A Paul Schrader il Leone d’Oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia 2022

Il riconoscimento va a una delle figure fondamentali della New Hollywood, sceneggiatore di “Taxi Driver” e "Toro Scatenato" di Martin Scorsese e, da regista, autore di cult come “American Gigolo”

Paul Schrader

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Il Cda della Biennale di Venezia, su proposta del Direttore Alberto Barbera, ha deciso di assegnare a Paul Schrader, regista e sceneggiatore, il Leone d’Oro alla Carriera della 79. edizione della Mostra del Cinema. È una scelta cinefila che premia una delle figure fondamentali della New Hollywood e del cinema americano a partire dagli anni Sessanta e Settanta. E subito è giunta la reazione del premiato, che ha dichiarato di “essere profondamente onorato, Venezia è il mio Leone del cuore”.

Come ha sottolineato puntualmente Alberto Barbera, Schrader “ha rivoluzionato l’immaginario, l’estetica e il linguaggio del cinema americano. Non è un’esagerazione affermare che si tratti di uno dei più importanti autori americani della sua generazione, un cineasta profondamente influenzato dal cinema e dalla cultura europea, uno sceneggiatore ostinatamente indipendente, ma capace di lavorare su committenza e di muoversi con disinvoltura nel sistema hollywoodiano. L’audace stilizzazione visiva che informa tutte le sue opere, le colloca tra le forme più moderne di un cinema non riconciliato e sottilmente indagatore della contemporaneità. Una contemporaneità con cui Schrader si confronta non solo con curiosità intellettuale e umana instancabile, ma anche con una sorprendente capacità di navigare l’evoluzione tecnologica del cinema e quella del suo sistema produttivo e distributivo. Grazie a questa spericolatezza – che non molti autori del suo livello osano, nella fase matura della loro opera – Schrader non solo continua a lavorare, ma ci ha dato alcuni dei suoi film più belli proprio negli ultimi anni”.

E proprio lo scorso anno Paul Schrader è passato anche in concorso a Venezia con il suo ultimo film, Il Collezionista di Carte, molto lodato dalla critica. Schrader appartiene alla prima generazione dei registi “intellettuali”, proveniente da studi cinefili all’università, nel suo caso il Calvin College con poi il master alla UCLA con una tesi diventata un libro ancora oggi molto influente, Il Trascendente nel Cinema, che ruota intorno al cinema d’autore di Bresson, Dreyer e Ozu per indagare uno stile trascendentale cinematografico che ricerca la verità spirituale dell’uomo, attraverso immagini di grande rigore espressivo, depurate ed essenziali. L’altra notissima particolarità dell’approccio di Schrader è legata alla sua educazione rigidamente calvinista, che lo portò a vedere il suo primo film solo a diciotto anni, facendo sbocciare un amore immediato, e quasi sacrale, per la settima arte.

Schrader fu anche critico cinematografico, su riviste come “Cinema”, di cui fu anche direttore, e fu molto legato alla figura di Pauline Kael, il più influente critico della sua era, firma del New Yorker che lui definì “la mia seconda madre“. Il passaggio alla sceneggiatura ne impone subito la firma, prima il bellissimo noir Yakuza (1974) per Sydney Pollack e poi un film epocale come Taxi Driver (1976) per Martin Scorsese, per il quale firmerà anche gli script dell’altro capolavoro Toro Scatenato (1980), L’Ultima Tentazione di Cristo (1988) e Al Di Là della Vita (1999). E sono sempre storie ad altissima temperatura emotiva, che si muovono tra il sacro e il sangue, il sacrificio e l’ascesi, secondo uno stile sofferto e tortuoso nel quale le esplosioni di violenza sono riscattate da un’intensa ricerca spirituale e umanista.

Il successo di Taxi Driver gli aprì le porte della regia: l’esordio di Blue Collar (1978), già maturo, storia di tre operai di Detroit che scoprono di essere stati traditi dal sindacato; Hardcore (1979), storia di un padre religiosissimo che, alla ricerca della figlia scomparsa, compie una “discesa negli inferi” del cinema porno e del sottobosco californiano. Del 1980 è il suo più grande successo, American Gigolo, il film che impone la stella di Richard Gere compiendo un’operazione spericolata, mettendo insieme il cinema di Bresson con l’ambiente fasullo e luccicante del jet set, raccontando come pochi ambizioni e appetiti dei nascenti anni Ottanta. Di lì è seguita una carriera tra alti e bassi, con operazioni cinefile come il sottovalutato Il Bacio Della Pantera (1982), remake di un classico di Jacques Tourner in cui l’horror flirta con l’erotismo, oppure come Mishima (1985), che unisce biografia e letteratura per un ritratto del controverso scrittore giapponese suicida, variazione perspicua sui suoi temi della redenzione e del sacrificio.

Dopo qualche anno di appannamento Paul Schrader è tornato ai suoi standard con un piccolo film come Lo Spcciatore (1991), quasi un aggiornamento di American Gigolo nella sua descrizione di una pedina del sottobosco criminale che vorrebbe cambiare vita; e poi Affliction (1997), tragedia familiare nello squallore della provincia americana illuminata da due grandi interpretazioni di Nick Nolte e James Coburn (premiato con l’Oscar come non protagonista).

Tra film più e meno riusciti, Paul Schader resta sempre fedele alla sua idea di un cinema mai banale, stilisticamente scomposto, che punta a svelare il lato contraddittorio, sgradevole e in ombra di uomini e ambienti. Sempre assumendosi il rischio di storie non accomodanti che raccontano personaggi singolari e controversi, come l’erotomane di Autofocus (2002), criminali crudeli e senza nessun romanticismo (la scheggia di cinema orgogliosamente inattuale di Cane Mangia Cane, 2016), manipolatori la cui voglia di sesso conduce a tragiche conseguenze in un film, The Canyons (2013), che provocatoriamente ha tra i suoi protagonisti una star del cinema porno (James Deen) e che conduce, pure, partendo da una sceneggiatura di Bret Easton Ellis, una riflessione lugubre sulla morte del cinema.

A riportare Paul Schrader al centro del cinema contemporaneo è stato First Reformed (2017), per il quale ottenne la sua prima nomination all’Oscar per la sceneggiatura, storia di un pastore calvinista che di fronte al dolore e all’indifferenza del mondo per la crisi ambientale decide di compiere un gesto estremo. Un film su cui i critici militanti si sono accapigliati, chi esaltandolo, chi trovandolo sopra le righe. Qulunque cosa se ne pensi, è innegabile si tratti di un’opera capace di rimeditare tutto il suo cinema, riflettendo sul male, la colpa, la redenzione. Confermando la potenza di uno stile che non assomiglia a nessun altro, che non punta al compitino di sceneggiatura ben svolto, bensì a scavare nel lato in ombra e nella luce che abita in ogni uomo.

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