Amazzonia, al Maxxi va in onda il saccheggio del bene comune per eccellenza: Gaia, la terra

Amazzonia è una trasfigurazione, una metamorfosi in atto. Una crocifissione lentissima di intere comunità che sai di dover fermare

Photo by Maxxi mostre exhibitions


INTERAZIONI: 191

È stata prolungata al Maxxi di Roma Amazzonia, la mostra fotografica di Salgado, frutto di sei anni di viaggi tra la foresta più estesa del globo e della convivenza con le popolazioni indigene autoctone.
Guidati dalle immagini iperrealistiche fino all’ onirico, immersi tra i suoni della Natura e i canti tribali, in una penombra che vuole riprodurre la luce filtrata del sottobosco, Amazzonia si trasforma in uno smarrimento nella selva di una coscienza antichissima, nell’ errore dell” uomo che ha creduto di liberarsi della Natura, perdendo sé stesso. E la consapevolezza che questa porzione del pianeta vivente si va trasformando in savana sotto l’ urto degli interessi dell’ agrobusiness, trasforma quei fruscii, quei canti in una nenia funebre. Chi entra nelle visioni potentissime di Salgado, non può non uscirne mutato. Un viaggio al centro della Bellezza e della Natura, un ritorno al passato ancestrale della nostra specie, quando tra noi, inermi, e lei, così lussureggiante e maestosa, l’equilibrio era sottile, ma saldo, e tra le sue braccia si emergeva e si annegava, ma si viveva accordandosi al suo ritmo. Là, tra luci e ombre, si fa strada la consapevolezza che Amazzonia, il cuore di Gaia, è in affanno, stretto tra le mani dei grandi latifondisti, che rappresentano solo l’1% della popolazione brasiliana ma detengono il 60% delle terre del Paese, ferito dalle aziende, dai bracconieri, taglialegna e minatori illegali.
Le tribù incontattate al di fuori delle aree protette- che vanno via via riducendosi, al pari della capacità di azione del Funai (la fondazione per la tutela degli indigeni) e di altre organizzazioni che Bolsonaro sta corrompendo e indebolendo,- sono oggetto di un vero e proprio genocidio.
Non è piacevole affacciarsi a distanza sull’ennesimo sterminio, e osservarlo mentre si va perpetrando in tempo reale. Ti chiedi se quei volti, se quegli alberi così maestosi che sembrano giganteschi crocifissi frondosi, effusivi di salvezza, siano ancora lì, vivano ancora. Se non siano già stati sradicati, sostituiti da campi di soia o da allevamenti di bestiame, se gli occhi delle comunità indigene, che vivono in simbiosi con quell’ambiente e lo sanno preservare, non siano stati estirpati. Occhi neri, bellissimi, da cui ti guarda e ti giudica la saggezza stessa della Terra. E tu, uomo occidentale, che pensi di essere al vertice di una civiltà che trova il suo coronamento nei laboratori biologici e nella bomba atomica, tu che ormai dipendi per più di otto ore al giorno da uno smartphone, e che da tempo non hai più un viso, né un pensiero che sia tuo, e un corpo che senta e viva le emozioni, senza trasformarle in flussi di dati, ti domandi cosa sia andato storto. Se il progresso non sia infine un altro artefatto ideologico, un feticcio intriso di sangue e violenza. Quali abissi di sapienza siano stati dimenticati nelle grandi metropoli chiassose, dove nastri d” asfalto fan pavimento alla terra, dove si cammina a testa china, a distanza e l’altro non è più il tuo prossimo, ma un pericolo.
Amazzonia è una trasfigurazione, una metamorfosi in atto. Una crocifissione lentissima di intere comunità che sai di dover fermare. Quella bellezza, quella saggezza amorosa, viene via via capitalizzata, quindi devastata, come lo è stato infine tutto, anche il nostro privato, il nostro corpo, capitale delle multinazionali del farmaco e delle armi. Ma se Amazzonia sarà sostituita dalla savana, dai seminati a foraggio, trivellata dall’estrattivismo indiscriminato, sotto l’egida di uno Stato che si pretende sovrano di un bene comune a tutta l’umanità, chissà, allora l’Impero del profitto, dopo aver conquistato il mondo cannibalizzerà se stesso, come sempre accade nella furia dell’accumulo che infine diventa follia distruttiva. Nella giornata della Liberazione, non si può prescindere da una riflessione su chi e cosa deve ancora essere riscattato. Su quali nuove forme di schiavitù siano imposte. E su come sia indispensabile una prassi politica di prossimità-perchè ormai l’agire privato diventa azione politica e fonte di un nuovo diritto, basta che non ci si lasci omologare, che non ci si conformi ( come accadde a Rosa Parks o a Gandhi)- che educhi alla salvezza dei Beni Comuni. I Commons, promossi da giuristi e denigrati da economisti, nella convinzione- magari mutuata a suon di benefits- che solo il privato possa ottimizzare e massimizzare le utilità. Di quali utilità parliamo? Soldi? Nelle casse di chi? Beni e servizi? Forniti da chi? Sia lo Stato, sia il privato, che ormai si vanno sovrapponendo, nella forma della grande corporation che occupa lo spazio del politico, stanno fallendo. La loro idea di umanità e di vita è mortale. Pensiamo al disastro del ponte Morandi o alle lotte per l’acqua della Bolivia. O al referendum dell’acqua del 2011, che il decreto Concorrenza, espressione del draghismo più ortodosso, ossia di una delle forme più estreme di gestione tecnocratica e incostituzionale del potere, tenta di aggirare.
O a Bolsonaro che appena insediato ha sottratto alla Funai la competenza sul processo di restituzione delle terre ai nativi e l’ ha attribuita al ministero dell’Agricoltura guidato da Tereza Cristina, leader del gruppo parlamentare che rappresenta i proprietari agricoli, a cui è affidata anche la concessione delle licenze ambientali nelle aree protette.
Ecco come uno Stato si appropria dei beni comuni quelli che producono utilità non riducibili al solo denaro, ma interi assetti di vita e relazioni, utilità che permettono di godere, a noi e alle generazioni future, di quei diritti umani fondativi della piena dignità del nostro essere, e non solo ideologia da sbandierare ad hoc. La cultura, la scuola, la sanità, l’ambiente, l’essere comunità, la democrazia, la Costituzione, …i beni comuni non possono diventare oggetto di appropriazione di nessuna multinazionale né ricadere nel demanio o dominio di uno Stato che la rappresenti . Sono beni di tutta la comunità che deve gestirli per sé e per le generazioni future in una forma inedita di partecipazione autenticamente democratica. E ne deve rivendicare la tutela, sia che si trovino dietro casa, o nel Sud America.

La foresta amazzonica è più di un ecosistema naturale, irrinunciabile per l’equilibrio climatico e ambientale, per la sua capacità di assorbire l’eccesso di anidride carbonica, ma ci dà la misura della potenza e della saggezza della vita, che non si può comprimere perchè più forte di qualsiasi sua forma, un elan vitale che si fa saggezza, sapere, biodiversità. Un bene comune che non può essere soggetto alla sovranità di pochi Paesi guidati da leader espressione del le lobby dei rurales, delle industrie estrattive e di qualsiasi altra multinazionale volta a massimizzare il ricavato.
Perchè è quello che sta accadendo. Come la deforestazione sta facendo strage di piante dalle potentissime virtù terapeuticher, quasi la Natura distillasse un sapere cosmico e lo spargesse a piene mani là dove più manifesto è il suo trionfo, così le conoscenze antichissime degli indigeni si vanno perdendo assieme alla strage silenziosa dei loro idiomi, in un’assimilazione forzata -quando non diventi sterminio tout court- che li priva di identità, di retaggio, di radici. Come accade a noi, privati di senso e di riti, e immersi nei simboli vuoti e demoniaci del mercato, dove le griffe e i like sostituiscono il sé.
Quei popoli, alcuni ancora incontattati e quindi inesistenti per chi volesse tutelarli, stanno morendo.
In Amazzonia sta andando in onda quell’eccidio di cui ci scandalizziamo quando le vittime ci somigliano di più, e non indossano piume di uccello o semplici tatuaggi, ma vesti, meglio se di foggia occidentale. Lo stesso dramma che ha eliminato i nativi americani, i tasmaniani, la maggior parte degli ebrei, degli africani. La stessa brusca alterazione di equilibri fragilissimi che legavano le tribù al territorio, le stesse guerre alimentate per l’appropriazione di risorse da parte dei più forti-o meglio armati- occidentali.
Accade, sta accadendo. Noi puntiamo gli occhi sull’invasione dell’Ucraina, sull’espansione della Russia (o della Nato?) a danno di noi europei, ripetiamo gli stessi clichè- democrazia, Stato sovrano- quando di fronte al bene comune non c’è sovranità che tenga. La stessa pace, di cui i signori della guerra si sono appropriati è un bene comune, come lo è il Welfare, fondato sulla fiscalità generale (si fa per dire ) e tagliato senza pietà per mancanza di fondi quando il bilancio dello Stato lo imponga, fino a far lettera morta del dettato costituzionale, che vuole uno Stato capace di rimuovere gli ostacoli alla realizzazione dignitosa della vita umana.
Là tra immagini che sembrano risucchiarti e quei volti che ti guardano al di là di qualsiasi disperazione, si leva il lamento ininterrotto che il potere economico-politico vuole ammutolire. Tutti, di tutte le comunità indigene, ma anche molti di noi, ripetono: ci stanno uccidendo, ci stanno privando della nostra terra, della nostra lingua, delle tradizioni, ci stanno cacciando come animali inseguiti da una muta di cani; ma noi siamo pronti a morire”. E la loro morte, come la scomparsa della foresta amazzonica, non potrà essere l’ennesimo capitolo da studiare sui manuali di storia, su cui rattristarsi per passare bellamente oltre. Questa estinzione ci riguarda tutti, come specie, come esseri umani che non possono diventare solo scambio, denaro, profitto, morte. Abbiamo bisogno del polmone della Terra e di tornare a respirare coi nostri polmoni, a sentire col nostro cuore.