Il Pop e la Fogna del Comportamento

La Fogna del Comportamento, l’ha chiamata facendo ricorso a un gergo poco scientifico John B. Calhoun, etologo, e va detto che anche guardando alla musica tutto sembra molto coerente, sia che si parli di attori che di spettatori


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Parliamo della prossima, imminente fine del mondo della musica per come lo avevamo conosciuto, un tempo, e in maniera coatta imparato a sopportare di recente. Per farlo partiamo dallo studio di un etologo americano, John B. Colhoun, inspiegabilmente non diventato famosissimo, parlo di chi di etologia e anche antropologia si occupa, certo, oltre che di sociologia, ma anche di chi si occupa di tutt’altro, gente che nulla sa di etologia, per dire, ma se gli dici Pavlov subito, pavlovianamente, pensa alla parola “cane”, anzi, al dittico “cane di”, e magari sa anche qualcosa in più, cioè sa che se sente la parola Pavlov subito pensa a “cane di” perché sa che Pavlov ha fatto esperimenti di tipo etologico sui cani, e sa che questi esperimenti hanno portato a scoprire che, nei cani come più in generale negli animali, uomini inclusi, certi gesti legati a certe situazioni tendono a ripetersi meccanicamente, in maniera indotta proprio dalla routinarietà. Senti una campanella e sai che sta per arrivare da mangiare, quindi associ il mangiare alla campanella, tipo.

Ecco, Calhoun dovrebbe essere famoso come Pavlov, seppur in assenza di un cognome altrettanto evocativo, sono massimalista e postmoderno, quindi tendo a dare alla forma delle parole il medesimo peso che do al contenuto che quelle parole veicolano, e so che Pavlov batte Calhoun ma di brutto, non basta certo quella B. a fare una qualche differenza. Al punto che Pavlov è Pavlov, senza manco uno straccio di nome necessario a identificarlo, all’anagrafe si chiamava per altro Ivan Petrovic, pure un nome epico, caspita, mentre Calhoun è John B., perché, Amazon in questo aiuta ancor più di Google, esiste anche un ben più noto John C., lì a fregargli la scena. Vorrei quindi un John B. Calhoun popstar alla Pavlov, perché ritengo che i suoi studi siano stati fondamentali, a tratti geniali.

John B. Calhoun, nome da jazzista minore, di quelli che un giorno poi diventano protagonisti di un film della Pixar le cui musiche vengono affidate non a un jazzista, maggiore o minore, ma a una rockstar, una rockstar con la faccia da rockstar e un nome da rockstar, per altro, Trent Reznor, rockstar che si è sempre mossa in ambiti noise e industrial, certo senza l’intransigenza degli artisti più radicali e con un occhio rivolto al pubblico mainstream, John B. Calhoun, dicevo, si è occupato praticamente per tutta la sua vita, e la sua vita professionale nello specifico, di sovrappopolamento e di comportamenti a esso legati, soprattutto in ambito animale.

Stiamo parlando di uno scienziato che è vissuto e ha operato tra il 1917 e il 1995, questo dice l’anagrafe, anche se nei fatti lavorò tra il dopoguerra e il 1985, anno in cui andò in pensione, beccandosi quindi tutto il periodo del boom post-bellico, con conseguente espansione delle metropoli, aumento all’epoca considerato inarrestabile della popolazione, aumento che ha posto con attenzione scrupolosa e quasi maniacale al centro dei suoi studi.

In qualche modo figlio illegittimo, parlo di scienza non di genetica, né di anagrafe, in questo caso, di Thomas Malthus, uno dei padri della “demografia” e anche della “sociologia”, Calhoun iniziò già nel 1947 a dar vita a esperimenti su ratti, presso una fattoria nel Maryland. E iniziò sin da subito provando a andare oltre le ipotesi messe in campo da Malthus, che sosteneva miseria e vizio fossero i primi e fondamentali fattori per contenere una popolazione, e dopo aver appunto studiato come la miseria, identificata nella presenza di predatori, malattie e scarsità di cibo, influisse nell’andamento demografico e sociale di una comunità di roditori tenuto dentro ambienti limitati, Calhoun cominciò a interrogarsi su prospettive diametralmente opposte, andando quindi a cercare di capire come il comportamento sociale potesse influire sulla crescita e come la crescita potesse influire sul comportamento.

So che detta così suona un po’ come un verso di Jovanotti o la pubblicità del pennello Cinghiale, ma nei fatti è di questo che Calhoun iniziò a concentrare i propri studi e i conseguenti propri esperimenti, arrivando col tempo a scoperte incredibili.

Dopo primi esperimenti nei quali ogni forma di ostilità esterna veniva chirurgicamente eliminata, quindi nella più totale assenza di predatori, di malattie, prima di partire con gli esperimenti i ratti venivano selezionati, prendendo solo i più sani e fisicamente in forma, e mettendo loro a disposizione una quantità illimitata di cibo e acqua, col tempo si arriverà anche a tenere l’ambiente a una temperatura costante di venti gradi, il tutto pulito da fondo una volta alla settimana, non sia mai che i ratti vivano nella sporcizia, insomma, una sorta di paradiso per topi, unico limite quello relativo allo spazio, inizialmente i ratti si trovavano a muoversi in quattro grandi scatole comunicanti tra loro, per un totale di tre metri per quattro di lato, Calhoun arrivò a affinare la propria tecnica, andando a creare un ambiente, per dirla con parole sue, “inibitore di morte per topi”.

Uno spazio quadrato, due metri e settanta per lato per un metro e quaranta di altezza, munito di ogni “comfort” per topi, dal cibo all’acqua, con impossibilità di uscirne arrampicandosi lungo i bordi, certo, ma con qualcosa come quasi trecento nidi, nidi capaci di contenere quindici topi ciascuno, tutti posti in alto, dei corridoi pensili a collegare i lati. Anche stavolta la selezione dei ratti, maschi e femmine, fu molto radicale, l’intenzione quella di arrivare nei mesi, negli anni, a studiare l’andamento sociale e demografico dei ratti, studiandoli nel corso di almeno sei generazioni.

Siamo nel 1970, quindi qualcosa come oltre cinquant’anni fa, badate bene. Nasce Universo 25.

Un habitat come quello ideato da Calhoun avrebbe potuto ospitare qualcosa come tremilaottocento ratti, tra adulti e piccoli, dando così modo allo scienziato di studiare come lo spazio avrebbe determinato il comportamento sociale. Partito con quattro coppie di ratti, e dopo un paio di mesi di ambientamento, la popolazione era andata raddoppiandosi ogni cinquantacinque giorni, dando così una stima a braccio del raggiungimento di quota cinquemila abitanti entro il secondo anno. Solo che, al trecentocinquantesimo giorno di esperimento, con una popolazione di circa seicento esemplari, sempre in totale assenza di pericoli esterni, cominciarono a presentarsi le prime significative anomalie, quelle che avrebbero portato Calhoun alle sue strepitose conclusioni.

Con un numero di ratti adulti assai superiore a quello dei ruoli sociali previsti dalla normale comunità, portarono a un carico di stress insopportabile per i roditori, che diedero vita a comportamenti assolutamente imprevedibili e quindi imprevisti. I maschi alpha, tenuti a guidare la gerarchia, abbandonarono il proprio ruolo, lasciando la comunità in una sorta di anarchia caotica, gli adulti maschi cominceranno a dar vita a comportamenti violenti, distruttivi e antisociali, riunendosi in una sorta di bande costituite senza uno schema preciso, praticando pansessualismo, quindi sesso non atto alla riproduzione, e arrivando anche a gesti di cannibalismo, per altro del tutto inutili, vista la abbondante presenza di cibo. Le femmine, quelle che non si uniranno alle bande di cui sopra, si rifugeranno nei nidi ai piani alti, i soli luoghi dove era possibile difendersi e difendere i propri piccoli, piccoli che però sempre più spesso verranno abbandonati a loro stessi, causando uno stallo demografico assolutamente non teorizzato in partenza. In alcune zone di Universo 25 si arriverà a un tasso di mortalità infantile quasi del 100%. Nessuno degli abitanti di Universo 25, del resto, avrà più a cuore la riproduzione della specie, sorta di punto di non ritorno dell’esperimento.

Calhoun potrà notare come la comunità del suo esperimento, stressata psicologicamente e provata fisicamente non dai fattori esterni, accuratamente eliminati in partenza, quanto dalla violenza autodistruttiva causata dagli stessi abitanti, si dividerà in tre spazi, dando vita a tre sottocomunità.

I più deboli, rifiutati da tutti gli altri, si riuniranno al centro dell’habitat, passando il tempo inermi e lasciandosi ogni tanto andare a comportamenti violenti e antisociali di pura distruzione, le femmine occuperanno definitivamente la parte alta di Universo 25, difendendo non più la prole, abbandonata, ma i nidi occupati e loro stesse, terzo gruppo, del tutto inaspettato, quelli che l’etologo chiamerà, non senza un pizzico di fantasia letteraria, “quelli belli”, un gruppo di ratti del tutto disinteressato a qualsiasi attività sociale, concentrati solo sul mangiare e lisciarsi il pelo, unici tra tutti i ratti a non presentare né ferite dovute a scontri con altri esemplari, né segni di stress psicologico.

Giunti al cinquecentosessantesimo giorno, con una popolazione di duemiladuecento esemplari, contro i tremilacinquecento previsti, la situazione comincerà a dimostrarsi calcificata, al punto che al seicentesimo giorno ci sarà un vero e proprio blocco della crescita, natalità zero, indicato da Calhoun come l’inizio della fine di Universo 25.

Da quel momento non ci saranno più cuccioli in grado di superare lo svezzamento, e nelle settimane  a seguire mancheranno anche le gravidanze. Anche quando la moria dei topi riporterà il numero degli abitanti di Universo 25 verso la tipologia iniziale i ratti continueranno a non accoppiarsi, e quindi a non riprodursi, determinando l’estinzione della comunità.

Una morte autoindotta, in qualche modo, il non riconoscersi più nei ruoli sociali della comunità di topi che ne ha determinato poi la morte vera e propria, una morte sociale che ha anticipato e indotto la morte fisica.

Il risultato dell’esperimento, quindi, è che eliminando ogni causa esterna di morte la popolazione sarebbe cresciuta a dismisura, saturando i ruoli sociali a disposizione già nel giro di poche generazioni.

Questo causa una sorta di scontro generazionale, coi giovani esemplari che provano a eliminare quelli adulti per prenderne il posto, dando però vita a una guerra distruttiva e iperviolenta. In tutto questo, l’eccessiva socialità, reiterata, porta a uno svilimento del valore dei rapporti stessi, con conseguente assenza di gratificazione legata all’interazione e quindi a un rifiuto di socializzazione, con conseguente violenza a autodistruzione.

Il totale disinteresse di una porzione della comunità, “quelli belli”, narcisisti e egoisti, appartati a non far nulla mentre intorno tutto è apocalisse, è una sorta di tocco surreale, degno di un Frank Miller, solo che nello specifico il Frank Miller in questione è Calhoun, un irreprensibile etologo che ha sacrificato la vita allo studio dei ratti in chiave demografica, e a volerla vedere in maniera un filo meno ottimistica, Frank Miller potrebbe anche essere identificato con Dio o con chiunque o qualsiasi cosa riteniate muova i fili del mondo.

Tutto questo verrà chiamato da Calhoun “la fogna del comportamento”, termine poi utilizzato in altri ambiti, da quello sugli studi comportamentali legati ai viaggi spaziali a quelli giornalistici, Tom Wolfe, che per altro ha studiato sia Darwin, di questo parla uno dei suoi libri, Il regno della parola, che quello legato alla NASA e ai viaggi spaziali, La stoffa giusta, utilizzerà questa teoria per parlare del degrado di New York, lui padre del New Journalism che proprio New York sceglierà come patria d’elezione.

La Fogna del Comportamento, diciamolo, nome assai poco scientifico ma assolutamente azzeccato per definire la deriva da Notte del Giudizio dovuta dalla caduta dei ruoli sociali in seguito al sovrappopolamento, da una parte, e al trovarsi tutto alla portata, letteralmente, della bocca.

Veniamo a noi.

Arriviamo a noi, e alla imminente fine del mondo della musica cui facevo cenno all’inizio di questo pezzo.

Noi stiamo vivendo da anni dentro Universo 25.

Come i ratti di Calhoun, inconsapevoli di viverci.

Lasciate da parte il Covid 19, non è certo di pandemie che voglio parlare. Parlo di musica, e più nello specifico del mondo della musica, della macchina, quindi, e di chi a quella macchina guarda e la utilizza per fare musica e metterla in circolo, da una parte, e per ascoltarla, dall’altra.

Partiamo da questi ultimi. Da che la musica è stata digitalizzata, parliamo esattamente degli anni in cui Raf, sempre lui, passava dall’essere un autore e interprete di hit internazionali cantate in inglese e inneggiante alla capacità insita in ognuno di noi di tenere a freno sensi e nervi all’essere un cantautore che usa l’italiano, Cosa resterà degli anni Ottanta si era dimenticata di infilare anche l’MP3 nel lungo elenco esposto, Napster a vanificare in un soffio la presunta rivoluzione del “formato CD”, l’idea che la musica fosse tutta disponibile ovunque e fosse soprattutto gratis lì pronta distruggere tutto, da che la musica è stata digitalizzata, dicevo, il nostro rapporto con essa è sensibilmente cambiato. Per sempre.

Non parlo solo di chi nella musica ci lavora, ma anche di chi la musica la affronta da fruitore, più o meno appassionato che sia.

Se infatti prima l’ascolto era un passaggio fondamentale della catena musicale, catena che partiva con la composizione e scrittura, passava per la produzione e l’incisione, arrivava alla stampa e la distribuzione e solo in quel momento passava nelle mani, anzi le orecchie, dell’ascoltatore, da che la musica è divenuta digitale, quindi gratuita e più facilmente reperibile per chiunque abbia a disposizione internet, l’ascolto è divenuto un passaggio minore, non a caso destinato a occupare militarmente ogni istante della nostra vita, deprivato della sua unicità e del proprio valore (esattamente con le interazioni nel mondo dei topi, per intendersi). Quando qualcosa diventa così a buon mercato, onnipresente, è evidente, perde di fascino, e conseguentemente si svaluta, finisce per essere considerato comune, sottinteso. Non a caso, da quel momento, ogni tentativo di rimetterci su un prezzo, parlo di un prezzo serio, che si trattasse di un prezzo legato al supporto cool col quale poter ascoltare musica, vedi alla voce Apple/iPod/iTunes, o si trattasse poi di un prezzo legato all’organizzazione dei percorsi d’ascolto, leggi alla voce Spotify/streaning, è miseramente fallito. Ciò che per un sufficiente lasso di tempo diventa gratuito gratuito è destinato a rimanere.

Del resto, questo è discorso troppo ampio da essere trattato così, a volo d’angelo, la digitalizzazione della musica ha portato a un impoverimento della medesima fruizione, non solo perché la musica compressa, in MP3, perde di affidabilità, il famoso hi-fi che va a ramengo, e lo streaming finisce radicalmente lo sporco lavoro già iniziato in precedenza, schiacciando le frequenze, eliminando gli alti e i bassi, rendendo nulla l’idea di dinamica e di conseguenza annullando ogni qualsiasi idea di complessità, stessi ritmi, stessi accordi e quindi stesse linee melodiche, tanto poi si ascolta tutto male con uno smartphone, senza neanche le cuffie, che ci si sforza a fare?

E qui veniamo all’altra parte dell’assioma.

La digitalizzazione della musica, che ha reso la fruizione della musica sciatta e si è giocoforza portata con sé la qualità in fase di produzione e incisione (perché usare i colori se poi si stampa in bianco e nero, metaforizzo?), ha radicalmente cambiato anche il sistema musica, andando a decapitare tutta una serie di ruoli precisi un tempo legittimamente ritenuti fondamentali e oggi considerati obsoleti.

Sempre più spesso la filiera si è violentemente accorciata, tagliando ingegneri del suono e produttori, a volte anche arrangiatori, e tirando fuori tutta una serie di produttori improvvisati, fai da te. La discografia, ovviamente, ha incentivato questa china, perché non dover pagare cifre esose album fatti sostanzialmente in casa ha permesso di tagliare sui costi e di consentire una sopravvivenza fino a poco prima considerata impossibile. Gente attenta solo ai movimenti sui social di colpo si è trovata a decidere le sorti della musica, like e followers a prendere il posto di talento e ispirazione, scorciatoie difficili da evitare, quando si tratta di pensare solo ai numeri.

Il risultato è quello che abbiamo sotto i nostri occhi, o forse dovremmo dire i nostri orecchi.

Tornando a Universo 25, quel che sta succedendo, o meglio, è ormai definitivamente successo, è qualcosa di analogo a quello mostrato scientificamente da Calhoun coi suoi topi, lì nel granaio nel Maryland.

La possibilità di ascoltare musica gratis e ovunque, e di pari passo la possibilità di prodursela in casa, con poche, pochissime spese è il “paradiso per topi” musicale, i rischi si assottigliano, tutto sembra alla portata di tutti, chiunque è lì nel massimo delle condizioni possibili. Un paradiso solo apparente, ovviamente, perché questo apparente paradiso comporta la caduta di tutti i ruoli sociali, la struttura sociale stessa che si sfalda giorno dopo giorno. Le certificazioni platino date come fosse acqua e cibo a volontà, l’assenza di compensi che ne seguano il ritmo, la possibilità di diventare famosissimi nel giro di niente, e altrettanto velocemente rientrare nell’anonimato, tutto contribuisce alla creazione del caos. Discografici improvvisati che si trovano a ricoprire i ruoli di potere, quelli che i discografici di razza non intendono o non possono continuare a portare avanti, nuove bande che vanno creandosi al seguito di logiche del tutto irrazionali, vedi le mode improvvise e vacue quali quelle della trap e dell’indie, il tutto mentre chi si ritiene ancora dotato di un minimo di responsabilità verso le opere, l’arte, nel caso di Calhoun erano le femmine, qui quelli che genericamente chiameremo “artisti”, a rifugiarsi nei propri nidi, lontani da tutto e da tutti, contornati solo da propri simili. A lato una terza categoria, “quelli belli” del tutto disinteressati a quel che succede nel mondo, nel mondo della musica, ovviamente, lì a mangiare e lisciarsi il pelo. Sono quelli che, per dire, durante la pandemia non una parola hanno speso per le maestranze, o peggio, non una mano al portafogli hanno portato per aiutarle, le maestranze, lì a lanciare slogan sterili come #IoRestoACasa o a lanciare inviti neutri, sterili, forti del proprio storico, del proprio acquisito, e, diciamolo pure apertamente, di una forza economica che non li porta a correre alcun rischio imminente.

La qualità dei prodotti, quindi le opere destinate a restare nel tempo, in una fase di stallo senza precedenti, nessuno che ha più “voglia di riprodursi”, chi per incapacità di pensare al futuro, il troppo cibo e benessere indotto ha letteralmente ammazzato le competenze e generato la credenza che chiunque potesse fare qualsiasi cosa, chi perché troppo occupato a tenersi in salvo, essere di talento, nel caos, ha più che altro spinto gli artisti a rinchiudersi nei ghetti, stare fuori dal mercato come alternativa al mercato, ovviamente senza mai uscire da una micronicchia, chi perché disinteressato a altri che da sé, inutile star qui a fare i nomi, gli stadi son lì a indicare la strada.

La Fogna del Comportamento, l’ha chiamata facendo ricorso a un gergo poco scientifico John B. Calhoun, etologo, e va detto che anche guardando alla musica tutto sembra molto coerente, sia che si parli di attori che di spettatori.