40 anni fa il mundial spagnolo, ultimo lampo dell’Italia all’italiana

Appena dodici mesi fa i corifei di regime dicevano: è l'Italia di Draghi, l'Italia che vince. Draghi è rimasto e l'Italia è franata in tutte le classifiche, compresa quella calcistica

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31 maggio 2022. L’Italia di Mancini, neppure qualificata ai campionati del mondo in Qatar, soccombe a Wembley contro l’Argentina nella finalissima tra Campioni d’Europa e di America Latina. Meno di un anno è passato dall’inatteso trionfo europeo per gli Azzurri, che rimediano una figura umiliante contro Messi e compagni. Appena dodici mesi fa i corifei di regime dicevano: è l’Italia di Draghi, l’Italia che vince. Draghi è rimasto e l’Italia è franata in tutte le classifiche, compresa quella calcistica. Così che non si può non tornare a 40 anni oggi: si apriva il Mundial di Spagna, con l’Italia di Bearzot a esordire il 18 giugno 1982 contro la Polonia: è attesa al varco, pochi credono in questa Nazionale che il Vecio ha tenuto insieme senza ascoltare nessuno tranne la propria coscienza di tecnico e di galantuomo: in Iberia ha portato anche Paolo Rossi, reduce dal Calcioscommesse che l’ha visto condannato per una vicenda implausibile, e difatti verrà ampiamente riabilitato a tempo debito. Col Perù l’Italietta rimedia un imbarazzante pareggio, e fortuna il golletto di Bruno Conti.

“Non ho un piano B, penso solo a vincere i Mondiali” diceva Mancini. Frase che al Friulano con la pipa non sarebbe mai venuta in mente. Bearzot tace, allena, studia. Ha un gruppo di giocatori considerati, da tutti, imbrocchiti, ma lui non ci crede. Presidente del Consiglio è lo storico Giovanni Spadolini, accademico, vanitoso ma statista. Non un supertecnico di quelli che usano negli anni Venti del nuovo secolo, nessuna cultura, la testa a slide, programmazione nulla, unica capacità l’assalto alla diligenza, il far girare i soldi, per lo più nelle tasche di chi li ha già. Presidente della Repubblica è l’inevitabile Pertini, un vecchio bizzoso, ancor più egocentrico di Spadolini, ma uomo vero, schietto, anche troppo; sideralmente lontano dalla felpata fridigità di Mattarella, uno che comanda con l’aria di farlo controvoglia. Ma è per colpa sua se abbiamo avuto oltre due anni di regime sempre più autoritario L’Italia che si era rimessa a vincere era quella del 1982. Si usciva dal decennio delle disillusioni, dai Settanta duri e violenti, da una fase lunghissima, estenuante di tensioni, di terrorismi incrociati, bombe sui treni e nelle piazze, gambizzati e ammazzati uno al giorno, fino al trauma mai superato di Aldo Moro. Ma quel Mondiale drammatico sembra già un’altra epoca: finirà in trionfo, chi l’avrebbe detto, e sarà ultima rappresentazione davvero popolare, di gioia collettiva. Un altro tempo: dopo le sbornie ideologiche risorge l’individualismo, torna la logica del profitto in una curiosa postideologia che arriverà a proclamare: il dio denaro è l’unica religione. Giusto? Sbagliato? No, semplicemente azioni e reazioni, la storia umana è fatta di ricorsi. Siamo uomini e donne inchiodati dove siamo, anche coi nostri viaggi che non scoprono più niente. Dice il poeta Giorgio Caproni: Non sai mai dove sei/Non sei mai dove sai.

Alla fine, quel trionfo fu roba di sei giorni, l’Italia il suo mondiale lo conquistò in meno di una settimana, dal 29 giugno del 2-1 all’Argentina al 5 luglio del 3-2 col Brasile. Dopo, era chiaro che quel torneo l’Italia poteva solo vincerlo. Bearzot è il volto presentabile di un Paese infame, la sua faccia seria, operosa, che agisce, che non parla, ma si porta appresso un cumulo di problemi insormontabili. Lo scandalo pallonaro delle scommesse, il primo mai emerso, lo priva di alcuni giocatori-chiave e lui deve fare il pane con la farina che ha: un portiere decrepito come Zoff, un campione perduto, Rossi, un altro da scoprire, Conti, una difesa acerba, Cabrini, pure al secondo mondiale, ha poco più di 20 anni, Bergomi appena 18, Gentile e Scirea sono garanzie ma non possono reggere da soli il centrocampo mediocre degli Oriali, di un Antognoni ormai in declino, in avanti insieme al fantasma Rossi c’è una punta, Graziani, che si agita molto ma combina poco. Difatti il girone eliminatorio è da tregenda, gli azzurri passano come il cammello per la cruna dell’ago e, si arriva ad insinuare, per le solite manovre politiche, corruttive, sulle quali poi infieriranno oltre il lecito giornalisti rancorosi .“Tornate a casa”, strillano i giornali dopo le prime disastrose prove di un girone eliminatorio che sembra tagliato su misura: la Polonia non è granché, Perù e Camerun due materassi. Invece gli Azzurri rischiano di stramazzarci sotto.

Grazie alle alchimie della differenza reti, l’Italia passa il turno “senza gloria”, come dice Nando Martellini. In Italia, la stampa si scatena. Processi televisivi, processi alle intenzioni, insinuazioni volgarissime, povero Bearzot, ha contro tutti, gli danno del rincoglionito, dell’incompetente, arrivano a definirlo farabutto, ladro, uno spettacolo indecente dall’informazione rognosa: si  insinua di storie morbose nel ritiro, la vena dell’odio è incredibile, sproporzionata, pulsa disprezzo a fiumi, è come se il Commissario Tecnico fosse diventato il capro espiatorio di tutto ciò che non funziona nel Paese. Bearzot alla fine deve vietare la via crucis quotidiana delle repliche ai suoi giocatori: incarica dei rapporti con la stampa il solo Zoff, che è come mandare un muto. Quando le casacche azzurre, Gentile con baffi da terrorista mediorientale, scendono in campo contro quelle biancocelesti dei ceffi argentini, pare l’ultimo miglio di undici condannati. Gli argentini pestano, sono cattivi e violenti per tradizione. Ma pure gli italiani si scoprono capaci di menare i piedi e, all’occorrenza, le mani. Maradona, il ragazzo prodigio, si arrende e, spento lui, tutta l’Argentina si fulmina come una lampadina. La squadra di Bearzot è cambiata: difficile da sorprendere e veloce in contropiede. Tardelli, affrancato da compiti di marcatura sul genio argentino, colpisce alla fine di una sovrapposizione su Antognoni; Cabrini sigilla il trionfo a compimento dell’ennesimo capovolgimento di fronte. Non è solo giocare di rimessa, all’italiana, c’è un dinamismo inedito, una energia sconosciuta. C’è pure una ritrovata convinzione: i calciatori italiani sanno di essere forti e scendono in campo senza troppi timori reverenziali; il solo Rossi stenta ancora a ritrovarsi. In pochi giorni, la Nazionale appare trasfigurata e gli stessi argentini non se ne capacitano fino a perdersi nei labirinti tattici di Bearzot. Alla fine, il gol su punizione di Passarella è solo il necessario tributo pagato dal portiere azzurro, che i tiri lunghi proprio non riesce a maneggiarli.

Cinque giorni dopo le facce da emigranti azzurri tornano in campo e stavolta quelle gialle oro del Brasile sono irridenti, sfoggiano sorrisi arroganti, non hanno capito che l’Italia, come il pugile suonato Rocky, ha capito di avere una possibilità e se la giocherà al sangue. Come è andata poi è storia. L’Italia sa che i sudamericani sono fortissimi, ma fanno acqua in difesa e parte aggressiva: Rossi cicca subito un pallone d’oro ma, tempo cinque minuti, segna, proprio lui, segna finalmente, a compimento di un’azione imbastita da Conti che taglia il campo per Cabrini il quale scodella un cross che non si può sbagliare. I brasiliani ridono, ma sì, diamogli anche questa piccola soddisfazione a questi straccioni, che adesso li seppelliamo. Inesorabile, pareggia Socrates con una rasoiata ravvicinata: s’infila nei dieci centimetri tra palo e un portiere cui basterebbe allungare il piede per respingere, ma Zoff almeno fino a questo momento, è, diciamolo, largamente deludente se non fallimentare: la sua figura poi si staglierà come l’eroe paterno del gruppo, ma la verità è che prende certi gol da mettersi le mani nei capelli. Insomma il pareggio “è per i brasiliani”, come dice Nando Martellini. Ma attenzione: di nuovo segna Rossi, un fulmine in rapina, perché Junior pare un ubriaco in una difesa di drogati: mai passare la palla in orizzontale nella propria tre quarti! Paolo capisce tutto e s’infila a scaricare una legnata che lascia di marmo il mediocre Valdir Peres. Da qui, si entra nel mito. Dopo la pressione sterile fino alla pausa, con tanto di lamentazioni di Zico cui Gentile strappa la maglietta (“Se ne faccia dare un’altra”, gli risponde l’arbitro, che non se la beve), sarà un secondo tempo da tragedia greca. Il Brasile spinge, a folate, in verità combina poco e finalmente Zoff si esalta: uscite a valanga, parate, respinte, con la difesa che sembra trarre forza dalla tremenda pressione cui è sottoposta; allo stesso tempo, le manovre di rilancio sono ariose e belle, tanto per lasciare sul chi vive i presuntuosi campioni in maglia gialla. Arroganti, superbi, ma Falcao con una finta sola fa sbarellare mezza difesa italiana, poi scarica un sinistro che Zoff vede ma non può arginare perché c’è una deviazione impercettibile, un soffio sulla coscia di Bergomi, che lo mette fuori tempo. I brasiliani saltano tutti come posseduti e si capisce la paura, l’isteria di un incubo che non si aspettavano. E che non si aspettano: pochi minuti e, su un calcio d’angolo di Conti, esce una mischia che manda il pallone davanti a Valdir Peres: Graziani provvidenzialmente liscia, Rossi, ormai trasfigurato, sceglie l’istante supremo e non perdona. A questo punto manca meno di un quarto d’ora e si comincia a capire come finirà. Anzi, viene scippata l’Italia, di un altro gol: chiamano ad Antognoni un fuorigioco che non esiste e quel gol validissimo ma invalidato rischia di combinare una tragedia: proprio all’ultimo minuto, su uno schema da punizione, per un millimetro l’Italia non esce: Zoff all’ultimo momento blocca un pallonaccio sulla riga inzuccato da Oscar. La inchioda sulla linea e tutto si ghiaccia, i ventidue in campo, le panchine, i milioni di spettatori sparsi nel mondo. Fortuna che l’arbitro è lì e ha visto bene: non gli resta che fischiare tre volte. Esce Zico stravolto, Gentile lo ha ridotto un ecce homo come e peggio di Maradona. Lui e i suoi compagni non hanno più quel sorriso odioso: piangono, in Brasile molti si suicidano. Scendendo negli spogliatoi, Zoff stampa un bacio sulla faccia di Bearzot e dentro c’è tutto e non servono parole. Il mondiale praticamente finisce qui.

Con la Polonia, semifinalista per caso, è pura burocrazia. È passato un mese e la squadra di Boniek è sempre la stessa, un gruppo di onesti pedatori che non possono creare problemi a una Nazionale viceversa trasfigurata. Gli uomini di Bearzot, impenetrabile dietro gli occhiali scuri e la pipa, vanno in campo con la cauta sicurezza di chi affronta un allenamento e gestiscono la partita da consumati protagonisti: una formalità, e chi ci pensa? Ma lui, naturalmente: Rossi, due guizzi ed è finalissima. Con la Germania Bearzot fa un discorso molto semplice ai suoi: guardate che quelli sono cotti, specie dopo la maratona contro la Francia, durano sé e no mezz’ora, poi si squagliano e noi dobbiamo tenerli a spasso finché non corrono più. I crucchi, infatti, sapendo di avere poca benzina, partono a razzo, sia pure con un Rummenigge a mezzo servizio. Non combinano niente. Altro che controllarli: al venticinquesimo Conti, travolto da Briegel, si guadagna un rigore. Per motivi che non si sapranno mai, scelgono Cabrini e Rossi gli si avvicina e gli fa: te la senti? Non l’avesse mai detto. Forse stordito da un petardo che gli esplode davanti, forse solo schiacciato dalla tensione mostruosa – per quanto veterano, è pur sempre un ragazzino di poco più di vent’anni – tira una ciabattata spastica che spedisce la palla ad arrancare fuori dal palo sinistro. Nella disperazione di Martellini (“è fuori, fuori, fuori!”) e di 55 milioni di italiani, si mette a trotterellare per il campo come un cavallo sotto choc, ma i compagni non sembrano granché scossi, tanto più che la difesa è di ferro battuto: ci si picchia con santa cattiveria, questione di guadagnare l’intervallo. Nella ripresa, dopo 11 minuti da una punizione battuta a sorpresa, la palla arriva nelle grinfie di Rossi che, scostando Cabrini, infila il suo sesto gol di rapina. Come un ladro nella notte! A questo punto neppure il proverbiale orgoglio teutonico ci crede più: proprio come aveva previsto Zoff, i bianchi di Germania sono undici zombie in preda alla disperazione mentre gli avversari, gli italiani, infieriscono con lucido cinismo; non hanno fretta, lasciano cuocere gli avversari finché, al minuto 24, ricamano una manovra che porta a spasso la difesa tedesca e si conclude con la spaccata di Tardelli, sulla quale ormai ogni commento è sprecato. Gloria per tutti. Per Altobelli, titolare per l’infortunio di Graziani prima e Antognoni poi, che si guadagna la fiducia con un irridente dribbling a Schumacher al termine dell’ultima, irresistibile volata in contropiede di Bruno Conti. Per Breitner, che tiene in piedi la bandiera tedesca con un gol inutile alla fine, una mezza rovesciata al volo che Zoff, naturalmente, vede tardi.

Lo stadio Santiago Bernabeu di Madrid dai milioni di scintille, mai viste così bene, così nitide nella nuova definizione televisiva, è tutto italiano, in tribuna c’è il galantuomo Pertini che agita la pipa, “Non ci prendete più”. I calciatori italiuzzi, con facce da emigranti, di colpo si riscoprono belli, fascinosi, tutto il Paese è con loro. E con ragione, perché quel momento è l’ultimo di vera caciara popolare, nazionalpopolare, la gente si butta nelle fontane non per farsi twittare ma per pura gioia terrona, di villaggio come nelle rievocazioni storiche del Medioevo, l’ultimo momento di gioia collettiva. L’ultimo in cui tutti hanno vinto e il Paese, che esce da un decennio abbondante di terrorismo, da crisi a singhiozzo, da mutamenti epocali che non capisce, si ritrova, si riunisce, si abbraccia. Quella festa durerà l’intera estate per poi sedimentarsi, legandosi ai geni nazionali per non andarsene più.

È come se l’Italia, in quel mese mondiale, e grazie ai suoi calciatori “corrotti”, si fosse ritrovata sull’orlo di una modernità che le fa dimenticare il medioevo di piombo e per un attimo non le fa temere un futuro già in marcia, per quanto interlocutorio. Gli italiani hanno sempre paura del futuro, a parole lo inseguono ma poi ne diffidano. Ebbene, questa nazione impossibile a metà di luglio del 1982 ha vinto il mondo e lo guarda dall’alto in basso. Ragione per la quale ancora si rimpiange quel momento con tutte le sue illusioni scombiccherate. Era una vittoria pallonara, ma nessuno potè dire più niente, perché davvero l’Italietta aveva sconfitto i più forti, con la forza dei migliori, con l’abnegazione del gruppo, con la cattiveria tattica finta umile, operosa del friulano Bearzot. Dopo di allora, diciamolo pure, il Paese non ha fatto che peggiorare, perdendo terreno, tempo e anima. E due Mondiali di fila, visti dal divano.

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