Città della Scienza, giallo napoletano o metafora del Mezzogiorno?

Il libro di Diletta Capissi ricostruisce la vicenda di Città della Scienza. Luogo di innovazione, divulgazione scientifica, impresa. Un’eccellenza meridionale che ha vissuto negli ultimi anni una drammatica crisi. Di cui il volume indaga le ragioni

Città della Scienza

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La Storia di Città della Scienza è stata una bellissima avventura nata nel Mezzogiorno d’Italia nel segno del migliore Meridionalismo”, afferma l’economista Adriano Giannola, presidente della SVIMEZ ed ex vicepresidente del Consiglio d’amministrazione di Città della Scienza. La sua è una delle autorevoli voci che Diletta Capissi, sociologa e giornalista esperta di impresa e innovazione, ha voluto interpellare per costruire un ritratto documentatissimo nel volume Che fine ha fatto Città della Scienza? Un giallo napoletano o una metafora del Mezzogiorno? (Guida Editori, pp. 258, 15 euro). La metafora del sottotitolo, purtroppo, sarebbe quella dell’immobilismo meridionale, o peggio, dell’incapacità di sostenere persino le intuizioni più brillanti, quale appunto fu e si spera torni a essere Città della Scienza. Capace, per una lunga fase della sua storia, di sconfessare gli stereotipi sull’impossibilità di fare innovazione e impresa culturale da Sud.

Già in embrione sul finire degli anni Ottanta, l’iniziativa germinò dall’intuizione del fisico Vittorio Silvestrini – subito sposata dall’anima operativa del progetto, Vittorio Lipardi – secondo cui il nuovo millennio sarebbe stato nel segno di scienza e tecnologia, e che perciò fosse dovere della comunità degli esperti costruire un ponte con la società e la comunicazione scientifica, partendo dall’esperienza maturata in America con l’Exploratorium di San Francisco.

Così, dopo il grande successo della prima rassegna di divulgazione scientifica nel 1987 a Napoli, Futuro Remoto, nel 1991 nasce dai promotori di quell’evento il progetto di Fondazione Idis-Città della Scienza. Tramite poi accordi con il neosindaco Bassolino negli anni del cosiddetto “Rinascimento napoletano”, la Fondazione trova a Napoli Ovest la sede per il proprio progetto, sviluppando lo Science Centre nel padiglione dismesso di una vetreria borbonica sul litorale di Bagnoli, nell’area in cui sorgeva la ex Italsider – e la vicenda interminabile della riqualificazione di quegli spazi industriali, sostanzialmente ferma da trent’anni, ha avuto ripercussioni profonde sulla stessa Città della Scienza.

Nel 2001 viene inaugurato lo Science Centre alla presenza del presidente della Repubblica Ciampi: un luogo di divulgazione scientifica in cui si sono formate generazioni di studenti, attrattore di turismo intelligente e di coinvolgimento sociale, centro di alta formazione e incubatore d’impresa che ha lanciato tante start up. Un progetto ambizioso, in grado di sopravvivere persino all’incendio degli spazi espositivi del 2013, tuttora rimasto senza colpevoli, dopo il quale partì una campagna di crowdfunding che raccolse oltre un milione e mezzo di euro. Il tallone d’Achille, insomma, non è mai stato dal lato del progetto e della visione, quanto della sostenibilità economica, con Città della Scienza sempre alla ricerca di un punto d’equilibrio tra gli indispensabili fondi pubblici e l’autonomia finanziaria volutamente perseguita.

Su questo punto sempre Giannola nella sua intervista alla Capissi taglia corto: Citta della Scienza è “un modello virtuoso che aveva un solo grande punto debole: il rapporto con le Istituzioni. Ogni anno per garantirsi la quota promessa dallo Stato era una battaglia. […] Il problema strutturale di quella macchina era un problema molto semplice, tipicamente italiano, quello della sciatta noncuranza istituzionale”. In effetti, nei decenni sono stati complessi ed altalenanti i rapporti con le istituzioni: col Comune di Napoli, nel passaggio tra le diverse sindacature, da Bassolino a de Magistris; con la Regione, che negli anni recenti del governatore De Luca sempre più ha finito per assorbire la Fondazione; e anche col governo centrale, che ha avuto un ruolo legato al collegamento della vicenda di Città della Scienza con quella più vasta di Bagnoli, intricatissima calamita di multiformi interessi.

È una storia questa, nella quale vanno considerati anche i comportamenti e i protagonismi non sempre comprensibili dei suoi attori principali, a partire dal fondatore Silvestrini, che negli anni pare avere sconfessato i capisaldi delle sue stesse intuizioni di partenza – e dell’impossibilità di sentire la sua versione la Capissi si rammarica. Per il resto il suo volume è di precisione ammirevole, e ci aiuta a capire perché, in particolare dall’annus horribilis 2017, quando si giunge al commissariamento, il progetto è entrato in una fase di crisi che a tratti è parsa irreversibile.

Ho scritto questo libro – ci ha detto Diletta Capissi – ritenendo di fare una cosa utile. Da cittadina e giornalista che ha avuto sempre a cuore la valorizzazione del Mezzogiorno, ha fatto ricerche per capire i fermenti del nostro territorio, ma anche le sue trasformazioni, mi sono domandata come sia stato possibile che Città della Scienza sia passata da una fase di entusiasmo diffuso ad una di emergenza in pochi anni. Ho messo in fila fatti e situazioni cercando di essere rigorosa al massimo. L’auspicio è che il mio lavoro possa far conoscere all’opinione pubblica i fatti e permettere all’istituzione stessa un ritorno della stagione dei successi, per Città della Scienza, per Napoli, per l’intero Mezzogiorno”.

Perché lei parla di Città della Scienza come di una metafora del Mezzogiorno?
Città della Scienza è la conferma che a Napoli, a dispetto degli stereotipi, le cose “si possono fare”. A patto che tutti lavorino nella stessa direzione, che ci sia uno strettissimo nesso tra progettualità e territorio, che tutte le migliori energie vengano spese per un obiettivo comune. Altrimenti i progetti restano lettera morta e il territorio privato delle sue potenzialità. Come ha detto Pietro Greco nell’intervista che gli ho fatto: “Citando il fisico Eduardo Caianiello, direi che Napoli è l’unico luogo dell’universo in cui prevale l’antimateria. Quindi appena riesci a costruire qualcosa di materiale, arriva l’antimateria e distrugge tutto”. Ho scritto questo libro per dire che le cose non sempre devono andare così.

La metafora quindi è duplice: Città della Scienza come affermazione dell’esistenza di un Sud “del fare”, e però anche drammaticamente non all’altezza delle sue intuizioni.
Città della Scienza è stata l’una e l’altra cosa, con un intreccio di responsabilità a vari livelli, da quello scientifico a quello politico; di “stress” gestionale e intervento sindacale, che hanno costretto alla resa quello che doveva essere, e per molti versi è stato luogo e borgo dell’innovazione, centro di divulgazione scientifica con ossatura “museale”, ma anche incubatore di tante start up di successo, esempio di valorizzazione di un’area paesaggistica straordinaria per troppa incuria e troppo tempo sciaguratamente lasciata a sé stessa.

Lei descrive con partecipazione sincera una stagione di entusiasmo, visione e progettualità non comuni.
Il valore dell’iniziativa è certificato dall’interesse suscitato e dall’interazione immediatamente creata con scienziati divulgatori e con le scuole del territorio (e non solo), coinvolti in progetti di spessore mai visto prima. In breve tempo il rapporto tra cultura globalmente intesa e istituzioni scientifiche si è esteso oltre i confini regionali e persino nazionali. Un esempio per tutti la manifestazione Futuro Remoto, con oltre 250mila visitatori. Attraverso più di trent’anni di storia la cittadella di Bagnoli nell’immaginario collettivo locale e nazionale è diventato il luogo simbolico della rigenerazione urbana. Bagnoli si trasforma nel cantiere di una nuova identità grazie a Città della Scienza, come il borgo postindustriale della cultura d’impresa. Senza retorica alcuna: in altri luoghi, in altri Musei della Scienza, in centri dell’innovazione europei, si rintracciano i segni, gli elementi identificativi di Città della Scienza, l’orgoglio di essere stati antesignani e costruttori di un modello che ha fatto storia e che molti Paesi hanno mutuato e vorrebbero replicare

In questo scenario s’inscrive la crisi divenuta gravissima dal 2017
È una crisi in buona parte legata alle scelte delle istituzioni, a partire dall’”Accordo Interistituzionale su Bagnoli”, nel quale è assorbita anche la spinosa questione del dove riedificare lo Science Centre, ridotto in cenere dal tragico rogo del 2013. A metà 2017 comincia un declino che in pochi mesi sgretola questo vasto patrimonio di cultura e credibilità. Non tutte le Istituzioni hanno fatto la loro parte, o non l’hanno fatta fino in fondo, non tutti hanno saputo e voluto incidere nel dirimere i nodi gestionali, nel ripianare situazioni finanziarie stressate. Ma, c’è da chiedersi, il modello di Città della Scienza resta ancora valido e, soprattutto, può essere rilanciato?.

Ritiene ci sia ancora un futuro per Città della Scienza? Le notizie dell’ultima ora paiono aprire qualche spiraglio.
È l’augurio di tutti e il mio in particolare. Il libro vuole essere una spinta in questa direzione: approfondire il passato per evitare il ripetersi di eventuali errori. Un passo in avanti è stato compiuto in queste ore, grazie alla decisione della cabina di regia che ha riconosciuto e formalizzato la proposta di ricostruzione dello Science Centre, avanzata dal presidente Riccardo Villari e dall’attuale consiglio d’amministrazione. Ecco, questa volta tutti “gli strumenti” sono stati suonati in armonia. E non c’è stato “l’assolo”. L’armonia prevale e la sinfonia è bella da ascoltare.

Diletta Capissi, Che fine ha fatto Città della Scienza? Un giallo napoletano o una metafora del Mezzogiorno?, Guida Editori, pp. 258, 15 euro; Prefazione di Marco Demarco; copertina di Daniela Pergreffi; foto di Salvatore Laporta.

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