Non riesco a trovare la strada di casa

Ho passato qualche ora riascoltando Can’t Find My Way Home di Steve Winwood in loop, andandomi anche a cercare le versioni meno note. Non che siano sempre dei capolavori, ma un classico è un classico

Photo by Brian Marks - wikipedia


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Guardi al PSG, Paris Saint Germain per coloro che sono poco attrezzati a parlare di calcio, e ti dici che i supergruppi non hanno alcuna ragion d’essere. Perché certo, vedere nello stesso palcoscenico tanti nomi portatori di un tale talento è, sulla carta, qualcosa di incredibile, una apoteosi di spettacolarità, ma poi nei fatti tutto questo non ha uno sfogo, l’immagine di Messi steso a terra a fare il coccodrillo dietro la barriera, per i poco attrezzati di cui sopra il coccodrillo è l’uomo che ultimamente si stende dietro la barriera durante i calci di punizione, così da permettere ai suoi compagni in barriera di saltare, onde ostruire la porta a colui che batterà la punizione, il coccodrillo lì a indurlo a non fare il furbo e batterla rasoterra, sapendo che la barriera salterà, il nome preso dalla somiglianza della posa con le braccia lungo i fianchi, così da evitare punizioni o rigori per falli di mano, l’immagine di Messi steso a terra a fare il coccodrillo dietro la barriera qualcosa di talmente tanto malinconico da indurmi a mettere sul piatto dello stereo un vecchio album di Maria Betania e vagheggiare della mia terra natia, per noi dire, tornando ai supergruppi forti su carte e non altrettanto forti nei fatti, della faccenda dei troppi galli dentro il medesimo pollaio è spesso più vero di quanto non si tenda a credere, andate in un pollaio o in uno spogliatorio per credere.

I fatti sono ineluttabili, la somma di tanti talenti non porta a nessun risultato degno di nota. O non porta risultati rilevanti quasi mai.

Il discorso, in genere, vale anche nel mondo della musica, dove quando capita che artisti di prima grandezza decidono di mettere insieme le loro forze, in genere, quel che ne esce è al massimo un compitino portato a casa con mestiere ma senza un briciolo di cuore. A volte neanche quello.

Inutile star qui a fare nomi e esempi, sarà capitato a tutti voi di rimaner delusi da questo o quel supergruppo, specie se siete tra quanti ascoltando musica si orientano verso il mondo del rock.

Mondo del rock che però, a ben vedere, offre anche alcune delle eccezioni a questa regola, a volte per manifesta intenzione di andare a giocare uno sport diverso da quello presumibile e presunto dai fan, penso al megaprogetto Oysterhead, che vedeva uno a fianco all’altro tre mostri come Stewart Copeland, Les Claypool e Trey Anastasio, se devo star qui a spiegarvi di chi sto parlando, beh, Houston, abbiamo un serio problema, altre volte, semplicemente, perché pur standosi evidentemente sul cazzo umanamente, questo ci racconteranno le cronache, la miscela creata in studio e sul palco è di quelle talmente esplosive da non lasciare feriti o ostaggi. Penso a Crosby, Stills, Nash & Young, chiaramente, o agli Eagles, per fare due nomi che vanno a pescare dallo stesso fulgido stagno, la West Coast, ma tra anni sessanta e settanta, dai Byrds agli Yardbirds c’era davvero l’imbarazzo della scelta.

E proprio da una band che con quest’ultima ha qualcosa a che fare vorrei partire, da quei Blind Faith nati dall’incontro, o meglio, dalla volontà di fare qualcosa insieme, perché incontrare si erano già incontrati, tra l’Eric Clapton già negli Yardbirds, lì in buona compagnia di Jeff Beck e di Jimmy Page, e dei Creem, di Steve Winwood, ex Traffic, e di Ginger Baker, con Clapton nei Creem. A loro si unirà poi Ric Grench, dei Family, tanto per chiudere una lineup davvero di assi. I Blind Faith, nati nel 1969, anno in cui sono venuto al mondo anche io, e nel 1969 scioltisi, dopo la pubblicazione dell’omonimo album, hanno lasiato nella memoria collettiva, specie degli amanti del rock, una manciata di canzoni, due su tutte: Presence of the Lord e Can’t Find My Way Home.

Ora, potrei star qui a tirarla ancora per le lunghe, concentrarmi su un personaggio come Steve Winwood, che nei Traffic come nei Blind Faith, e poi anche da solista, non solo ci ha regalato una voce soul come poche altre al mondo, almeno al mondo bianco, ma si è dimostrato un grandissimo chitarrista e tastierista, così come potrei agganciarmi all’attualità, andando a dire di come uno possa essere un talentuosissimo artista come Clapton, il Dio della famosa scritta che campeggiava nella Londra anni Settanta, e essere al contempo un po’ bollito in termini di comunicazione, andando quindi a sottolineare come andare a dire che non avrebbe mai suonato nei luoghi dove qualcuno avesse preteso il Green Pass, salvo poi farlo alla prima occasione, non fa di lui un rocker ribelle e tutto di un pezzo, per citare un altro grande talento britannico, altra immensa voce soul, Van Morrison, quanto piuttosto un perfetto idiota, aprendo il dibattito sul ruolo dell’artista in un anomalo periodo come questo, se, cioè, l’artista debba essere di esempio, un modello da seguire per il pubblico, e quindi incarnare quelle istanze di buon senso che vorrebbero tutti vaccinati e rispettosi delle regole e delle indicazioni sanitarie, o piuttosto il compito del rocker non sia quello di mettersi in contrapposizione al comune sentire, dove per comune sentire si intende quello incarnato dalle istituzioni, come da tradizione delle tante rockstar realmente ribelli e fuori dai ranghi, ma i titoli si trovano lì mica per caso. Questo pezzo si intitola Non riesco a trovare la strada di casa, titolo evocativo, certo, malinconico, anche, sicuramente metaforico, tutti abbiamo Google Maps nello smartphone ormai, è evidente che io voglia andare dalle parti di Can’t Find My Way Home.

Questo in effetti faccio.

Ma siccome si parla di strada di casa, strada di casa che non si trova, la prendo larga, seppur il paesaggio risulterà familiare, la strada persa ma non troppo.

Perché ho riascoltato dopo un po’ di tempo Can’t Find My Way Home in un film che ho visto, confesso, solo perché mi è apparso nella home di Amazon Prime Video, non perché lo stessi cercando. Non ne avevo sentito mai parlare, e ringrazio Jeff Bezos per avermelo fatto incontrare, Motel Woodstock. Un film che racconta del Festival musicale dei Festival, dalla prospettiva singolare del tizio che, involontariamente, diede il permesso perché il tutto andasse in scena, non più a Woodstock, come erroneamente si crede, ma in una contea vicina. Un ragazzo tornato a casa dopo aver studiato in città per aiutare i genitori, a barcamenarsi con un motel di scarse fortune, di colpo al centro dell’attenzione. Vedetevelo, senza che io stia qui a raccontarvi la trama o il perché mi sia piaciuto, nei fatti verso la fine, così, a tradimento, arrivano le note dei Blind Faith, la voce in falsetto di Steve Winwood a strappare pezzetti d’anima al mio povero cuore di vecchio rocker.

Come spesso mi capita quando un brano di cui conosco anche i passaggi meno salienti a memoria mi si ripresenta davanti, specie se lo fa dopo un po’ di tempo in cui ha latitato dalla mia vita, ho passato qualche ora riascoltandolo in loop, andandomi anche a cercare le versioni meno note, quelle marginali. Non che siano sempre dei capolavori, intendiamoci, ma un classico è un classico, ovvio che molti nel tempo abbiano deciso di farci i conti.

Prendiamo un altro classico, anzi, un altro classico, forse anche più di questo dei Blind Faith, che ugualmente è ascrivibile a quell’universo di brani indelebilmente legati al concetto di rock e anche di on the road, The house of rising sun degli Animals di Eric Burdon. Ovvio che la versione originale, epica, sia assolutamente meravigliosa, da ascoltare e riascoltare. Ma è anche ovvio che ce ne siano di più nuove meritevoli di attenzione, in alcuni casi, quasi ai livelli di quella incisa nel lontano 1964, caspita, sono quasi sessant’anni, mi viene onestamente da piangere se ci penso.

Probabilmente, oggi come oggi, la versione più nota, sicuramente molto suggestiva, è quella di The White Buffalo, inserita altrettanto a tradimento nella puntata finale della quarta stagione di Sons of Anarchy, serie che di quell’immaginario lì, credo, è massima espressione, un perfetto connubio tra trama e colonna sonora, credo che di tale fatta, così a memoria, giusto il passaggio di Easy Rider di Dennis Hopper con Born to Be Wild degli Steppenwolf o quello finale di La casa del diavolo di Rob Zombie, con Free Bird dei Lynyrd Skynyrd che quasi ti spinge a darti alla violenza e alle rapine a mano armata, ben sapendo che non andrà a finire troppo bene.

Io, personalmente, amo molto una versione sicuramente più di nicchia, quella di Puddled Pity Party, personaggio curioso, un gigante che si esibisce nei panni del clown triste e dotato di una voce potentissima, conosciuto grazie ai Postmodern Jukebox, il gruppo che fa cover di pezzi famosissimi in stili diversi dall’originale, idea in realtà già presente nel format di Ballando con le stelle, grazie al lavoro della Paolo Belli Band, vai a capire se si tratta di casualità o meno. Puddled Pity Party esegue una versione epica, non potrebbe essere altrimenti, di House of Rising Sun da pelle d’oca. Essenziale, come spesso capita alle sue versione di brani notissimi. Classica, anche, in questo la sua voce cavernosa gioca ovviamente un peso, ma non è che Eric Burdon fosse un usignolo. La ascolto e mi commuovo, non saprei dire perché sto invecchiando, per l’ultimo anno e mezzo passato in casa o perché in fondo quella canzone è stata scritta esattamente con quello scopo.

Mi capita anche con certe cover di Can’t Find My Way Home, penso a quella di Sherly Crow, per dire, con Warren Haynes, o a quella degli stessi Steve Winwood e Eric Clapton, decisamente in chiave più matura. Ce n’è anche una in cui Ethan East, continuando a suonare il suo immancabile basso, canta con una voce davvero notevole, Clapton e Mark Knopfler alle chitarre acustiche: un vero spettacolo. Poi, è ovvio, c’è la versione di un altro supergruppo, quei Spin 1ne 2wo che vedono in formazione Paul Carrack, già Squeez e Mike and the Mechanics, tra gli altri, e poi Phil Palmer, Rupert Hine e una delle sezioni ritmiche sulla carta più granitiche di sempre, Steve Ferrone alla batteria e Tony Levin al basso, prova provata che puoi mettere insieme il top e non riuscire comunque a girare come si deve.

Vedete che non riesco a trovare la strada di casa? Mi sto perdendo, spero piacevolmente, ma ancora casa non la trovo.

A proposito di supergruppi, uno dei più clamorosi di sempre, come accennavo sopra, è Crosby, Stills, Nash & Young, dove Neil Young si è unito in corsa al trio, a loro volta tutti già dotati di una carriera personale pregevolissima, David Crosby con i Byrds, Stephen Stills con i Buffalo Springfield, in compagnia dello stesso Young, e Graham Nash con i The Hollies. Insieme, nella formazione a quattro, hanno tirato fuori tre lavori, di cui uno solo in studio, Deja Vu, anno 1970, cui ha fatto seguito il doppio live 4 Way Street, del 1971 e l’antologia So Far, nel 1974, prima di mandarsi in maniera quasi definitiva a cagare, almeno con l’irascibile cantautore canadese.

Tra le tracce contenute nel doppio Live, per altro, è contenuto un medley che fa capo a Stills, come autore, che include un accenno a For What It’s Worth, proprio dei Buffalo Springfield. Questa canzone, a sua volta un classico, rientra nel novero dei brani di protesta figli della seconda metà degli anni Sessanta, nello specifico il brano partiva da un mero fatto di cronaca, degli scontri avvenuti nel Sunset Strip, la band era resident al Whiskey a GoGo, come l’altro brano del quartetto, Ohio, a firma invece di Young, quello sì ispirato a scontri avvenuti all’Università e quindi più coerente con lo spirito rivoluzionario di quei tempi. Forse per questa natura ribelle, ripeto, vagamente ingigantita rispetto alle intenzioni, un campione di For What It’s Worth è alla base di un brano di una band, una crew dovrei dire per essere più preciso, che della rivolta contro il sistema è stato emblema, i Public Enemy, pensate alla loro Fight the Power, resa celebre anche dall’essere parte della colonna sonora di Fa la cosa giusta di Spike Lee, il brano che cita Stills e soci è He Got Game, a sua volta tema portante di un altro film, eponimo, del regista afroamericano. Non a caso il brano risulta essere dei Public Enemy featuring Stephen Stills, suo il riff di chitarra, in armonico, e sua la voce nello special, che si apre all’originale, a fianco a quella di Chuck D e Flavor Flav. Dio mio, Chuck ha superato i sessanta, David Crosby ne ha compiuti già ottanta, il tempo passa un po’ troppo velocemente per i miei gusti, e ancora non ho trovato la via di casa. Casa cui è dedicata un’altra canzone di Crosby, Stills, Nash & Young, stavolta a firma di Graham Nash, l’inglese del gruppo, ottant’anni nel 2022. Parlo di Our House, un gioiellino beatlesiano appoggiato su pianoforte e voci che armonizzano tra loro, questa delle voci è il marchio di fabbrica del gruppo, come di buona parte di ciò che arriverà dalla West Coast.

Our House è una canzone dolce, rassicurante, con il testo che sembra quasi una riproposizione di una canzone che ascoltavano sempre i miei genitori quando ero piccolo, o che quantomeno fa parte dei miei ricordi d’infanzia, non saprei dire perché, Una casetta in Canada. I cori e i controcanti che Stills e Crosby fanno a Nash, voce portante, sottolineano il quadretto familiare e intimo. Quasi troppo intimo e rassicurante, quasi che a un certo punto si dovesse intravedere una crepa, come nelle immagini disturbanti del video di Black Hole Sun dei Soundgarden, il barbeque nel tipico giardino della tipica villetta americana, che però si rivelerà essere malefico e agghiacciante. Così ovviamente non è per questa canzone, che nasce rassicurante e intima e finisce rassicurante e intima, come invece non accade mai con Can’t Find My Way Home dei Blind Faith, fatta forse eccezione per la versione plasticosa degli Spin 1ne 2wo.

Tra tante versioni, ripeto, già la prima, dei Blind Faith, ha una sottotraccia disturbante, l’idea che sia successo qualcosa di ineluttabile, che il tempo stia per scadere, come evocato nel testo, il non riuscire a trovare la strada di casa, vai a capire esattamente perché, è quella degli Swans di Michael Gira, incisa nel 1989 per l’album The Burning World, interpretata non dal leader e vocalist storico, ma da Jarboe, a lungo alle tastiere e alla voce. Un brano inquietante nelle intenzioni, i suoni cupi, distorti, anche nel cantato, laddove Winwood giocava sul falsetto e sulle note alte. Un brano inquietante, anche se per i cultori della band americana l’ingresso in lineup della compagna di Gira, Jarboe, equivalse in qualche modo a un ammorbidimento dei suoni, altrimenti industrial. Del resto la band nasceva nella New York immortalata da Brian Eno nella compilation No Wave, un po’ di radicalità non guasta anche di fronte a suoni decisamente poco pop come quelli di questa versione. Un accostamento di turbamento e dolcezza che, confesso, trovo un connubio davvero perfetto. Non so cosa pagherei, per dire, per ascoltare una versione di questo brano fatto dai Low, da poco fuori con un lavoro che su questi binari si muove, Hey What, figlio di melodie angeliche e rumore bianco, armonie e distorsioni, fratello minore del gigantesco e forse un po’ troppo ingombrante Double Negative, forma che si fa caos, tanto per rovesciare l’assunto divenuto velocemente slogan del neo-premio Nobel per la Fisica Parisi, “nulla è più affascinante che mettere ordine nel caos”. Alan Sparkhaw e Mimi Parker, adottatemi, e poi tirate fuori questa cover, magari in compagnia dello stesso Michael Gira e di Kevin Shields dei My Bloody Valentine, sognare è gratis, e può aiutare quando non si riesce comunque a trovare la strada di casa.