Sundown, non basta un pessimismo di maniera per fare un film d’autore

Tim Roth è un uomo facoltoso in vacanza che compie scelte inspiegabili. Dopo “Nuevo Orden”, il messicano Michel Franco sforna un altro teorema sconsolato sull’animo umano. Ma le ambizioni sono al di sopra dei risultati. Dal 14 aprile in sala

Sundown

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Sundown è il settimo lungometraggio del regista messicano Michel Franco, un fama autoriale costruita con la partecipazione al festival di Cannes, dove vinse un paio di premi nella sezione Un Certain Regard, e alla Mostra di Venezia, dove nell’edizione pandemica del 2020 ottenne con Nuevo Orden il Gran Premio della Giuria – tra i mugugni di tanti addetti ai lavori, scettici verso questo controverso apologo sui conflitti di classe in cui un gruppo di rivoltosi disperati prende in ostaggio i membri dell’alta società durante un matrimonio, causando delle reazioni che porteranno a un colpo di stato militare che condurrà a un regime ancora più duro e violento.

Seppure in forme meno estremiste anche Sundown, passato in concorso a Venezia 2021, ruota intorno a tematiche almeno in parte simili. Nella vacanziera Acapulco, terra di forti contraddizioni per l’esistenza di grandi disuguaglianze sociali, giungono i Bennett, eredi di una dinastia che ha costruito una colossale fortuna col commercio dei maiali. La famiglia è composta da Alice (Charlotte Gainsbourg), che gestisce l’impero, i suoi due figli e il fratello Neil (Tim Roth, già nel precedente film di Franco, Chronic). Dopo poco giunge la sconvolgente notizia della morte della madre di Alice e Neil, e tutti i familiari sono costretti a rientrare in gran fretta a Londra. Tutti tranne Neil, il quale resta ad Acapulco, con quella che si dimostrerà essere una scusa, ossia lo smarrimento del passaporto che gli impedirebbe di viaggiare.

Una volta solo, l’uomo abbandona l’esclusivo resort in cui era alloggiato coi parenti e trova ricetto in uno squallido alberghetto delle zone popolari di Acapulco. Bighellona sulla spiaggia, beve birra, comincia a frequentare una ragazza del posto, Berenice (Iazua Larios). Alice cerca di richiamarlo ai doveri legati al suo lignaggio. Lui rifiuta, scegliendo di rinunciare alle sue partecipazioni azionarie in cambio di una pensione da godersi per il resto dei suoi giorni, così sembrerebbe, nel paradiso messicano. Però la tragedia, violenta e inattesa, è dietro l’angolo.

Sundown ha una struttura scheletrica, che fatica addirittura a giungere all’ora e venti di durata. Michel Franco dispone una tavolozza sulle prime anche intrigante, nell’ambiguità della luce meridiana che si deposita sui personaggi, accennando alle disparità sociali e soprattutto focalizzandosi sull’enigmatica (all’apparenza) mancanza di volontà di un uomo che, semplicemente, sembra aver deciso di lasciarsi vivere.

Il problema sorge quando, a partire da questa embrionale cellula narrativa, la regia vuole ricavare riflessioni più ampie sull’animo umano e la società contemporanea. Nella prima sequenza del film vengono inquadrati insistentemente in primo piano dei pesci boccheggianti. Non è l’unico simbolismo, dato che, approfittando della professione esageratamente metaforica dei Bennett – che, non dimentichiamolo, si sono arricchiti coi mattatoi, insomma facendo mercato della violenza più efferata – ogni tanto Neil, vede apparire di fronte a sé maiali orrendamente macellati, non sappiamo se realmente o nelle sue allucinazioni.

Siamo forse noi quei “pesci fuor d’acqua”, quei poveri animali dilaniati? Per quale motivo Neil ha deciso di cambiare vita? Ha forse scelto una via verso l’autodistruzione, come punizione per i suoi privilegi? O magari, invece, ha deciso di approfittarne fino in fondo, concedendosi con un robusto vitalizio quell’inazione assoluta che solo l’autentica ricchezza può consentire?

Nella sua aria presuntuosa da film d’autore amarissimo, Sundown in realtà non pone né domande precise né azzarda risposte compiute. Come il suo protagonista neghittoso e stazzonato, perennemente in ciabatte e con una bottiglia in mano, il film procede opaco senza una vera lucidità narrativa, abbozzando temi che non trovano sviluppo. Esattamente come i personaggi, che restano indefiniti, nel balbettio di dialoghi appena accennati – ne è una dimostrazione la “relazione” che s’instaura tra Neil e Berenice, un’avventura estiva nella quale i due non hanno, in sostanza, nulla da dirsi o condividere.

Il film punta da un lato su di una messinscena impalpabile, cadenzata dalla ripetitività dei motivi della luce del sole, gli scenari marini, l’apatia insistita del protagonista. Poi questa ripetitività ipnotica viene fratturata dalle didascaliche allegorie animali e le ancora più didascaliche esplosioni di violenza, che dovrebbero spingere a trarre riflessioni pessimiste e disilluse sull’animo umano – sia i ricchi che i poveri non ne escono molto bene da Sundown.

Michel Franco però non ha la caratura di quei cineasti entomologi alla Haneke, Lanthimos, Ulrich Seidl, che costruiscono i loro teoremi sconsolati sulla bruttezza e sull’egoismo degli uomini grazie alla forza di uno stile visivo spietato e coerente. Il regista messicano resta nel piccolo cabotaggio dell’intuizione appena accennata, da cui ricava immotivatamente conclusioni di ordine troppo generale. Basterebbe, per giudicare la fragilità del suo cinema, vedere alla fine qual è la famosa ragione per cui Neil ha deciso di compiere le sue scelte. La più banale che si possa immaginare.

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