Nostalgia, Mario Martone e le memorie dal sottosuolo napoletano

Passato in concorso a Cannes e tratto dal romanzo di Ermanno Rea, un film sul mito del ritorno e dell’impossibile abbandono di una città materna e vischiosa. Favino eccellente, al centro di un bel gruppo d’attori

Nostalgia

INTERAZIONI: 223

Era inevitabile prima o poi l’incontro tra Mario Martone ed Ermanno Rea, accomunati dalla figura eterodossa del matematico Renato Caccioppoli, protagonista del primo film del regista partenopeo, Morte di un Matematico Napoletano, e figura centrale di Mistero Napoletano, il romanzo a partire dal quale Rea, negli anni Novanta, cominciò un’inesausta interrogazione sulla storia e i fallimenti della città. Coincidenti con una riflessione sul passato collettivo e personale, segnato, appunto, da un ritorno sui luoghi in cui si è diventati, nel bene e nel male, uomini.

È un ritorno quello al centro di Nostalgia, romanzo postumo di Rea che Martone ha scelto per il suo film presentato con ottimi riscontri in concorso al Festival di Cannes. Poco oltre la soglia dei cinquant’anni, Felice Lasco (Pierfrancesco Favino, splendido il suo lavoro mimetico sulla pronuncia), rimette piede a Napoli dopo quattro decenni. Nel tempo è diventato un altro: vive al Cairo, è diventato musulmano e imprenditore di successo, lì si è sposato con una donna (Sofia Essaïdi) di cui è innamoratissimo, e la lingua materna è divenuta una memoria lontana, sostituita dall’arabo e da un italiano affettato parlato come uno straniero.

Almeno sulla carta è tornato per reincontrare l’anziana madre (Aurora Quattrocchi). Ma ci sono anche altri motivi, legati all’antica amicizia, recisa per ragioni oscure, con l’inseparabile compagno di avventure e mascalzonate di quand’era ragazzo, Oreste Spasiano (da adulto Tommaso Ragno, magnetico). Felice si è rifatto una vita, Oreste è rimasto conficcato nella città, anzi più precisamente nel quartiere, la Sanità, orizzonte e condanna della sua vita, diventando ’O Malommo, il boss più feroce della zona. Sebbene tutti lo sconsiglino, a partire da don Luigi (Francesco De Leva), il coraggioso prete della Basilica di Santa Maria della Sanità, Felice è intenzionato a incontrarlo, certo che l’antica fedeltà sia ancora lì intatta a cementare il loro rapporto.

Con Nostalgia Mario Martone opera un’immersione nel ventre di Napoli che, come ha giustamente notato qualcuno, è condotta con una fedeltà alla topografia del tutto inedita al cinema. Chi conosce Napoli si sorprenderà nel vedere come nei suoi itinerari Felice attraversa strade realmente collegate l’una all’altra, partendo da piazza Cavour e da Porta San Gennaro che costituiscono la via d’accesso all’appartata e labirintica Sanità, teatro quasi esclusivo, insieme ad alcune parti della collina di Capodimonte, della vicenda.

Come ha scritto Mario Pezzella in un libro notevole, Altrenapoli, “la memoria ha in Rea una configurazione spaziale, è fatta non solo di ricordi, ma di pietre, strade, architetture ancora esistenti eppure irrimediabilmente deformate”. Per la stessa ragione Martone in Nostalgia riproduce filologicamente le relazioni tra le parti della città, rispettandone confini e distanze. Ed è nel contatto con quelle pietre che, poco alla volta, lo straniero Felice muta, e ritrova sotto la superficie la verità incancellabile di sé. È un percorso lento, che possiede il ritmo girovagante del flâneur – lo stesso del matematico Caccioppoli e dell’autofiction di Napoli Ferrovia di Rea – dal quale il protagonista suo malgrado finisce per essere irretito.

È inutile il suo tentativo di porsi a una certa distanza, prendendo alloggio in un hotel del Centro Direzionale, fallimentare sogno modernista e razionale di una city fatta di grattacieli che mai s’è integrato con il corpo di Napoli, il quale finisce inesorabilmente per calamitarlo e scomporre il suo nuovo io, non falso, ma di superficie. È significativo il primo incontro con la madre: Felice sale lentamente per le scale dell’edificio in cui lei abita, per scoprire però che, per ragioni di indigenza, si è trasferita in un minuscolo appartamento al piano terra dello stesso stabile. E lui, allora, con la stessa lentezza, ridiscende, risucchiato verso il basso dalle viscere di una città in cui anche le grandi masse delle mura tufacee posseggono una consistenza materica viva, carnale.

Felice, con tenerezza infinita, aiuta la madre a farsi un bagno, e la scena avviene in una sorta di stanza-caverna inabissata chissà dove, assumendo, per il luogo e l’affettuosa meticolosità della procedura, il sapore d’un antico rituale. Ed è solo la prima delle continue, necessarie spedizioni nel sottosuolo, per ritrovare quella dimensione ctonia che corrisponde a un inconscio da un lato personale, ma anche collettivo, che definisce l’identità più autentica di Napoli. Che non è quella luminosa del sole e del golfo – che non si vedono mai in Nostalgia –, bensì quella sofferta del “vicolo nero” della bellissima Carmela, canzone che descrive una città assieme antica e moderna, assai cara a Martone, che l’ha usata nella colonna sonora del precedente Qui Rido Io.

Di tale dimensione Felice si riappropria, ritrovandola simbolicamente anche nel Cimitero delle Fontanelle, dove parla coi morti (e i propri fantasmi), e dove trova un ritratto della Madonna modellato sulla fisionomia di una donna africana, che lui immediatamente sovrappone a quella della moglie. E tutto pare tornare, nella coesistenza di una doppia identità il cui significato però, è sempre nella radice partenopea. Per cui Felice dice: “Chist’è ’o paese mio”, ritrovando il dialetto sepolto chissà dove dentro di sé –, anche se la stessa frase, prima, la pronuncia in arabo. E fa anche da mediatore, parlando con uno spaurito ragazzo tunisino accolto dalla chiesa di don Luigi, tornando a essere lui il napoletano che accoglie l’altro.

Questo processo intimo di riappropriazione ha bisogno di sciogliersi in Nostalgia nell’ultimo capitolo, il più doloroso: l’incontro con Oreste, ombra che si aggira incappucciata come uno spettro nei vicoli della Sanità cui è restato vischiosamente incollato. I due – che rivediamo in flashback costruiti come vecchi superotto dalla grana vintage, in cui la loro indissolubile amicizia sembra possedere accenti velatamente omoerotici – condividono una vicenda che li ha uniti per sempre.

È un tema che ricorda Mystic River, la presenza di un evento matrice che, qualunque sarà il loro futuro, segnerà per sempre il destino dei ragazzi che l’hanno vissuto. Così è per Felice, la cui nuova avventura napoletana si trasforma in un cataclismatico ritorno del rimosso. Così è per Oreste, che la visita dell’ex amico fa ripiombare nell’angoscia dei suoi quindici anni. Fino all’inevitabile finale di Nostalgia, in cui Martone abbandona il tono un po’ cerebrale e raffreddato in cui talvolta il film s’incaglia trovando, memore del precedente Il Sindaco del Rione Sanità, la cifra asciutta e desolata di un noir urbano. Che forse, come dice a un certo punto Felice, ci racconta che nulla è cambiato davvero.

Continua a leggere su optimagazine.com