Closer, un’anatomia della vita di coppia che dopo vent’anni sembra ancora più esatta

Il veterano Mike Nichols racconta sesso, sentimenti e vita di coppia all’altezza degli anni Duemila. Un ritratto pungente e amaro, con un quartetto di stelle: Law, Roberts, Owen e Portman

Closer

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Sono passati quasi vent’anni dall’uscita di Closer (2004) e l’impressione è che il film di Mike Nichols sia invecchiato bene o meglio ringiovanito, più preciso oggi di allora nel descrivere la natura dei rapporti tra donne e uomini. Nichols, all’epoca già oltre i settant’anni (era nato nel 1931), era reduce dal notevole successo delle miniserie televisiva Angels In America (2003), che partendo dalla pièce premio Pulitzer di Tony Kushner aveva raccontato in tono coraggioso e altisonante, onirico e urlato, la piaga dell’Aids e come l’avevano vissuta gli Stati Uniti. E d’altro canto i suoi primi film, Chi Ha Paura di Virginia Woolf? (1966) e Conoscenza Carnale (1971) – e in una chiave più indiretta anche Il Laureato (1967) – erano stati degli affondi incisivi nella vita sentimentale ma soprattutto sessuale degli americani, svelando desideri repressi, miserie emotive, disordini affettivi.

Al giro di boa degli anni Duemila, presentendo l’enorme cambiamento nelle forme di relazione tra i sessi, pensò fosse giunto il momento di tornare a occuparsi dello stesso tema, partendo da un’opera del commediografo Patrick Marber, da cui lo stesso autore trasse la sceneggiatura. La vicenda è costruita come un rondò sentimentale (se sentimentale può definirsi) tra quattro personaggi, due uomini (inglesi) e due donne (americane), che nella cosmopolita Londra si prendono e si lasciano, s’intrecciano, perdono e ritrovano. Ma non c’è nulla di divertente, romantico o gratificante.

L’inizio di Closer pare avere una cadenza romantica, con l’incontro casuale tra il giornalista specializzato in coccodrilli e aspirante romanziere Dan (Jude Law) e una ragazza statunitense che dice di chiamarsi Alice (Natalie Portman) e di aver lasciato l’America dove faceva la spogliarellista. I due, al ritmo della incendiaria The Blower’s Daughter di Damien Rice (cui il film giovò molto) flirtano lanciandosi sguardi d’intesa per strada finché lei, distratta, finisce investita da un’auto. Poco male, solo qualche graffio e un buon modo per cominciare una relazione (apparentemente) felice. Salto a un anno dopo, Dan ha scritto il famoso romanzo e pare molto più sicuro del timido pennivendolo di qualche tempo prima. L’incontro con una fotografa americana che gli scatta il ritratto per la copertina del suo libro, Anna (Julia Roberts) è galeotto, se ne innamora all’istante.

Closer
  • Regista: Mike Nichols
  • Roberts/Law/Owen (Actor)

Nel frattempo Anna comincia a frequentare, sempre per ragioni piuttosto casuali, un dermatologo londinese, Larry (Clive Owen). Il quale, dopo aver chattato con una presunta ninfomane (in realtà Dan sotto mentite spoglie) si presenta all’acquario dell’appuntamento scambiando Anna per la donna della sua avventura sessuale. Nonostante l’equivoco e l’approccio molto improbabile la cosa funziona, i due finiscono addirittura per sposarsi. Entrambe le coppie però, mosse da desideri ondivaghi e sussultori, sono appunto destinate a soffrire, scoppiare e riaccoppiarsi, in un crescendo di cattiverie reciproche, ripicche, dolorose confessioni a cuore aperto nelle quali la franchezza a ogni costo più che da un bisogno di verità sembra mossa dal sottile piacere di far male all’altro.

All’epoca Closer incassò oltre cento milioni globalmente, un successo notevole per un film inequivocabilmente serio, un apologo adulto lontanissimo dalle ruffianerie da rom com, com’è evidente dai dialoghi, insieme forbiti e sessualmente espliciti. Quello che lasciava perplesso del film era la mancanza di un attento scavo psicologico e di una progressione narrativa coerente. La scelta di compiere continui salti cronologici infatti asciuga la vicenda di tutto il suo retroterra, riducendo la storia a una serie di scene madri lancinanti che però rischiano, senza il prima e il dopo, di sembrare immotivate e quasi incomprensibili. Il recensore dell’Atlantic scrisse, non senza ragioni, che “i personaggi di Closer sembrano trapiantati da un altro pianeta. Non è solo che si comportano in modo irrazionale (sebbene lo facciano), si comportano secondo un insieme di principi che non sembrano riconoscibilmente umani”.

Paiono degli alieni, insomma, mossi solo dai loro desideri irrecuperabilmente narcisisti in cui si mescolano infantilismo e aggressività (quest’ultima assai evidente nel personaggio di Owen, che è anche il più incisivo dei quattro interpreti). Eppure è proprio questo aspetto a costituire oggi l’elemento migliore, quasi profetico di Closer.  

C’è una specie di buco nero al fondo del film. Che giustamente, come si fece vent’anni fa, può essere visto come il difetto di una sceneggiatura incapace di costruire personaggi coerenti. Oppure, diversamente, lo si può ritenere un esatto ritratto del vuoto e dell’incoerenza che queste figure incarnano. Dei manipolatori che amano disquisire del loro bisogno di dire sempre la verità e però profondamente menzogneri, con gli altri e con sé stessi.  Di verità e menzogna i personaggi parlano continuamente. Quando Alice dice a Larry che “mentire è la cosa più divertente che una ragazza può fare senza togliersi i vestiti di dosso”, o quando Dan, frustrato dall’ennesima “sincera” confessione di Anna, le ribatte: “Cosa c’è di così notevole nella verità? Cerca di cambiare e menti. È quello che fanno tutti a questo mondo”.

È proprio questa superficialità apparentemente immotivata dei comportamenti, unita a questo ripiegamento sempre più insistito sul proprio egoismo, incapace di guardare davvero le esigenze dell’altra e dell’altro, a costituire il fattore forse più attuale di un film che pare raccontare la nostra contemporaneità distratta ed affettivamente sgretolata. Nella quale, amplificata dalle opportunità di comunicazione istantanea offerte dall’universo digitale, le relazioni sembrano diventate sempre più accidentali, traballanti e a tempo determinato, col consumo emotivo a sostituire il dare e ricevere intimità. E dove la maschera menzognera ha sostituito il volto (quei volti che Anna fotografa in primissimo piano nei suoi scatti che Alice trova così fasulli, perché esteticamente talmente belli e rifiniti da togliere tutta la vera infelicità dalle espressioni dei soggetti ritratti).

Per cui pare corretto ciò che allora scrisse nella sua recensione l’influente critico statunitense Roger Ebert, anticipando i tempi: “Ciò che rende unico Closer, che lo fa sembrare giusto per quest’epoca insincera, è che i personaggi non si capiscono né l’un l’altro né con sé stessi. Sanno come eseguire i movimenti di pressione dei pulsanti giusti e come fingere che i pulsanti siano stati premuti, ma sentono davvero qualcosa oltre il loro piacere?”.

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