Olocausti, necrologi e ville losangeline: ecco l’imprenditrice digitale

Coi Ferragnez non si butta via niente: davvero era opportuno appaltare la memoria dell'Olocausto a una che non si è mai posta il minimo problema che non fosse se stessa e il suo apparire?


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Coi Ferragnez non si butta via niente: ecografie, malattie, sedute psichiatriche, olocausti, cadaveri. “Everything is turning to gold”, come quella canzone dei Rolling Stones. Il Corriere si presta perfino da agenzia immobiliare, dovendo la influencer con più fanatici al mondo vendere la “ricca luminosa villa di Los Angeles” per 2,5 milioni di dollari. Comperata quando non aveva ancora 30 anni. Muore Leonardo Del Vecchio, magnate degli occhiali, uno partito dai Martinitt, l’orfanotrofio di Milano, e Chiara subito compera un necrologio sempre dal Corriere: “Da imprenditrice piango un grande italiano”, per mettersi al suo stesso piano. Imprenditrice di cosa? Di pose? Di réclame di marchi famosi su Instagram? Non si è mai capito bene il miracolo di Chiara Ferragni, una costruita da un ex fidanzato manager, passata dal blog volgarotto ai dieci, i venti milioni di fatturato annuo, ma si è capito che la “imprenditrice digitale” è tutta roba impalpabile, immagine, pubbliche relazioni e ferreo controllo dei mezzi di comunicazione sui quali si investono cifre mostruose. Il marito, un cantante che si salva coi tormentoni estivi più o meno ispirati a quelli di quaranta, sessant’anni fa, è un altro: va dall’analista e pubblica le conversazioni per aiutare gli alienati. Come a dire che l’analista è inutile, puro ornamento, se uno ha delle turbe gli basta andare sul profilo Instagram di Fedez e guarisce per osmosi.
Questa gente, diciamocelo una buona volta, è insopportabile. Questi influencer, pagati, ricoperti d’oro per non fare niente e non saper fare niente. Una ha affittato uno stadio per annunciare che era incinta e alle prevedibili critiche ha replicato: barboni, poveri. Un’altra la chiamano all’università perché le hanno scritto un libro, proprio a lei che si vanta di non averne letto uno in vita. Le diedero anche una trasmissione culturale, subito naufragata. C’è una industria dell’effimero e dell’idiota che ha perso i freni, che vive, si direbbe, sull’impostura, ma sì, diamo alle ragazzine analfabeti quello che vogliono, diciamo ai venti milioni di disperati che un giorno potrebbero farcela anche loro; intanto li spremiamo, li usiamo per incrementare il business della fuffa. Ciabattine di visone, culi per aria, c‘è poi questa fidanzata di quello dei Maneskin che non si tiene e vuol superare Chiara Ferragni di slancio, ogni dieci, venti secondi mette una foto con le ascelle cespugliose, specula su misteriose patologie femminili, si atteggia a martire ribelle ma è dentro fino al collo al sistema, a questo sistema truffaldino e ignobile. Ogni tanto si fotografa da un letto di ospedale, così i seguaci si angosciano, e sotto scrive: niente paura, sto già meglio. E nessuno capisce se sia in ospedale, se abbia avuto una colica o chissà quale incidente letale. Tra gli influencer insopportabili, il presidente ucraino Zelensky, uno che un vestito non ce l’ha, sempre la solita maglietta olezzante con cui riceve gli altri presidenti o si collega in video a concerti, festival, sagre, balletti. Vale tutto, Chiara è andata al Museo dell’Olocausto, ridotto a un set televisivo di pessimo gusto, e si è fatta alcuni scatti di pessimo gusto con l’onnipresente Liliana Segre. Dell’Olocausto, per diretta ammissione, non aveva mai sentito parlare, a trent’anni passati, “ma adesso rimedierò”. Le darà ripetizioni nonna Liliana. Ma è normale, soprattutto è morale disperdere e imbastardire a questo modo la memoria di una atrocità inimmaginabile? Dicono gli opportunisti, i cinici, i mercanti di merda: ma sì, tutto fa brodo, l’importante è che se ne parli. Ma i dieci, i venti milioni di fanatici della Ferragni della Shoah non ne sanno di più e non gli importa e non se ne occuperanno, a loro interessano solo gli scatti della imprenditrice digitale, vestita sobria, con la faccia da Madonnina infilzata, perché questo Olocausto non si sa bene cosa sia ma dev’essere qualcosa di brutto, di davvero brutto. Chi vuol bene a nonna Liliana spiega: poveretta, non ragiona più, non si rende conto. Poi, en privée, magari vengono a dirti: quella è la bisnonna di tutte le influencer. Ma sostenerlo pubblicamente non va bene, scatta subito l’indignazione. Che però dovrebbe essere incanalata per i binari giusti: c’è una letteratura, anche scolastica, definitiva, c’è la testimonianza tragica e immortale di Primo Levi, c’è Anna Frank, ci sono decine di testi, di lasciti, che bisogno c’era di ridurre anche l’orrore puro a occasione social?
Non è vero che tutto fa brodo, non è vero che “pur che se ne parli”: se se ne deve parlare a sproposito, meglio lasciar perdere. Poi, conta anche la fonte, il pulpito, la storia particolare del testimonial. Davvero è opportuno appaltare la memoria dell’Olocausto a una che vende bottigliette d’acqua piovana a 8 euro, pantofole di visone a duemila, sfoggia borsette da duecentomila euro, monili che costano il quadruplo e non si è mai posta il minimo problema che non fosse se stessa, il suo apparire? E obiettare che anche la senatrice a vita Segre dovrebbe ragionarci su, o che almeno qualcuno dovrebbe indurla a lasciar perdere, non è irriguardoso ma pietosamente leale. Senonché il sospetto è appunto che anche per lei l’importante sia apparire, che la demoniaca smania di apparire abbia divorato tutto e si alimenti di se stessa. Il necrologio a Leonardo Del Vecchio da pari a pari, imprenditore lui, imprenditrice io, non si può sentire, cara Ferragni. Non basta avere i soldi, conta anche come li si è fatti, come li si è amministrati anche per gli altri.