Il tizio con lo spazzolone, la dance e la ricostruzione dell’imene virtuale

In pratica vi parlo dei tanti artisti di casa nostra, da Elisa a Nek, che mollano la propria poetica, per spostarsi su canoni alla moda, spesso schiantandosi contro un jersey in cemento armato


INTERAZIONI: 80

Mi sono sempre immaginato il subconscio come uno di quei tipi che durante le partite di basket, le sole che ho visto in tv credo siano da riferirsi all’NBA, quando a basket giocavo io, da ragazzino, i tipi in questione non c’erano, mi sono sempre immaginato il subconscio come uno di quei tipi che durante le partite di basket entra in campo armato di spazzolone, durante gli stop, per asciugare il sudore lasciato dai giocatori caduti sul parquet. Uno cade, lascia un alone pericoloso per sé e per gli altri giocatori, ecco che arriva il tipo e subito ripulisce tutto. Un po’ un Mr Wolf senza la faccia arguta di Harvey Keitel. Il mio subconscio. In realtà, ma questa è faccenda troppo complessa da essere buttata lì en passant, non ho grande fiducia in tutto quel che concerne la psicologia, compresa l’idea stessa di subconscio e inconscio, ma visto che a prescindere dai miei dubbi qualcuno si è preso la briga di codificarlo, il subconscio, ecco che io ci ho appiccicato su una immagine facilmente decifrabile. Questo, immagino, dovrebbe in qualche modo lasciarmi intendere qualcosa riguardo al mio passato remoto, forma verbale che non a caso non uso praticamente mai, dove evidentemente stanno annidati enormi chiazze di sudore che il tipo con lo spazzolone ha ben visto di asciugare, non lasciandone traccia nella mia memoria. Fossi uno che ha qualcosa da risolvere, nel senso che in qualche modo si sente incompiuto o che ha dei fantasmi con i quali fare i conti, lì a aprire voragini, allestire incertezze, far smottare la terra sotto i piedi, è a quelle chiazze di sudore che dovrei guardare, ma non ho grande interesse a guardarmi alle spalle, e già quando scrivo opero a sufficienza nell’andare a rovistare in soffitta, la luce che trapela dalle assi malconce del tetto, la polvere che danza in controluce. Non, anche qui, che io ritenga la scrittura come una forma pubblica di psicoterapia, intendiamoci. Scrivo e scrivo spesso facendo ricorso alla fantasia, sempre direi, e quando è al mio vissuto che vado a attingere, o a una vissuto che intendo come il mio, a vostro beneficio, non ho questa necessità impellente di stare ancorato ai fatti per come li ho vissuti, né ai fatti per come sono stati fermati e in caso rielaborati dalla mia memoria. Scrivo, spesso seguendo un flusso, e se quello che scrivo sia vero o meno non mi interessa, così immagino sia anche per voi che leggete.

Questa mia teoria, non esattamente fondata su basi solidissime, questo è quel che passa il convento e il convento, per altro, riguardo questo argomento sarebbe potuto anche essere più spartano, una sorta di capanna in mezzo a un bosco, o peggio, una catapecchia di lamiere, lì in una qualche periferia estrema, questa mia teoria vacilla quando, in certi casi, ho delle lacune più radicali. Nel senso, ho la percezione, qualcosa più di una percezione a dirla tutta, che il tizio con lo spazzolone a volte si diverta, come del resto capita un po’ a tutti di fare, specie quando si ha per le mani qualcosa di particolarmente routinario e noioso, avete presente tutti quei meme che girano sui social con quei titoli da locandine dei giornali locali, roba tipo “Scoperte messe sataniche nel cimitero locale” e subito sotto “Ecco dove divertirsi nel fine settimana”, chiaro divertissement del titolista, lì devastato dal dover comporre i titoli di notizie del tutto irrilevanti, oppure a tutti è capitato di andare a prendere un caffè macchiato o un cappuccino al bar e esserci ritrovati davanti a un qualche disegno, il più inflazionato e semplice è un cuore, fatto con la schiuma, certo gesto carino e carico di gentilezza, ma nei fatti chiaramente un tentativo di cavare le gambe fuori da una ripetitività logorante e alienante. Col che, suppongo, avere lacune immotivate, cioè in situazioni che nulla da dimenticare dovrebbe avere in serbo invece che di fronte a baratri oscuri e mortali, potrebbe anche essere da ritenere un male minore, come dicevano in tempi andati, se non te lo ricordi significa che non era importante, tesi che manderebbe in malora tutti gli psicoterapeuti e al tempo stesso salverebbe qualsiasi studente durante una qualsiasi interrogazione, col che potremmo anche dire che ci è andata bene, avremmo potuto dimenticare qualche passaggio fondamentale della nostra vita, o ritrovarci un qualche scherzo vero e proprio, la convinzione di aver fatto cose fondamentali che in realtà non abbiamo fatto, non credo servano ulteriori digressioni. Un po’ come se guardando al nostro passato, a volte anche a un passato neanche troppo lontano, invece di vedere un panorama che ci suona familiare, ci trovassimo una costruzione fatta coi tubi innocenti che, vista dalla giusta prospettiva, ha la distinguibilissima forma di un cazzo.

Come però succede a certi aloni di sudore, o di pioggia, magari, lì su un paio di scarpe di velluto, che pensavamo di aver pulito semplicemente passandoci sopra un panno, il tizio con lo spazzolone evidentemente la sa più lunga di noi, a volte capita che tornino fuori quando meno ce lo aspettiamo, nel caso delle chiazze di bagnato sulle scarpe di velluto, parlo per un amico direbbero sui social, in genere quando siamo nel bel mezzo di un incontro mondano, quando cioè ci è del tutto impossibile nasconderle sotto un tavolo o provare a metterci una pezza strofinandole dietro le caviglie, sui pantaloni.

È successo giusto ieri. No, non è successo che indossassi un paio di scarpe di velluto, l’esperienza insegna e comunque non piove da giorni, è successo giusto ieri che un ricordo che avevo rimosso da anni e anni, non saprei neanche dire esattamente quanti, le macchie che saltano fuori sono sempre e comunque macchie che avevamo pulito, non sono mica le macchie originali. A occhio, non è che in età giovanile avessi questa vita così movimentata, credo sia qualcosa che è successo nei primissimi anni 90, quando ancora non avevo preso a suonare con la mia band punk, gli Epicentro, e sicuramente prima di andare a fare il servizio civile, iniziato il 14 febbraio del 1994, lo ricordo bene. L’alone di sudore che di colpo è riemerso nel parquet della mia memoria, lo scherzo del tizio con lo spazzolone che poi sarebbe il mio subconscio, è che per qualche tempo, mesi, sono stato il vocalist di un progetto dance.

La scena che sto per descrivervi, che azzardo ha i contorni vagamente frastagliati di certi racconti horror, si svolge nella mia città natale, Ancona, e ha per coprotagonista, non fosse che sono io raccontare il tutto dovrei dire per protagonista assoluto, io di questa storia sono semmai poco più di una comparsa, un ragazzo di un paio di anni più grande di me, un biondino, per dirla con Massimo Troisi, ai tempi ancora in vita. Di lui, è ovvio, non ricordo il nome, mentre ricordo le sembianze, una specie di Garbo meno dark e con una certa tendenza a vestirsi con maglioni di lana color pastello. Il che dà a questa storia anche una connotazione stagionale, sono stato il vocalist di un progetto dance in inverno. Il tizio mi aveva contattato perché di me gli avevano parlato alcuni musicisti della locale scena, musicisti che a precisa domanda “conoscete un cantante bravo”, avevano fatto il mio nome. So che la cosa potrebbe lasciare stupiti, se non perplessi, ma sono stato un giovane bravo interprete, con una voce con venature soul e un registro piuttosto tendente all’alto, seppur venissi spesso tirato dentro progetti che con la mia voce nulla avevano a che fare, da una tribute band di Zucchero a una, toh, di Vasco. Ho militato in diverse band locali che suonavano in locali e a feste private, prima di mandare un po’ tutti a cagare e passare a suonare la chitarra negli Epicentro e a scrivere canzoni che con il soul nulla avevano a che fare. Il tizio, comunque, viene a sapere che ho una bella voce, e decide di contattarmi, perché ha scritto delle canzoni funkeggianti, e vorrebbe provare a inciderle per proporle al mercato dance. Lui è un chitarrista, ma sa usare anche le macchine, e soprattutto è un chitarrista che ha un registratore a otto piste, all’epoca andare in studio di registrazione era qualcosa di inimmaginabile e i computer, ancora piuttosto rari, non avevano a disposizione software in grado di sopperire agli alti costi degli studi di registrazione. Quello che avrei dovuto fare, questo il compito che mi veniva richiesto, era scrivere la linea melodica, imbastire un testo in inglese e poi, ovviamente, inciderla. A me la dance fa profondamente cagare. Tutta, anche quella che abbiamo importato in giro per il mondo, anche quella di quando a farci ballare erano gli Abba o i Village People. Per non dire dell’house e tutto quel che riguarda la dance contemporanea, di cui, immagino che aver citato Abba e aver parlato di contemporaneità tirando in ballo la sola house abbia fatto rabbrividire chi di dance si occupa seriamente. Quando quindi ho accettato di collaborare col tizio l’ho evidentemente fatto per disperazione, probabilmente era un momento in cui la musica stava scomparendo al mio orizzonte, rammento vagamente che per certi brevi periodi non ho avuto progetti attivi, o per quella strana forma di autolesionismo che ci spinge a fare qualcosa che non ci piace ben sapendo che non piacendoci a priori non ci piacerà neanche facendolo. Ovviamente, succede anche con certi sapori o odori poco gradevoli, il tempo di diventarci familiari che neanche ci accorgiamo più della loro sgradevolezza, tempo due o tre sessioni e quelle canzoni, quel mondo sonoro, ha cominciato non dico a piacermi, ma a essermi quantomeno indifferente, come un nemico acerrimo che al dunque si dimostra inoffensivo. Non dico che mi sono appassionato al progetto, al punto che non ve ne è traccia nei miei ricordi dell’epoca, dove per ricordi non intendo nulla di volatile, parlo di audiocassette, così si registravano le cose allora, né ho alcuna foto che mi ritragga insieme al ragazzo, di cui ho rimosso anche nome e cognome. Ricordo, vagamente, queste chitarrone funky, una sorta di Nile Rodgers con un po’ meno talento e la pelle decisamente troppo chiara, e ricordo come, nel provare a impostare le linee melodiche, io mi ispirassi neanche troppo velatamente a tutto quel che nel mentre stata accadendo nel mondo del crossover, i Fishbone, i Living Colour, certo non lesinando gli insegnamenti che furono e sono di sua maestà George Clinton. Il fatto che io mi ispirassi a quei nomi, non credo serva star qui a sottolinearlo troppo, non comportava che quel che scrivessi e quindi cantassi riuscisse neanche vagamente a avvicinarsi agli originali, anzi, proprio per questo mio voler fare il verso a un mondo non troppo vicino a quello che il tizio biondino mi stava proponendo portava a risultati discutibili, non un Seal che collabora con Adamski, per intendersi, o un Faithless, più qualcosa di posticcio e senza senso.

Un sacco di dettagli, dirà qualcuno, il solito rompicazzi, per essere qualcosa che il tizio con lo spazzolone aveva prontamente rimosso, nascondendolo alla vista.

Non sarà mica che ti stai inventando tutto di sana pianta, il tuo essere vocalist in un progetto dance, il tuo ispirarti a cotanti nomi, i miserabili risultati raggiunti, il tutto al fine non si sa bene di cosa?

Anche fosse, torno a ribadire, la cosa nulla sposterebbe, non state leggendo una autobiografia, e anche le autobiografie, ben lo so io che ne ho cofirmate parecchie e altrettante scritte come ghost writer, non è che siano esattamente una sequela di fatti realmente accaduti, certificati e a prova di notaio.

Diciamo che sì, i fatti sono realmente accaduti, magari ho aggiunto qualche pezzetto, perché in effetti il tizio con lo spazzolone sa il fatto suo e certi dettagli non me li ricordo ancora, né ho fatto alcunché per sopperire alla mia mancanza di memoria andando a cercare altrove informazioni, per altro irrilevanti. Volevo raccontare questo aspetto non esattamente edificante del mio passato, e non certo perché io ritenga che aprirsi come un libro aperto sia una necessità per chi fa il mio mestiere, figuriamoci, ribadisco veementemente la necessità di mediare sempre e comunque, mentire o fingere fino alla morte, né perché io abbia conti da saldare col mio passato, fili di ricucire o bandoli da srotolare, non sono mica sicuro che si dica così, ci siamo capiti, quanto piuttosto perché mi premeva introdurre, non ridete, sapete che le mie introduzioni son assai più lunghe degli svolgimenti e delle conclusioni, un argomento specifico: quando qualcuno va a giocare in un campo di gioco che non è il suo e come va in genere a finire, male.

Avrei potuto partire per arrivare a questa conclusione da uno dei tanti artisti di casa nostra che, inseguendo un facile consenso, facile sulla carta, a un certo punto mollano la propria poetica, e anche la propria estetica e quindi il proprio immaginario, per spostarsi su canoni alla moda, spesso schiantandosi contro un jersey in cemento armato a centoquaranta all’ora, da Elisa a Nek, la lista è lunga, ma parlare di un mio ricordo riemerso mi è parso più interessante, o quantomeno meno scontato, che Elisa e Nek si siano schiantati contro il jersey a centoquaranta all’ora lo sanno tutti, che io sia stato vocalist di un progetto dance, immagino, no.

Resta che aver messo in piazza il fatto di avere in passato cantato in un progetto dance, per altro abortito, non può in nessun caso essere usato come arma contundente per cercare di sminuire un qualsiasi tipo di critica verso chicchessia, perché io nella vita non faccio il cantante né il cantante in un progetto dance, non ho mai neanche provato a fare il cantante professionista, conscio dei miei limiti e dei miei talenti, e in tutti i casi, anche avessi una carriera segreta come vocalist in un progetto dance quello che scrivo come critico musicale sarebbe comunque scolpito sulla pietra, parola dopo parola, affatto alterato dal mio souleggiare su basi funky. Ora, però, lo so, starete lì a cercare come pazzi in rete traccia di questo mio passato oscuro, traccia che, non grazie a una di quelle aziende che vanno in voga oggi, quelle che ti ricostruiscono la reputazione, ti ricreano un imene virtuale (o sbiancano il culo, a scelta) cancellando traccia delle cazzate fatte in passato, anche in un passato prossimo, ma proprio perché traccia di quel passato, assai remoto, non esiste, traccia che quindi non riuscirete comunque a trovare, è stato bello crederci per qualche minuto, immagino, ma come per dirla con un Francesco De Gregori in vena di socializzare “quello non sono io”. La mia reputazione è solida perché, fortunatamente, all’epoca la rete non esisteva, se non nella testa di qualche cervellone e nei libri degli scrittori cyberpunk, sarà per un’altra volta, “ritenta sarai più fortunato”, come dicevano dentro le cartine di certe chewing gum di quando eravamo piccoli che, rarissimamente, nascondevano premi, più spesso il grande nulla.

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