Quando i due Lucio rischiano di suonare insieme

Dalla e Battisti due universi con lo stesso nome, la stessa età e uniti da quell'idea del mare, di libertà comune sublimata nello stesso modo


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Tu chiamale se vuoi coincidenze esoteriche, oppure sincronicità se preferisci, ma come lo spieghi che Dalla e Battisti nascevano in contemporanea, poche ore a cavallo tra il 4 e il 5 marzo del 1943? Sarà stata la guerra, che precipitava, sarà stata la libertà, che di nascosto ricominciava a mettere un seme, insomma questi due escono, strillano e cambieranno la musica e l’Italia: s’ode a Bologna un vagito neonato, da Poggio Bustone uno vagito risponde: li chiamano Lucio, tutti e due. E non potrebbero essere più diversi. Dalla, il piccoletto bizzarro, inquietante, incatenato alla sua Bologna, la vive, la penetra, la assorbe, la conquista dopo esserne stato il segreto imbarazzante e un po’ repellente; Battisti, lo zuccone di campagna, che parte da Poggio Bustone ma non va a Roma, va a Milano e qui si forma, si impregna di metropoli ma poi la lascia, va nella Brianza velenosa fino a morirci. Uno scarta di lato, suona il jazz, gira con un’arancia in testa, l’altro è metodico, regolare, qualsiasi stranezza lo irrita, lo mette in sospetto. Le loro storie parallele si intrecciano nelle melodie, dove semplici in apparenza, dove insofferenti e orgogliosamente complesse. Ma destinate a durare per sempre.
Battisti ha le idee chiare e la convinzione giusta e sfonda quasi subito, Dalla ci mette di più, è tormentato, indeciso, deve aspettare dieci anni; esplode proprio quando il sodalizio tra Battisti e Mogol scricchiola, si consuma. Il bolognese è passato dai testi di Paola Pallottino, una poetessa, al poeta militante Roversi che però scrive per sé, non per il pubblico: la soluzione sarà far tutto da solo, musica e testi, con una backing band versatile, gli Stadio, in grado di assecondare i fremiti armonici, gli arrangiamenti complessi che infilano un sapore jazz nel rock, nel pop. La sua è musica fruibile ma non facile, riesce, e in questo è simile al coetaneo, a sposare qualità e gusto popolare. Gli piace il lato assurdo delle cose, la gente che scappa dal mostro di corso Buenos Aires ma già che c’è si concede un bianchino. Battisti con Mogol ha fuso una formula, canta le nevrosi di città, gli amori routinari o impossibili, le rotture e i parcheggi che non si trovano, i tradimenti borghesi, ogni tanto punta sull’ecologia, ma a modo suo, a modo loro, e si concede divagazioni estreme nel progressive.
Dalla cavalca un successo in cui non spera più, si commercializza, tra gli anni Ottanta e i Novanta avrà i suoi alti e bassi, i cali di qualità, una certa svalutazione nell’apparire. Battisti è nascosto, pura assenza, ormai ha superato ogni aspettativa e implode sempre più, anche per lui è giunto il momento di fare da sé ma non dura, trova Pasquale Panella e butta fuori un disco capolavoro, Don Giovanni, in seguito sottovalutato, L’apparenza, che è una fioritura di melodie, una, due, cinque, dieci nello stesso brano, poi gli album si fanno sempre più sintetici e criptici. Come se odiasse il successo facile, la formula che gli può assicurare il milione di copie schioccando le dita: ha abbandonato ogni cautela, ogni residua diplomazia artistica, suona una elettronica difficile, indisponente, sotto il cui tappeto nasconde la sua inestinguibile genialità melodica. Dalla invece spiega un giorno alla cantautrice Mariella Nava, che fa sempre cose complicate: “Vedi Mariella, ogni tanto bisogna anche saper servire un cappuccino”.
Li unisce il mare. Lucio il bolognese ha una barca chiamata “Catarro”, ci ha messo dentro uno studio di registrazione. Lucio il romano di Milano il mare lo sogna nelle canzoni, ce l’ha dentro: è l’idea di libertà comune a tutti e due e sublimata nello stesso modo. Lucio il piccoletto gira con De Gregori, il Principe, con Gianni Morandi, che resuscita artisticamente, è un generoso narciso che si regala, Battisti ha smesso di concedere le sue canzoni come gioielli rari, l’ultima ospitata l’ha fatta con Mina, in tivù a Teatro 10 il 23 aprile del 1972, incancellabile collisione di immensi, poi basta: gli offrono cifre folli, assegni in bianco per tornare in televisione, ma lui ride in faccia a chi glieli porge. Lucio D sta dentro le cose, dentro la musica, ne assorbe i tempi, le mode, Lucio B sa tutto, si accorge dei cambiamenti ma dal suo guscio: “Lucio, hai sentito l’ultimo di Prince?”. “Ma chi cazzo è Prince?”. Vivono da opposti, muoiono da opposti: nel silenzio di una lenta malattia Battisti, nel deflagrare di un infarto dopo un concerto Dalla.
Eppure ci fu un momento in cui rischiarono di fondersi: una volta, il Lucio di Bologna la butta là al Lucio di Poggio Bustone: sono i migliori, sono coetanei, perché non fare un tour insieme chiamato “I due Lucio”? Battisti inorridisce educatamente e pronuncia la sua frase definitiva, che tutti sanno essere senza appello: “Non si può fare”. Dalla non insiste, forse capisce che l’altro ha ragione, due universi collidono e le conseguenze possono essere apocalittiche. Due universi, lo stesso nome, la stessa età. Chi lo sa, cosa diavolo successe in quelle poche ore a cavallo tra il 4 e il 5 marzo del 1943, quando, anche in piazza Grande, i giardini di marzo si rivestivano di nuovi colori.