Jack Kerouac senza Charlie Parker

L’impressione è che senza un nuovo Charlie Parker non avremo un nuovo Jack Kerouac, con buona pace dei cultori della buona musica e della buona letteratura


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Diciamolo apertamente, questa cosa degli anniversari comincia a essere ingestibile, quasi quanto quella delle morti degli artisti che hanno segnato la nostra esistenza. Per questo ho deciso di lasciar passare almeno un paio di giorni prima di scrivere quel che ho scritto, lasciando che quel 12 marzo, data nella quale ricorre il centenario dalla nascita di uno dei più rilevanti e fondamentali scrittori del Novecento fosse stata archiviata.

Torno indietro di qualche mese, estate 2021. In una bancarella del centro ho trovato una vecchia edizione de I vagabondi del Dharma, di Jack Keoruac. Un vecchio Oscar Mondadori del 1977 con la copertina che, facendo il titolo riferimento alla parola vagabondo, e essendo comunque Kerouac chiaramente uno scrittore per hippie, questo devono aver pensato all’epoca i tizi che lavoravano alle grafiche delle copertine dei libri, presenta un personaggio stilizzato non troppo diverso da un Charles Manson solo un po’ meno inquietante, barba e capelli lunghi e neri, scompigliati, ma niente svastiche tatuate in mezzo agli occhi. Non ci ho pensato molto, complice la scritta che diceva che i libri venivano due euro e mezzo l’uno, salvo diventare due euro al secondo libro, e uno e mezzo al terzo, l’ho preso e sono andato dal ragazzo che stava alla cassa. In realtà a casa ho diverse altre edizioni di tutti i libri di Kerouac, ma credo che certi gesti vadano compiuti a prescindere, non solo per collezionismo, penso che il libro in questione valga esattamente due euro e mezzo, parlo del valore di questa edizione, ovviamente, non di quella letteraria del testo, ma più perché lasciare poi quei libri in giro per casa, in attesa che arrivi il momento di riporli ordinatamente nella libreria, sia un modo assai efficace per farvici avvicinare i miei figli, quella copertina che mostra un tipo non troppo diverso a loro padre, capelli e barba lunga, scompigliati, quel titolo accattivante, seppure in parte tradito poi dal libro stesso, dei testi di Kerouac uno dei più pesanti, l’edizione tascabile, non a caso pensata proprio per avvicinare i più giovani, perfettamente capace di tenere il passo coi tempi. Nei fatti è finita che ho cominciato a rileggermelo io, non poteva che andare così, e ho cominciato a rileggermelo in un posto che, a ben vedere, potrebbe tranquillamente essere usato come location per una trasposizione cinematografica di altri testi di Kerouac, penso a Big Sur, per dire, il mare, le rocce a picco, le onde che si frangono sugli scogli, la vegetazione selvaggia, le rete dei pescatori. Che i libri di Kerouac, per altro, uno dei long seller che meglio hanno resistito nei decenni passati, non siano praticamente mai finiti al cinema è faccenda interessante, c’è finito Burroughs, non credo che il problema sia tanto una questione di trame non facilmente raccontabili, credo sia più paura di schiantarsi con un classico, di non trovare una lingua filmica capace di tenere il passo a una lingua scritta così originale e potente, ve lo dice uno che non aveva più letto Kerouac probabilmente da una ventina d’anni, finché non ha trovato una copia del 1977 de I vagabondi del Dharma in una bancarella del centro.

Leggendolo, o meglio, leggendolo sfogliando le pagine di un libro che ho comunque letto almeno altre cinque o sei volte, da giovane, quando cioè dirsi giovane non era praticare una forzatura, far leva su personalismi del tutto slegati all’anagrafe, quindi applicando una sorta di skip a un testo comunque scritto seguendo un flusso compositivo, nota è l’influenza del sax Be Bop di Bird, Charlie Parker, sulla scrittura di Kerouac, mi sono reso conto come certi testi reggano più di altri l’incedere del tempo, e quel testo che ai tempi mi era risultato stopposto, più degli altri testi del medesimo autore, pur continuando a rimanermi abbastanza stopposo regge eccome il tempo, caspita, penna vivida anche oggi, forse proprio in virtù della musica cui ha provato con successo a fare il verso. Al punto che, in una sorta di flusso di coscienza, che nulla ha a che vedere col flusso di scrittura, per essere chiari, come del resto anche la scrittura che emula il flusso di coscienza, è evidente, la scrittura è scrittura, la parola su carta si ferma, anche quando scorre, fluida, si scrive una lettera alla volta, anche quando poi risulta particolarmente dinamica, è ragionata anche quando appare improvvisata e improvvisa, in una sorta di flusso di coscienza mi sono chiesto chi, oggi, potrebbe mai tentare operazioni simili a quelle compiute dai beatnik, Kerouac e il Be Bop, Ginsberg in tour con Dylan, Burroughs con chiunque,  ma anche il beatnik di seconda generazione Ken Kesey coi Grateful Dead, il Neal Cassady di On the road a guidare il Furthur, Ferlinghetti a fare da faro, da porto d’approdo e di partenza, letteratura e musica che si mescolano, influenzano a vicenda, entrano nelle rispettive trame. Nel senso, mi chiedo, ma me lo chiedo da non lucido, stanco, spossato dall’anno trascorso, affaticato di quell’affaticamento piacevole dovuto al sole, sia chiaro, alla salsedine, al mare, quali potrebbero mai essere oggi letterature e musiche in grado e anche vogliose di scontrarsi per generare arte? Ci hanno provato, è chiaro, nel corso degli ultimi decenni, On the Road ha ormai sessantadue anni, Kerouac se n’è andato quando io nascevo, e sono un cinquantaduenne che si ostina a portare barba e capelli lunghi, non certo un giovane, e a tratti anche con risultati notevoli, penso a certi passi di Paul Beatty, per dire, e dalle nostre parti penso a Nanni Balestrini e alla sua prosa rap, in anticipo deciso sulla nascita proprio del rap, ma come spesso mi capita guardando all’oggi, e lì immagino che giochi molto proprio il mio essere un cinquantaduenne, quindi un uomo che guarda all’anzianità imminente, e non vedo nulla, ma proprio nulla nulla capace di scollinare un lasso di tempo tanto lungo. Di più, credo che siano circa trent’anni, quel famoso 1991, insomma, quel periodo lì, la prima parte degli anni Novanta, che non ci sia nulla capace di restare abbastanza a lungo per diventare canone, e in quanto canone, essere standardizzato e rivisitato, rivisto, reinterpretato, trasmutato in lettere (il discorso, in parte, è reversibile, non vedo neanche tutta questa letteratura capace di influenzare la musica, ma qui mi sto occupando al momento del jazz finito dentro Kerouac, non viceversa). Vorrei non fosse così, anche perché ambirei a comprare nuovi tomi capaci di darmi scosse altrettanto potenti, sempre che il corpo di un cinquantaduenne sia ancora in grado di riceverle e in caso di reggerle, ma al momento mi sfugge l’orizzonte possibile. Mancano i Charlie Parker, e quello che i rapper avrebbero potuto essere, a lungo se ne è parlato come dei nuovi romanzieri americani, prima che il pallino passasse agli autori di Serie Tv, col tempo è venuto meno, non certo per questioni legate all’evaporare dell’aura maudit, di rapper che partono ce ne sono sempre a iosa, quanto più perché col tempo il rap è diventato talmente familiare da aver perso ogni qualsivoglia sfumatura disturbante, quel tentativo, riuscito o meno, di farsi lingua che non sia lingua consolatoria, niente perturbazione, niente ferite aperte. Poi, è probabile, il mix mortale tra caldo e salsedine pregressi con un ritorno a casa a base di libri da compare, materiale scolastico da etichettare, scarpe chiuse nelle quale rintanare di nuovo i piedi hanno assopito anche il mio senso critico, felicissimo di essere smentito, possibilmente con garbo, ma l’impressione è che senza un nuovo Charlie Parker non avremo un nuovo Jack Kerouac, con buona pace dei cultori della buona musica e della buona letteratura.