La rivoluzione/restaurazione di Exile On Main Street, che compie 50 anni

Dopo Exile, gli Stones non hanno altri riferimenti che la propria storia, la loro corsa è unicamente contro il loro passato, per durare

Photo by shutterstock.com


INTERAZIONI: 111

Ma di questi scheletri danzanti, che ora vogliono arrivare “al sessantenario”, Dio perdoni Keith Richards, sopravvive una claustrofobia della vita in tutto diversa da quella che 40 anni fa li celebrava nel famigerato Cocksucker Blues, sboccatissimo titolo del brano, ottimo peraltro, con cui Jagger e compagni chiudevano il contratto con la Decca, si davano all’esilio dorato per motivi fiscali, si mettevano in proprio con la Rolling Stones Record. Cocksucker Blues battezza pure l’altrettanto malfamato documentario girato nel 1972 da Robert Frank, artefice dell’inquietante e mirabile copertina di Exile on Main Street, cinquant’anni oggi e non sentirli, compendio di polverosa musica americana che se non è il miglior disco di rock di tutti i tempi, poco ci manca. Album dannato, uscito malgrado se stesso, malgrado gli Stones di quel momento, in cannibalistica deriva, che andavano a comporlo, a pezzi e bocconi malsani, a Villefrance sur Mer, negl’inferi dei tre piani seminterrati di Villa Nellcote di Richards, già galera nazista, i muri impregnati del sangue dei prigionieri che la band non volle ripulire per fiutarne ancora l’odore. Lo assemblò il produttore Jimmy Miller, dall’esperienza uscito disturbato, un reduce di guerra. Cocksucker Blues era parte di una impressionante operazione promozionale a supporto dell’ambizioso e dissoluto doppio album: tour americano, Truman Capote al seguito a raccontarlo (tornerà avvelenato, una persona molto peggiore di quando era partito), rockumentario iperrealista. Capote, oh, così snob, così capriccioso, così newyorkese rifatto, sta sui coglioni a Keith: appena può lo esaspera, lo provoca, quei ragazzi, abituati a venir corteggiati dall’intellighenzia, non hanno soggezione di niente e di nessuno e, se qualcuno fa le bizze, sanno come rimetterlo a posto. Una notte Richards gli piomba davanti alla stanza di hotel cercando di buttargliela giù a calci; non riuscendoci, ha un lampo di genio: gli copre la porta di ketchup, “Apri! Apri che te lo do io il sangue freddo (Cold Blood)!”.
Keith ha già intrapreso la sua discesa agl’inferi, proseguita, accelerata col successo del triennio 1968-1971, dischi memorabili, infine con la consacrazione di Exile on Main Street, l’album che più di tutti rispecchia l’anima oltre-ogni-limite del chitarrista. Exile è il messaggio definitivo, la pietra miliare e tombale, il punto di non ritorno. È anche, è stato giustamente osservato, l’unico episodio in cui il lavoro di Richards e di Mick Taylor riesce miracolosamente a trovare una summa teologica, un modo d’andar d’accordo, a fondersi organicamente in modo “che le due chitarre diventino una”. Tutto è ragguardevole e spaventoso in questo disco, tutto è importante in quei 70 minuti. Tom Waits ascolta la mistica/blasfema Just Wanna See His Face e trova l’ispirazione per provarci anche lui, trova il viatico per un approdo scarno, oscuro e tribale che, tuttavia, riuscirà a raggiungere solo molti anni e molti dischi dopo, passando per ogni genere di stile, di influenza. Ma non si contano gli artisti marchiati a fuoco, più che influenzati, da questo disco assurdo, sanguinario, tormentato, malato eppure stupefacente come nessun altro, un album che, recuperando mille influenze americane, ha saputo precorrere, per certi versi, lo stesso punk inglese.
Keith scende nella cantina della sua mente. Claustrofobico, riottoso, diffidente ed aggressivo. Non può evitare da un lato di sperimentare il distacco esistenziale con Jagger, distratto dalle sirene del jet-set, dal matrimonio con Bianca, dall’altro quello, artistico, con Taylor: “Se suoni ancora in quel punto, giuro che ti ammazzo, brutta testa di cazzo!”. Happy, ma quanto poi davvero? La frustrazione per non riuscire a comunicare sul piano sonoro si dilata, si trasforma in furia e non risparmia nessuno. Già da tempo quelli che vivono con i Rolling Stones, che li accompagnano nella loro sfida estrema, insensata sul crinale tra arte e morte, cadono come le mosche. La villa Nellcote dove, nel sud della Francia, Exile prende corpo è un campo di battaglia, la durezza, il cinismo con cui gli Stones trattano i collaboratori diventano crudeltà fine a se stessa, diventano insostenibili. Qualcuno non se ne riprenderà mai più, come il produttore Jimmy Miller: “Arrivò che era un leone, andò via che era un coniglio. Parlava, nessuno lo ascoltava e io gli chiavavo pure la moglie”, racconterà anni dopo Richards senza il minimo pudore.
Tutto di quegli umori sanguinari passa tra i solchi del disco, meraviglioso, mirabile eppure acerbo, irrisolto, precario, raffazzonato nella sua apocalittica bellezza. Dopodichè, il diluvio. I Rolling Stones rompono l’etica weberiana, non accettano di essere sottomessi a nessuno e mandano in frantumi la pace sociale; è Keith che li trascina, lui è weberianamente carismatico, il vero leader. La legge sono io! Ma sappiamo che Weber era influenzato da Nietzsche, il quale portava le conseguenze della faccenda “al di là del bene e del male”. Keith è creatore, il demone poetico. Ed ha un bisogno si direbbe fisiologico (dunque filosofico) del caos da cui trarre il suo ordine musicale. Se non c’è lotta, gli Stones si fermano. Sono la sintesi delle loro stesse contraddizioni. E quando partono, negli anni ’60, la loro rivoluzione somiglia tanto a una restaurazione della grande tradizione musicale americana, nera o bianca che sia. Pure, la loro è una rivoluzione permanente, o almeno duratura, che poi, come tutte le rivoluzioni, si specchia in se stessa, si istituzionalizza. Dopo Exile gli Stones non hanno altri riferimenti che la propria storia, la loro corsa è unicamente contro il loro passato, per durare. Sono passati altri cinquant’anni tondi e durano ancora, come qualcosa che va oltre la morte, troppo immane per spegnersi nel buio dell’eternità.