Caos di Fabri Fibra e l’età anagrafica come effetto collaterale di due anni di pandemia

Ascoltando le tracce di questo nuovo lavoro si ha la sensazione, duplice, che il rapper e il rap, genere che il nostro pratica ai massimi livelli, come forse non gli capitava da almeno un decennio, siano ormai divenuti di mezza età

Fabri Fibra

Photo by commons.wikimedia.org - Andrea Di Quarto


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Per qualche tempo, neanche troppi anni fa, era diventato un must dire che l’adolescenza si era allungata. A un certo punto si cominciò a dire, con una certa preoccupazione, che era aumentata a dismisura. Che a quarant’anni ancora c’era chi teneva comportamenti adolescenziali, viveva in casa dei genitori, non aveva progettualità per il futuro, tendeva a una certa instabilità emotiva e sentimentale. Del resto erano anche gli anni dei bamboccioni, dei choosy, tutti termini usati da chi era preposto alla guida del paese, nonché quelli delle difficoltà estreme a trovare lavoro, quindi a affrancarsi dalla famiglia di origine. Per contro invecchiare ha cominciato sempre più a fare paura, i prodotti antietà hanno avuto un’esplosione eccellente, e benché l’età media si fosse sensibilmente alzata e in teoria gli anziani avrebbero dovuto essere coccolati anche dal mercato, è come se fossero di colpo scomparsi dalla narrazione ufficiale, narrazione che all’epoca, parliamo di neanche troppo tempo fa, nessuno chiamava ancora narrazione, fortunatamente. Giovani che sono costretti a rimanere giovani perché impossibilitati a trovare un posto nel mondo degli adulti. Adulti che rimandano a data da destinarsi il loro ingresso nella mezza età. Anziani che diventano a loro modo invisibili, fuori dall’immaginario, se non per due o tre figure iconiche da reiterare allo sfinimento.

Normale si tendesse a trovare una giustificazione quasi antropologica a una condizione in realtà assolutamente sociale.

Del resto la percezione dell’età è da sempre molto legata all’epoca in cui si vive, non dico niente di nuovo, e senza dover tornare indietro nei secoli, basta pensare come al tempo dei nostri nonni avere un figlio in quell’età che oggi coincide spesso con la prima gravidanza, diciamo tra i trenta e i quaranta, fosse considerato qualcosa di cui vergognarsi, come un peccato compiuto e da tenere nascosto il più a lungo possibile.

Ognuno di noi, immagino, avrà aneddoti a riguardo. Una nonna che ha passato i nove mesi in casa, perché non voleva far sapere di essere incinta, o un figlio o una figlia arrivato magari dopo qualche anno dai precedenti, quindi considerato a buon ragione “una sorpresa”, esibito alla stregua di un miracolo, roba da intercessione dello Spirito Santo. Su tutto anche il principio che essendoci una scolarizzazione diversa, e anche un accesso al mondo delle università decisamente ridotto, o più che altro un ingresso al mondo del lavoro decisamente più a ridosso del compimento della maggiore età, tendenzialmente già intorno ai vent’anni si cominciava a guardare alle persone come adulte, con un lavoro, una casa, una famiglia, normale che poi si arrivasse anche alla mezza età e alla terza età.

A rivedere certe foto di quando eravamo bambini viene da sgranare gli occhi come il Gatto con gli Stivali di Shrek, e un ultracinquantenne che citi un film per bambini è già sintomo di quel che sto parlando, non è che le citazioni arrivino così, a caso, perché vediamo noi bambini con a fianco i nostri genitori, assai più giovani di noi oggi, vestiti come fossero i nostri nonni, da adulti fatti e finiti.

Lo ripeto spesso, in casa dei miei c’è una parete in una piccola stanza, che loro hanno in qualche modo dedicato alla preghiera, mio padre è diacono, i miei sono una coppia molto credente, c’è una parete di questa stanza completamente ricoperta di foto di famiglia, dai trisavoli fino ai nostri figli, miei e dei miei fratelli. Foto che, ovviamente, risentono dell’epoca in cui sono state fatte, ce ne sono di antichissime, quasi dei quadri a quelle moderne, fatte con lo smartphone. In una c’è mio padre di pochissimi anni, credo neanche quattro, perché poi sarebbe scoppiata la guerra, mio padre è del ‘36, a spasso con mio nonno Mario, nella piazza principale della mia città. Mio padre ha i pantaloni corti, entrambi indossano un paltò, mio nonno ha anche un cappello a larghe falde, tipo Borsalino. Vedendo quella foto ho sempre pensato che mio nonno lì fosse anziano. Così sembra. Anziano magari no, ma comunque non giovane, e neanche della mia età. È un uomo maturo, vestito da uomo maturo. Un adulto a tutti gli effetti. Facendo due conti doveva avere circa quarant’anni, al massimo quarantadue. Aveva già combattuto nella prima guerra mondiale, aveva già rinunciato a un posto sicuro non avendo voluto prendere la tessera del partito fascista. Un adulto, appunto. Io vado in giro con felpe, jeans e scarpe da tennis, ho i capelli lunghi spesso raccolti in code disordinate. Cito il Gatto con gli Stivali di Shrek, ma potrei arrivare comodamente anche alle ultime produzioni della Pixar o della Disney. Ho superato i cinquanta, e quando avevo l’età di mio nonno in quella foto sono diventato per la terza e quarta volta, vedi i gemelli, papà. Non mi sono mai ritenuto un ragazzo, da che vivo lontano da casa dei miei, ma so che quando mi definisco un uomo di mezza età la gente tende a non prendermi sul serio, come se stessi giocando, scherzando. Sapete come funziona, no, dici una cosa che vuole suonare a effetto, come quando mi gioco la carta dell’essere una rockstar, e la gente sorride, pensando che appunto stia giocando. Non lo fa sguaiatamente, perché poi magari non stavo scherzando e ha paura di offendermi, ma in cuor suo pensa che io stia giocando, perché non sono una rockstar, e non sono neanche un uomo di mezza età. Anche perché, lo fossi, parlo dell’età, non della rockstarritudine, lo sarebbero presumibilmente anche loro, tendo a intrattenere rapporti prevalentemente con miei coetanei, credo un po’ come tutti o come tutti quelli che non fanno professioni che prevedano altro, tipo gli insegnanti o quelli che lavorano nelle RSA.

Sono in realtà un adulto, nato nel Novecento e diventato uomo nel Novecento, ho delle responsabilità che non mi permetterebbero anche volendo di fingermi altro da me, un adolescente che non vuole saperne di crescere, situazione che un tempo avremmo bollato con la Sindrome di Peter Pan. Senza stare a tirare in ballo altre teorie antropologiche, materia che mi affascina ma nei confronti della quale non ho competenze se non molte letture fatte in autonomia, credo che il pericolo esterno che in qualche modo ha tenuto, e ancora tiene, in scacco la mia famiglia, come il resto del mondo, ha evidenziato questo paradosso. Una situazione di instabilità protratta nel tempo, instabilità le cui cause non dipendevano in alcun modo da me o che comunque non avrei potuto in alcun modo aggiustare, anche volendo, rimboccandomi le maniche, come magari può capitare in quei momenti in cui subentrano problemi economici, o legati ai sentimenti, ha in qualche modo cristallizzato il mio essere un uomo di mezza età, un adulto, con genitori anziani, lontani, e figli cui provvedere, e non parlo certo solo del pane e delle rose. Niente di patriarcale, intendiamoci, potrei virare il discorso al femminile e queste mie parole le avrebbe serenamente potute scrivere mia moglie, a parte la faccenda delle felpe e dei jeans. Non ne faccio una questione di maschio alpha che deve proteggere il suo branco, parlo proprio di prendersi cura, assumersi responsabilità di fronte a variabili ignote, provare, per dirla con meno perizia, a metterci su una pezza.

Per contro sento di miei coetanei che scappano, o mettono in campo strategie di mimesi camaleontiche per non essere trovati, si parli di matrimoni come di lavoro fisso, per non dire della residenza. Un florilegio di separazioni, alla faccia che il lock down avrebbe portato tanti neonati, di gente che decide di lasciare il certo per l’incerto, lavorativamente parlando, di città abbandonate alla ricerca di collocazioni più a misura d’uomo, mai sentiti più borghi che vendono case a pochi euro in cambio della presenza fissa dei nuovi locatari. Il tempo passa e non tenerne conto è tipico dei giovanissimi, questa una lettura pret-a-porter, se si deve prendere decisioni radicali meglio farlo prima che sia troppo tardi.

Io vivo la mia vita di prima, se possibile, e sento ogni minuto di questi oltre cinquant’anni. Ogni secondo.

Che il Covid stia avendo come effetto collaterale, questo sì ascrivibile al cosiddetto Long Covid, lo dice uno che non l’ha preso o che se l’ha preso l’ha preso a sua insaputa, senza sintomi, quello di aver preso ulteriormente coscienza della mia età anagrafica non l’ho sentito dire da nessuno dei virologi in televisione, e dire che hanno parlato tantissimo, non sempre dicendo cose ascrivibili al campo della scienza.

Tutto questo lungo discorso per dire che è uscito Caos, il lungo atteso album nuovo di Fabri Fibra, primo lavoro per la Sony. Un lavoro che ci mostra il rapper di Senigallia in splendida forma, il che non significa che ce lo mostri particolarmente pimpante, tutt’altro, semmai pensoso più del solito, anche arrabbiato più del solito, seppur sempre più con se stesso, e mai come ascoltando le tracce di questo nuovo lavoro si ha la sensazione, duplice, che il rapper e il rap, genere che il nostro pratica ai massimi livelli, come forse non gli capitava da almeno un decennio, e che comunque veleggia sereno verso i cinquant’anni di vita, esattamente come il nostro, anno più anno meno, siano ormai divenuti di mezza età. Non più giovani, quindi, e seppur non ancora annoverabili tra gli oggetti di modernariato comunque maturi, attempati, di quelli, appunto, cui guardi come si guarda agli adulti.