Caro Zero, ti vogliamo bene ma hai rotto i coglioni

“Atto di Fede”, un doppio album di una pesantezza insostenibile, che francamente non si capisce dove vada a parare e di cui non si coglie il senso se non l'ennesima conferma che Zero fa quello che gli pare

Reggio Emilia / Italy - 11/20/2019: The singer Renato Zero at the Griminelli & Friends concert


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Vogliamo bene a Renato Zero. Ci siamo esaltati con Renato Zero. Abbiamo immaginato di essere “più su” con Renato Zero. Siamo cresciuti con Renato Zero. Siamo invecchiati con Renato Zero. Ne abbiamo apprezzato, a volte sopportato, i cambi di pelle, dal mattocchio che diceva cose di buon senso al predicatore che, magari straparlava, dall’allegria come antidoto alla vita alla cupezza la vita la gravava; abbiamo imparato a rispettare la sua confusa autonomia, quel far quello che voleva, autoproducendosi, non rendendo conto a nessuno, neppure, ed è un valore aggiunto, alle aspettative dei sorcini; abbiamo infine reso merito a quella esigenza di raccontarsi senza pudore, senza limiti, nelle sue depressioni, le risalite, gli scarti d’orgoglio e d’umiltà. Vogliamo bene a Renato Zero, ma non lo capiamo più. Da una quarantina d’anni, smaltita la fase arrembante e meravigliosamente pazza, ci sentiamo ammollare prediche non richieste, moniti superflui, considerazioni sempre più telefonate. L’artista che mancava, che aveva sdoganato con due zatteroni e un coraggio inaudito la confusione sessuale, esistenziale, quell’idea di libertà contagiosa, incoraggiante, si è legato a un cristianesimo sempre più medievale, cupo, lugubre, da “Nome della Rosa”. E contraddittorio: riaccendi i sensi ma pentiti, vivi felice ma in punta di rimorso, guarda cosa sei, rendi conto a Dio, ma quale Dio? Il suo, perché bisogna fidarsi di Renato, lui ha avuto tutte le esperienze, tutti i perdoni e adesso ha tutte le risposte.
Ecco, il nuovo “Atto di Fede” in uscita venerdì, la Messa cantata a lungo annunciata, forse temuta, è questo: il Vangelo secondo Renato, un’opera di pesantezza insostenibile, che francamente non si capisce dove vada a parare e di cui non si coglie il senso se non l’ennesima conferma che Zero fa quello che gli pare; bravo, bene, ma di certo è un altro Zero o meglio non c’è più nessuno Zero, c’è un borghesissimo Renato Fiacchini, di quelli pedanti, dentro e fuori dalla sagrestia, sempre pronti a citarti, per lo più ad minchiam, un passo della Bibbia. Ed è inutile che lui si ostini, nelle note di copertina, a rivendicare quell’anima trasgressiva e irriverente: scusa, ma non c’incanti più: che c’è qui di scomodo, di anticonformista? Che c’è in questi 37 capitoli, o passi, o salmi, o salmì che musicalmente non sono altro se non il seguito del controverso Zerovskji e nei contenuti non fanno che ripescare tematiche ampiamente logorate in mezzo secolo di sempre meno luminosi sorrisi e canzoni?
Qui, meglio precisarlo subito, Zero canta poco; spesso viene affiancato o sostituito, proprio come nel micidiale spettacolo della “Stazione Terra”, da altre voci, impostate, enfatiche. È un doppio album concepito come un musical, ma beato chi arriverà in fondo a questo spreco di fagotti, clarini, organi, arpe, mandole, voci chiesastiche, cori mistici, gorgheggi gregoriani. Nessun ritmo, nessuna chitarra elettrica, un lavoro che vuol essere rigoroso, spirituale, ma fatalmente diventa un mastodonte. Ingombrato da una sequela di interventi da compagni di cenette quasi tutti pescati dal pascolo paraguru grillopiddino/renziano, che è un pascolo di potere: Walter Veltroni, Lella Costa, Oscar Farinetti, Domenico De Masi (il sociologo a 5 stelle della decrescita felice), Luca Bottura, Antonio Gnoli, Mario Tronti (zio di Zero, cofondatore dei mitici Quaderni Rossi, operaismo duro e puro), l’immancabile don Antonio Mazzi, riabilitatore di stragisti familiari e di farabutti mediatici, Giovanni Soldini, Sergio Castellitto, Aldo Cazzullo, Alessandro Baricco, Marco Travaglio (anche lui? Sissignore, anche lui, il finto destrorso che ha rifatto Lotta Continua). Sporadica eccezione, l’intellettuale conservatore Pietrangelo Buttafuoco, così il pluralismo è assicurato.
Che cerca Renato? Sponde politiche per Fonopoli? Va’ un po’ a sapere, ma in fondo non ci importa. E meno ancora ci preme di scoprire i pensierini d’insostenibile leggerezza degli illustri ospiti, non scevri da una fastidiosa polvere d’ipocrisia (Travaglio, Rasputin di Conte, amplificatore delle Procure, che parla di valori proprio non si può sentire, io almeno non ce la faccio). Ma chi se ne frega delle strampalate analisi di De Masi, delle elementari fregnacce di un Bottura che disperatamente si crede un umorista, dei fricantò moralistici di Farinetti? Dell’agenda globalista piddina tracciata dal navigatore Soldini, la CO2, Greta, i mari che crepano, l’altro mondo possibile? E dai, che per un ingaggio, un affare fareste tutti peggio che Putin in Ucraina! Tutti lì a rimescolare nel pentolone di un cattolicesimo arruffato in cui buttare le donne, che sono il meglio, i migranti, che noi ricchi (noi ricchi?) non accettiamo per gelosia, i sani tempi in cui non c’erano i telefonini ed eravamo tutti santi. Allora, retorica per retorica, qualunquismo per qualunquismo, caro don Renato, a me proprio oggi – ed è un me trascurabile in sé, ma rappresentativo di 60 milioni di persone, tranne i pochi amici tuoi – è arrivata una bolletta di 430 euro di riscaldamento per due mesi su una casa di 55 metri quadri: ed è solo un debutto; a voi, a te le bollette passano e manco le vedi, spendi di più per una cena al ristorante e di magioni ne hai dieci, quindici, oltre un parco macchine che fa invidia a una concessionaria e a svariate altre proprietà che non stiamo qui a elencare. Ammetterai che fa girare un po’ i coglioni il sermone sul consumismo, sul mondo che non va, sulla internet che ci allontana e tutto quello svolazzare di anime, di miracoli, di bontà e di perdoni e di pentimenti di preghiere che risolvon tutto. Ma se quando, per dieci anni, avevi perso il successo, cioè la ricchezza, non la sopravvivenza, dico la ricchezza, ti sentivi cacciato dall’Eden e “incontra il buio la fede”.
“Parla con Dio”, mi ordini tu, e a me, che sono credente, che lo cerco ogni giorno, per lo più senza trovarlo, viene in mente dr House: “Se tu parli con Dio sei credente, se Dio parla con te sei malato”.
Ci vuole rispetto in queste cose: non l’invadenza felpata di chi si sente in dovere di tracciarti la strada. “Grazie Signore” lo puoi cantare tu, e buon pro ti faccia, la vita ti ha detto bene, ma a chi tira il fiato coi denti, e siamo sempre di più, non basta il tuo discorso da prete; e se per l’ennesima, davvero l’ennesima volta mi gorgheggi “mai più silenzi fra di noi”, io sono autorizzato a pensare, anzi a credere, già che siamo in tema, che davvero stai raschiando un barile già prosciugato, che non hai niente da darmi. E allora anche per le ugole vale Wittgenstein: se non si ha niente da dire, meglio tacere, e comunque quel che si ha da dire lo si può dire in due parole, non in due dischi.
Ma perché i cantanti a un certo punto si son messi in testa di essere Padreterni? Perchè mi parlano d’Iddio come da pari a pari? Perché più diventan vecchi e più grondano messaggi come neanche un adolescente il seme? Amen di qua, gloria di là: c’è pure il ripescaggio della “Ave Maria” che sfiancò la platea di Sanremo nel 1993: però ancora più lenta, più estenuante, più dolente. Per chi la sente. Non c’è un istante di gioia qui, non un sollievo, una luce, solo ombre di torce che sembrano bruciare nella pace inquieta delle fortezze inaccessibili, coperte di nevi, unica compagnia un “Dio che vede e soffre con te”. Soffriamo già abbastanza, cerchiamo un Dio che ci faccia sorridere con lui, possibilmente senza passare prima dall’inferno. Perché abbiamo passato tutta la vita all’inferno e forse qualcosa di diverso ce la meritiamo pure noi e senza farci inghiottire dall’antimodernismo posato, dalla critica del benessere che ci aveva già rotto le palle con Pasolini e Baudrillard (quale benessere, ‘a Zero: quale cazzo di benessere?), dallo spiritualismo liofilizzato, e francamente irritante, che rantola qua, in queste due ore che non finiscono mai. Fossimo in America, il recensore potrebbe chiudere con uno sgraziato “state alla larga da questo disco”. Ma qui nessuno è Lester Bangs e ci limitiamo a giurare che è già stato un Atto di Fede ascoltare quest’ultima zerologia, ma, per l’amor di Dio, la cosa non si ripeterà perché di ragioni per sentirci sul cornicione, scegliendo se tirarsi indietro o lasciarsi volare giù, ne abbiamo già a fotterci.