Nessuno tocchi Sara Pinna, è una giornalista dei nostri tempi

È il giornalismo di questo tempo liquido in cui ci si può infilare quel che si vuole, anche dare ad un bambino di sei anni del gatto e dell'emigrante preventivo


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“Giornalismo” dei nostri tempi. A una trasmissione locale, certa Sara Pinna, angolosa conduttrice stanziale, se la prende con un bambino di sei anni che festeggia, in braccio al papà, la salvezza del Cosenza ai danni del Vicenza in serie B. Il piccolo non è che abbia fatto chissà quali misfatti, non è un Jenny ‘a Carogna in erba, si è limitato a farfugliare, incoraggiato dal padre, “lupi si nasce” o qualcosa del genere, riferito ai calciatori della sua città; ma è bastato a far perdere la brocca alla Pinna che subito ci ha polemizzato, manco fosse Orsini: “Eh, ma gatti si diventa. Non ti preoccupare, che venite anche voi in Pianura a cercare lavoro”. Il bambino non ha colto bene la lezione di geosociologia, in compenso se n’è adontato il padre che le ha rivolto una signorile letterina: “Gentile Sara Pinna…”, e giù con la storia della sua vita, esistenziale, imprenditoriale, con invito a visitare la bella terra di Calabria.


Fatica sprecata: che la chiami a fare una così? Giornalismo d’oggi: la nota, a livello locale, Sara, colta la cretinaggine dal sen fuggita, ha vaneggiato di “malaccorta gestione delle mie parole”. Perchè le parole adesso si gestiscono. Quindi ha continuato in crescendo: sono d’origine sarda, ho anche uno zio di Taranto, insomma i terroni lei li accetta. Il problema del giornalismo attuale non è tanto la deriva, a tutti i livelli, sul volgarotto andante, è proprio la gestione delle parole: gente che non condivide quello che pensa (e, purtroppo, dice) come nella battuta di Woody Allen. Ha detto, ma voleva dire altro. Certo, come no. Ma una che campa di parole e non è d’accordo con se stessa, forse è meglio che cambi mestiere. Ne deriva una contraddizione ontologica, quasi una aporia: se i meridionali vanno “in Pianura” a cercar lavoro, e se Pinna dice di essere salpata dalla Sardegna (che tecnicamente in meridione non è, ma questo è il senso pinnesco), allora il primo bersaglio del sarcasmo pinnesco è proprio Pinna: non se n’è accorta, e non stupisce. Sara però non conosce neanche il mondo o almeno l’Italia: forse, chissà, bazzica i villaggi turistici, ma pare drammaticamente ferma allo stereotipo della Calabria integralmente arretrata, da San Luca coi cartelli sforacchiati dai proiettili, a Platì e alla Sila dove se un ostaggio si liberava, subito i paesani andavano a riprenderselo per riconsegnarlo ai rapitori (lo raccontò Giorgio Bocca in “Aspra Calabria”). Se Pinna azzardasse un giro turistico a Rende, a Cosenza e dintorni, troverebbe facoltose cittadine non molto dissimili, per concentrazione di negozi, centri commerciali, consumismo dilagante, da Vicenza, i cui abitanti riposano in fama di “magnagatti”: Pinna li ha mai provati? O aspetta di divorare il piccolo calabrese diventato felino e salito in Pianura alla ricerca di una occupazione?


Naturalmente, dopo le parole non autocondivise della sciocchina si è originato il solito maelstrom in un bicchier d’acqua: polemiche, invettive social, esposti all’Ordine che non porteranno a niente di che, specie se Pinna dovesse dichiararsi piddinna. Intanto, l’emittente che si pregia dell’apporto di Sara le ha rinnovato una convinta stima “perché ha riconosciuto l’errore in modo chiaro ed evidente”. Che tempra, Pinna! Anche se l’errore lo ha riconosciuto fino a un certo punto: lungi dal di tapparsi l’incauta bocca, ha rincarato annunciando querele a manetta per chi l’ha insultata/minacciata sui social: ‘sti terroni, sempre i soliti. Ma basterà agli odiatori da tastiera riconoscere “in modo chiaro ed evidente” che hanno gestito male le loro stesse parole, per chiudere la faccenda.
Adesso si tratta di “gestire” non più le parole, ma l’improvvisa celebrità. Di Pinna non è che si sappia molto, giusto un coinvolgente svenimento live 4 anni fa. Tanto che siti e portali si riempiono di curiosità brucianti: “Chi è Sara Pinna, la giornalista che”, eccetera. Già, chi è? Lo scopriremo solo vivendo o forse no, però una cosa la sappiamo, perché ce l’ha detta lei: “Non son giornalista, sono conduttrice”. Ah, beh, sì beh. Di solito in questi casi la carta da giocarsi è quella del vittimismo: mi attaccano perché sono donna, a un uomo non l’avrebbero detto, non sono io razzista, sono quei calabresi che vogliono incaprettarmi, c’è ancora troppo maschilismo tossico, è il patriarcato che non molla. Da qui, con attenta gestione delle parole, si può auspicabilmente salire al pinnacolo della fama, quella vera, e magari arrivare a fare un libro sulla propria vita di emigrante salita dalla Sardegna alla Pianura in cerca di lavoro: dai nuraghi ai gatti. È il giornalismo di questo tempo liquido, anche se più che altro è conduzione, meglio ancora comunicazione, così ci si può infilare quel che si vuole. Tutto è comunicazione, anche un culo di fuori, una bestemmia, un rutto. E una conduttrice inviperita con un bambino di sei anni al quale dà del gatto e dell’emigrante preventivo. Non bastavano guerre, pandemie, carestie, mascherine e ministri fobici: ogni giorno ha la sua Pinna.