Il monologo di Gianluca Grignani a Le Iene: le dipendenze, il ruolo dei poeti e un messaggio per le nuove generazioni

"Siamo alieni che non si riconoscono gli uni dagli altri": i trascorsi con l'alcol, le difficoltà dei poeti e il ruolo delle nuove generazioni. Ecco Gianluca Grignani a Le Iene

gianluca grignani a le iene

Ph: Le Iene/Mediaset


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Scorre come un vocale mandato a 2x, il monologo di Gianluca Grignani a Le Iene. Il cantautore fissa la telecamera con un’ostentata severità, ma ancora una volta i suoi occhi tradiscono una fragilità umana e un’eloquenza che è propria di un fratello maggiore. Tutti, mentre osserviamo Grignani che si lascia andare in una slavina di parole, ci ricordiamo quel momento in cui è apparso al Festival di Sanremo accanto a Irama per intonare una delle sue più grandi hit, La Mia Storia Tra Le Dita, per poi correre come un figlio smarrito tra le braccia del suo pubblico. Un pubblico, quello, che gli ha fatto ora da madre protettiva e ora da giudice: prima la gloria, poi le cattiverie gratuite.

Le dipendenze

“Era ubriaco”, “era fatto”, e ancora facili conclusioni che dimostrano quanto l’essere umano sia facile a sputare sentenze “con in mano una pistola”, proprio come cantava lo stesso Gianluca in quella canzone passata in sordina. Rok Star, titolo trascritto con intenzionale omissione di una “c” da quel capolavoro discografico che si chiama La Fabbrica Di Plastica (1996). Ieri sera con il monologo di Gianluca Grignani a Le Iene, senza imporcelo, ci ha fatto mettere una mano sulla coscienza e l’altra protesa verso il futuro. Un futuro in cui il cantautore è già stato e che ora affida a noi. Per raccontare il futuro, però, bisogna partire dal passato.

Ecco, quindi, le prime cartucce esplose:

“La bottiglia di vodka ondeggia nella mia mano, lungo il soppalco della villa che si affaccia sui vigneti. Indosso una vestaglia blu. La sostanza è nascosta sapientemente in bagno, ogni tanto la vado a visitare, per non cedere a qualcosa che neanche io so cos’è. L’alcol non mi fa effetto, non mi calma. Sono solo. Lo spazio che separa il soppalco dal pavimento è come la caduta libera dalla cima dell’Everest fino in fondo alla fossa delle Marianne. La mia immaginazione srotola immagini e pensieri in quest’ordine: padre, madre, figli, lavoro, amici. Mi sento cadere ma il mio corpo è ancora lì, fermo, immobile. Grido. Aiuto. Questo è un episodio del mio passato. Mi sono messo a nudo, vi ho raccontato quello che ho lasciato alle spalle. Spero così di avere guadagnato la vostra fiducia, almeno quanto a sincerità“.

Il ruolo dei poeti

Un po’ Kerouac, un po’ Bukowski, un po’ Piero Ciampi. Ora Grignani sfonda il nostro guscio, catechizzandoci con fare perentorio. Ecco il ruolo del poeta:

“Ora vorrei dirvi quello che penso io del futuro. Fatemi partire da una massima che è un po’ che tengo nel cassetto: ‘Non date mai ad un poeta in mano una chitarra, vi racconterebbe quello che i poeti nascondono in fondo al fiume della tristezza, e il resto del mondo potrebbe scambiarlo per un grido di guerra‘. Ecco, questo siamo noi, il resto del mondo. Confusi, influenzabili, bramosi di trovare una risposta su cosa è il bene e cosa è il male. Passati anche attraverso una pandemia che non avevamo mai visto. Siamo alieni che non si riconoscono gli uni dagli altri”.

Le nuove generazioni

Nessuno si salva da solo, infine, nella parte finale del discorso di Gianluca Grignani a Le Iene. C’è una generazione cui affidare il cambiamento e che, miracolosamente, l’ha già fatto proprio e proprio per questo spesso si spaventa e smarrisce: Grignani la incoraggia, Grignani è l’amico.

“Poi c’è la Generazione Z che io ho ribattezzato V come Vittoria, quelli che identifico come una mano tesa. Quelli che non hanno mai avuto bisogno dei libri perché hanno sempre avuto un computer, quelli per cui è normale che un telefono faccia tutto tranne il caffè. Loro che vengono indicati come la generazione dispersa, quella che non ha radici. Invece è la prima generazione che non è stata educata col motto mors tua vita mea; loro non credono che tutto sia lecito, che la vittoria sia di uno solo e che vinca solo il più forte. È la generazione dell’inclusività, capace di rendere tutti uguali nelle differenze. La generazione del cambiamento, la famosa mano tesa verso il futuro, la mano del futuro. E da musicista voglio immaginare per loro, e per noi mi auguro, un finale diverso di una canzone famosissima degli Eagles, Hotel California. In questo finale, anziché rimanere incastrati in un futuro senza immaginazione come nella versione originale, ci troveremo tutti, nessuno escluso, di nuovo nel deserto. Liberi, con l’orizzonte davanti e con un inferno di fuoco ormai alle spalle. Ecco il mio augurio. Un finale diverso e un nuovo miraggio. Una nuova Hotel California. Hotel California 2022“.