Anatomia di uno Scandalo di Netflix è un trattato sul consenso e l’arroganza del privilegio

La miniserie Anatomia di uno Scandalo di Netflix affronta su diversi piani il tema del consenso nei rapporti sessuali, mettendo sotto accusa l'ignoranza del privilegio maschile

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Anatomia di uno Scandalo è appena arrivata su Netflix: coi suoi 6 episodi che si fanno divorare uno dietro l’altro, potenzialmente anche in una sola serata come fosse un lungo film, è già sul podio delle serie più viste in Italia. Adattamento del romanzo di Sarah Vaughn del 2018, è l’ennesimo format di David E. Kelley (qui a lavoro con Melissa James Gibson) che nelle orme segue lo stile di Big Little Lies e The Undoing e nei temi affronta quanto di più attuale nell’agenda del dibattito pubblico.

La trama di Anatomia di uno Scandalo è imperniata sulle vicende legali di un ricco politico dei Tories, James Whitehouse, ministro di un governo conservatore e legato al premier da un rapporto d’amicizia ventennale oltre che dalla stima politica: la sua carriera e il suo matrimonio vengono stravolti quando emerge la sua relazione con una giovane ricercatrice parlamentare, Olivia Lytton, ma il peggio deve ancora venire: la donna lo accusa di averla stuprata nel loro ultimo incontro dopo la fine della loro storia di cinque mesi. Il processo che ne seguirà, in cui la pubblica accusa è rappresentata dall’integerrima pm Kate Woodcroft, vedrà alla sbarra Whitehouse e in tribuna a sostenerlo sua moglie Sophie, divisa tra la volontà di credere nella sua innocenza e il dubbio sulla sua potenziale colpevolezza. Ad interpretare i personaggi principali è un cast particolarmente convincente, in cui Sienna Miller interpreta Sophie Whitehouse, la moglie tradita che resta al fianco del marito interpretato da Rupert Friend, mentre Michelle Dockery di Downton Abbey è l’avvocato dell’accusa che decide di sostenere la causa intentata da Olivia, interpretata da Naomi Scott.

Sienna Miller, parlando di Anatomia di uno Scandalo, ha affermato che il dramma evidenzia l’ignoranza” di quelle persone incapaci di realizzare il loro status di privilegiati e di tenere in considerazione le lotte di coloro che non sono nati nelle stesse condizioni di vantaggio nella vita. E Anatomia di uno Scandalo è effettivamente questo: l’intera miniserie, sei episodi da meno di 50 minuti ciascuno, gioca non tanto sull’enigma della presunta colpevolezza del protagonista, che pure sembra il filo conduttore iniziale, quanto sul fatto che un uomo politico, ricco, conservatore, laureato ad Oxford ed esponente del governo del Paese, sia totalmente incapace di realizzare quale sia il limite a ciò che piò legittimamente ottenere. Chi è abituato a considerare la vittoria come un’attitudine personale – e a trasmettere il concetto ai propri figli, come avviene nella serie – difficilmente identificherà come un problema, o peggio un reato, il fatto di superare le resistenze altrui di fronte al raggiungimento del proprio obiettivo: per il protagonista è inconcepibile essere accusato di stupro solo perché non ha mai avuto bisogno di chiedere ad una donna il consenso ad un rapporto sessuale, è semplicemente abituato a considerare normale l’approccio diretto, aggressivo e prevaricatore come se fosse nel suo diritto disporre del corpo altrui senza sentirsi in dovere di chiedere il permesso.

Ci sono due livelli di Anatomia di uno Scandalo che si susseguono nel corso della serie e che si integrano l’un l’altro, realizzando un affresco piuttosto interessante della subordinazione dei diritti delle donne alla mentalità del connaturato privilegio maschile di volerne stabilire i limiti e l’applicabilità. Se gran parte di Anatomia di uno Scandalo ruota intorno all’esercizio legale di dirimere una vicenda in cui c’è un’accusatrice e un accusato, ciascuno con una versione opposta della storia e un racconto che definisce diversamente la questione del rapporto consensuale, negli ultimi due episodi il focus diventa un altro: il problema di fondo da affrontare non è solo come si esprima il proprio assenso ad un rapporto sessuale o come questo debba essere inteso dal partner, quanto un tema più profondo, ovvero come molti uomini non lo ritengano necessario, lo diano per scontato o non comprendano nemmeno che oltrepassare il limite del consenso sia perseguibile come stupro. Non una questione di ingorantia legis, quanto di ignoranza del diritto di autodeterminazione delle donne, che pure in una situazione di ambiguità, nel mezzo di un rapporto iniziato consensualmente o in conseguenza di un repentino cambio di prospettiva, possono scegliere di interrompere un atto sessuale in qualsiasi modo e momento. Una questione di forma mentis forgiata da secoli di patriarcato e di normalizzazione degli abusi (sessuali, fisici, psicologici) sulle donne, che nel caso di specie si incrocia con la corazza sociale garantita dal privilegio: nato tra gli agi di una classe alta, cresciuto come un predestinato al successo, abituato sin dall’infanzia a disporre delle regole a suo piacimento, anche infrangendole, pur di raggiungere i propri scopi, la mentalità di James Whitehead è impregnata di un’incrollabile fiducia in se stesso e di quella presunzione maschile che non ammette rifiuti. Di conseguenza, non riesce nemmeno a porsi il dubbio rispetto a quanto le proprie azioni siano abusive. Ad uno sguardo superficiale questa incapacità potrebbe essere interpretata come una scusante: la rivoltante abitudine di addebitare alla vittima una mancanza di reazioni e dichiarazioni esplicite durante la violenza (“non ha detto no, non ha urlato, non ha colpito l’aggressore” e potremmo continuare all’infinito) è l’arma più comunemente usata nei processi per sminuire l’accusa e ridimensionare la gravità dei fatti.

Succede lo stesso in Anatomia di uno Scandalo, in cui tuttavia, ad una visione più attenta, si coglie un secondo livello di lettura, ovvero l’invito alla riflessione su quanto la violenza di genere sia frutto di una forma mentis sociale largamente diffusa e finora approvata, oltre che di un’attitudine personale. A questo proposito, la battuta di Anatomia di uno Scandalo che racchiude l’intero senso della serie è nell’episodio 4, quando Sophie parla con la sua baby-sitter (un confronto che a molti sarà sembrata una citazione del passato di Sienna Miller e del celebre caso del tradimento di Jude Law). Ormai dubbiosa sull’innocenza del marito, Sophie chiede alla ragazza se ritenga che suo marito sia una brava persona, un uomo un po’ assertivo ma non certo un bruto, ricevendo conferma di questo dalla baby-sitter. Lo scambio termina con un emblematico botta e risposta tra le due: “È un brav’uomo“; “È un uomo“.

Anatomia di uno Scandalo riesce ad essere sia un legal che un political drama, con le implicazioni della ragion di stato e del dibattito mediatico che si insinuano in situazioni del genere diventando un ostacolo alla ricerca della verità giudiziaria. E nella sua parte squisitamente legal, diventa un’impietosa testimonianza di quanto sia atroce per le vittime di stupro subire un processo in cui sono costrette a rivivere il loro dramma, vedendosi messe in discussione nelle intenzioni, nelle dichiarazioni, nelle reazioni, persino nell’abbigliamento, di fronte ad una giuria che deciderà del proprio dolore. Ma la serie è soprattutto un dramma familiare, in cui spicca il personaggio di Sophie (e l’interpretazione di Sienna Miller, che un caso mediatico simile l’ha vissuto sulla propria pelle nel 2005), chiamata a fare un percorso verso la consapevolezza delle responsabilità della persona amata, un lavoro doppio il suo, visto che l’accusato non è capace di farlo su se stesso. Nonostante il colpo di scena radicale dell’episodio 4 – una svirgolata poco credibile così come meno efficaci sono i flashback del periodo universitario dei protagonisti – l’impianto generale della serie non solo funziona, ma la rende anche un piacevole oggetto da binge-watch da cui è difficile staccarsi prima di arrivare alla conclusione.

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Anatomia di uno scandalo
  • Vaughan, Sarah (Author)