Il Punk fu una grande truffa, ma lo ameremo per sempre

Tutta una truffa, ma qualcosa rimane. Molto rimane. Perché a volte è bello alimentarsi di illusioni. Perché i Pistols, i Ramones, i Damned, gli UK Subs, gli AntiPasti ce li abbiamo nei globuli rossi

Photo by Kev inr - commons.wikimedia.org


INTERAZIONI: 128

È istruttiva la serie di Danny Boyle sui Sex Pistols per Disney Channel, istruttiva perché ha fatto incazzare tutti e ha fatto incazzare tutti perché ha scoperto un po’ di altarini e gli altarini sono scoperti perché alla fine non è mai per i soldi: è sempre per i soldi. I punk ventenni che mandavano affanculo la Regina, si schieravano contro le multinazionali, recuperavano un po’ di sano spirito anarco-proletario, adesso si scannano per borghesissime questioni di diritti. La serie è ricalcata sulle memorie di Steve Jones, che vuoi non vuoi dei Pistols era il motore musicale e lo avrebbe dimostrato anche a band morta: la bella Beside You, cantata da Iggy Pop, era farina del suo sacco e già nel 1985 aspettava il suo momento. Forse non è vero che “senza di me non ci sarebbero stati i Sex Pistols e quindi il punk”, come si vanta Jones, ma è senz’altro vero che sarebbero durati ancor meno e il punk, che non ha età, non ha una vera e propria data d’inizio, e comunque preesiste i Sex Pistols, sarebbe stato diverso.
Istruttivo. La “grande truffa del rok and roll” non si smentisce e sta in quel ricorrere, periodico, circolare, che torna alle radici ogni volta che il rock diventa troppo grande, pomposo, pretenzioso; allora qualcuno scopre che questa musica è roba da niente, due accordi e uno stamburare su una latta, chi ha bisogno di saper suonare, in fondo? È successo praticamente in ogni decade, sono i nomi a cambiare, il look, ma è sempre quella roba lì. A cavallo fra trasgressione e affari. Una trasgressione organizzata, se vogliamo metterla così. Non che il punk non portasse, come ogni falsa rivoluzione, le sue istanze, i suoi presupposti; non che in quella fiammata durata un bagliore – già nel 1978, quando i Sex Pistols si bruciano, anche il punk è in cenere, soppiantato dai suoi mille “post” – non se ne vedano di tutti i colori: il rock è una bestia che cannibalizza i suoi figli, esige i suoi tributi, mentre, dietro, i Mangiafuoco contano i denari. C’era, chi ci credeva. C’era e non ha mai smesso, come, per dirne uno, i Cheater Slicks che non hanno mai smesso di creare quel fragore deragliante e malsano, alieno da ogni convenzione. È solo un nome, di esempi ne possiamo trovare quanti ne vogliamo, ciò non toglie che, alla base, sempre di grande truffa si trattasse. Pochi sanno che gli avvocati, a Jones e compagni, subito nel vortice di cause contro la casa discografica, contro loro stessi e fra loro stessi, li fornissero i dinosauri Rolling Stones; Mick Jagger da una parte li aiutava, dall’altra li sfotteva, quando appaiono sulla copertina di Rolling Stone commenta acido: “Suppongo che, allora, sono finiti”. Per Keith Richards, intransigente e definitivo, erano “bambini buoni solo a sputarsi nello specchio”, e certo non poteva proprio lui impressionarsi agli eccessi di quattro apprendisti. Frank Zappa ne ammirava lo spirito insofferente, ma ne disprezzava la totale mancanza di tecnica, talento e organizzazione. Tutti quelli che erano venuti prima, che l’avevano fatta da padrone, avevano un atteggiamento ambiguo, fra il curioso e il denigratorio, verso quella forma che sapevano essere imbastita a tavolino a dispetto dei ciclostile, delle spille, della antimoda di Sex, stilosissima boutique di ricercati stracci di Vivienne Westwood e Malcolm McLaren al 430 di King’s Road. Tutto perfetto, tutto preciso nell’apparente spontaneità del caos. Dopodiché, tutti questi distruttori delle convenzioni capitalistiche sarebbero finiti, succede, succede sempre, ad amministrare loro stessi come perfetti manager della nostalgia anarcoide. E adesso si scannano per diritti, per citazioni, con furori piccoloborghesi: “Cresci una buona volta, hai 66 anni” ringhia Jones a Lydon, che replica: “Cresci tu!”.
Quanto a noi, osserviamo, sorridiamo e, a pochi giorni dal Giubileo della Regina, mettiamo ancora una volta sul piatto God Save the Queen, che solo quella disgraziata cronista del Corriere riesce a descrivere come un inno dei Sex Pistols in onore di Elisabetta II. “Dio salvi la Regina, non è un essere umano”. In un certo senso, avevano ragione: stagiona molto meglio lei di loro tutti. Mentre Lydon, ex Rotten, ex “marcio”, arriva a rinnegare l’anarchia e porgere i suoi più britannici omaggi alla Queen. Magari avrebbe amato essere invitato pure lui al concerto servile insieme a Brian May (dei Queen, non a caso) e a Rod Stewart. Non è mai per soldi, è sempre per soldi e per l’ambizione di chi, arrivato a una certa età, considera di avere fatto qualcosa di solido, di danaroso per sé e per il Paese; in fondo, perché sono stati fatti tutti Baronetti, se non per i fiumi di sterline che hanno aiutato l’economia del Regno? Tutta una truffa, ma qualcosa rimane. Molto rimane. Perché a volte è bello alimentarsi di illusioni. Perché i Pistols, i Ramones, i Damned, gli UK Subs, gli AntiPasti e metteteci dentro quel che volete, ce li abbiamo nei globuli rossi. E perché difficilmente i pischelli di oggi conserveranno quella eredità genetica nell’altra piccola grande truffa della trap, degli esangui epigoni del glam, saccheggiatori di memorie, griffati già in feto, gente che davvero di uccidersi non ha nessuna voglia, che potrebbe dire, come li avrebbe sfottuti Zappa, “Siamo qui solo per soldi”.