poco poetico, di qui l’idea di una costruzione che, seppur ondivaga e bizzarra, suonasse quantomeno credibile. Credibile come può suonare qualcosa di scritto, cioè figlio di un patto tra autore e lettore, io dico quello che mi pare e tu ti fidi di me.

C’è una giovane ragazza del fermano che secondo il mio insindacabile parere, meriterebbe di finire nel titolo di un romanzo di Tom Robbins, al pari di Picchio (non accadrà, ovviamente, perché dubito che Tom Robbins avrà modo di conoscerla e soprattutto perché, ormai novantenne, il nostro non sembra più intenzionata a scrivere libri, il suo ultimo romanzo autobiografico, Tibetan Peach Pie, destinato a chiudere quella geniale e gloriosa bibliografia) o della già anche troppe volte citata Sissy Hawkshaw. Si chiama La Complice, anche se è evidente che nel dire “si chiama” io faccia riferimento al suo nome d’arte, Ilenia quello all’anagrafe. Un nome ambivalente, o ambiguo, a seconda di come lo si voglia leggere, dove la complicità è qualcosa cui guardare con sospetto, quella in una qualche crimine, come con malizia, quella tra due innamorati. La Complice, sessantuno anni meno di Robbins, ha dato già alle stampe un pregevolissimo album, dal titolo robbinsoniano A Copenaghen offrono da bere, versi tratti dal brano che prende il titolo dalla capitale danese, prova d’esordio quantomai variegata e di spessore, il suo un pop personalissimo che non disdegna incursioni nell’elettronica e presenta sempre testi al tempo stesso giovanili, il mondo di riferimento appare quello degli universitari, ma anche intrisi di esistenzialismo, contemporanei e colti, ironici e taglienti. Pop d’autore, cioè pura controcultura, qualcosa cioè che si insinua sottopelle senza che ce ne accorgiamo, come una spina, e che si manifesta solo dopo averci lasciato un segno, più o meno permanente, la sua visione del mondo decisamente poco assimilabile a quella vigente, minoritaria per attitudine e, forse, anche per geografia. Lavoro, questo sulla lunga distanza, che ormai risale a quasi tre anni fa, e che nel mentre ha avuto sviluppi nuovi in una collaborazione col produttore Molla, col quale sta sperimentando nuove vie sonore, ultima fatica in ordine di tempo, almeno quando sto scrivendo queste mie parole, nell’inizio dell’estate 2022, Comunale, singolo cantautorale e femmineo.

Ho avuto la fortuna di conoscere La Complice quando sono stato chiamato a presentare il piacevole festival Domina, a Ortezzano, in provincia di Fermo. Una tre giorni dedicato alle cantautrici che proprio con lei si chiudeva. In una calda domenica pomeriggio primaverile, introdotta dalle parole un po’ antiche della Presidente della Commissione per le Pari Opportunità delle Marche, La Complice si è dimostrata autrice di carattere, pronta a rivendicare un punto di vista personale sia rispetto al sistema musica che rispetto alla società, andando a alternarsi nel suo sette tra chitarra acustica e Korg, le macchine e una tastiera lì a sua disposizione, come un folletto bjorkiano anche vagamente punkeggiante, un look un po’ alla Devo a rivendicare il suo essere outsider rispetto al vento di destra che in quella terra da tempo tira. Un live set poderoso, capace di tenere incollati alle sedie i tanti spettatori accorsi nella piazza centrale di quel bel borgo ai piedi dei Sibillini, al punto che le ho poi chiesto di venire mia ospite quando il Parco del Conero mi ha chiamato a inaugurare il nuovo teatro proprio al centro di Sirolo in una serata dal titolo antico Seppellite il mio cuore sul Monte Conero, serata che l’ha vista eseguire per la prima volta dal vivo proprio il nuovo singolo Comunale e che le ha dato modo ancora una volta di mostrarsi dotata di una voce singolare, anche quando si tratta di parlare, con noi sul palco Marco Grati dei Via Verdi e John Big George dei Kurnalcool, oltre la mio partner in crime Mattia Toccalceli.

Ecco, la pixie La Complice ha poco del picchio verde marchigiano, ma molto del Picchio robbinsoniano e ancora di più della Sissy Hakwshaw portata al cinema da Uma Thurman. Dubito che le Marche siano intenzionate a cambiare effige, ma se mai cercassero una colonna sonora che non sia una delle solite lagne di Giovanni Allevi, a cui faccio gli auguri di pronta guarigione pur continuando a ritenerlo quanto di peggio la classica contemporanea in salsa pop abbia prodotto negli anni, non a caso di Ascoli, magari è a La Complice che potrebbero pensare, volendo in compagnia di Serena Abrami dei Leda, che in qualche modo le è sorella maggiore.