Sessant’anni di David Foster Wallace e di Chuck Palahniuk

Oggi, sessant’anni fa, sono nati due degli scrittori che più di tutti hanno, per motivi diversi, influenzato la mia carriera di scrittore


INTERAZIONI: 107

Gli anniversari servono per farci scrivere gli articoli, spesso, più che per celebrare ciò che in effetti in quel determinato giorno di un tot di anni prima è accaduto. Gli anniversari tondi, poi, sono anche meglio, perché essendo, si suppone, quelli su cui un po’ tutti andranno a scrivere, ci consentono di andare un po’ sopra le righe, osare, a volte anche esagerare. Non  il mio caso, io vado sempre sopra le righe, oso, esagero, anche in assenza di anniversari, anche in assenza di motivazioni plausibili. È una questione di stile, direbbe Dee Mo, fossimo negli anni 80, una questione di cifra.

Mai come oggi, quindi, dovrei star qui a scorrazzare sulla tastiera, libero di giocare con le parole, le figure, le immagini, le trame. Perché oggi, sessant’anni fa, sono nati due degli scrittori che più di tutti hanno, per motivi diversi, influenzato la mia carriera di scrittore, a loro insaputa e, direi fossi un mio hater, nonostante loro.

Il 21 febbraio 1962, infatti, a Ithaca, nello stato di New York, nasceva David Foster Wallace, lo scrittore che, se uno si trovasse a chiedermi perché scrivo e perché scrivo per vivere, mi sentirei di usare come risposta, senza lasciare troppo spazio a dubbi e a approfondimenti.

Il 21 febbraio 1962, a Pasco, nello stato di Washington, nasceva Chuck Palahniuk, autore che a sua volta ha contribuito ancora più coi fatti a convincermi che la scrittura poteva essere il mio mestiere, il mio talento.

Chiaramente, parlo sempre dando voce al mio hater che è in me, niente di tutto quello che avete letto fin qui, e non mi limito a intendere con questo le parole che si trovano da sotto il titolo fin qui, quanto piuttosto a quanto ho scritto nel corso di questi circa ventotto anni da che scrivo, venticinque da che scrivo per lavoro, tanti ne sono passati da che ho pubblicato il mio primo libro, niente di quello che avete letto fin qui sembra provare che quanto avete letto fin qui, adesso mi riferisco a quello che si trova sotto il titolo di questo mio testo, risponda anche vagamente al vero, David Foster Wallace e Chuck Palahniuk, diciamocelo, hanno tutta un’altra scrittura. Ma io ho davvero deciso che nella vita avrei fatto lo scrittore, inseguendo certo una intuizione, una vaga presa di coscienza di quella che poteva essere la mia lingua, intesa come linguaggio espressivo, dopo che, il 9 febbraio 1994, ho messo mano su Panta- I Nuovi Americani, antologia strepitosa che, a fianco di uno Sherman Alexie, di un Jeffrie Eugedies, qui solo Jeff, di un William T. Vollmann, di una Donna Tart, di un Mark Leyner. Dio quanto l’ho amato in quegli anni, presentava un incredibile David Foster Wallace. Un gigante tra i giganti, mi era parso, come mi sarebbe poi parso anni dopo, quando Theoria tirerà fuori una antologia dal medesimo titolo, I Nuovi Americani, l’avantpop visto, da me e non solo da me, come il nuovo Vangelo, un modo di scrivere del tutto fuori dai canoni, per come li conoscevo io, sia chiaro, lì pronto da essere metabolizzato e, in caso, digerito e riproposto. Ho già avuto modo di raccontare che proporre Infinte Jest, nel mentre acquistato a fatica, all’epoca per comprare libri in lingua inglese, a meno che non si vivesse in una città dove c’erano librerie internazionali, e non era il caso di Ancona, toccava spostarsi, io l’avevo preso alla Feltrinelli International sotto le due torri di Bologna, insieme a Pimp di Iceberg Slim mi avrebbe poi procurato il mio primo lavoro importante, da consulente editoriale per la Mondadori, impegnato a lavorare alla start up di Strade Blu, collana con la quale avrei esordito, mio il primo romanzo italiano pubblicato in quel contesto, aironfric, ma è storia già trita e ritrita. David Foster Wallace è stato e tuttora è il mio scrittore, quello che, potendo scegliere, e non posso scegliere, avrei voluto essere, parlo di penna, è evidente, la cui morte è arrivata come una coltellata al cuore, con la tempistica precisa che solo il destino a volte sa mettere in scena. Il 9 febbraio 1994, infatti, come il 12 settembre 2008, sono date che in qualche modo avrebbero comunque impattato con la mia vita. Di lì a pochi giorni, infatti, per la precisione cinque, avrei cominciato l’esperienza di obiettore di coscienza, parlo del 1994, durante il quale, spostato in ufficio per una aggressione subita mentre prestavo servizio in un dormitorio per senza fissa dimora, avrei cominciato a passare le mie giornate a scrivere al computer, stabilendo che era quella forma di scrittura, e non quella musicale, quella che mi era più congeniale, amante dello smartworking con decenni di anticipo, misantropo in potenza che si stava trasformando in un misantropo in atto. Esattamente nello stesso giorno, il 12 settembre, in realtà l’indomani, per questioni di jet leg, ho letto la notizia del suicidio di David Foster Wallace, suicidio affatto imprevisto per chi avesse mai letto i suoi libri, ma comunque sconvolgente, mentre stavo per accompagnare mia moglie Marina verso Malpensa, da dove sarebbe partita per gli USA, lei impegnata in un MBA per l’IBM, l’azienda per la quale lavorava e per la quale ancora lavora, esperienza che avrebbe non poco influito nella nostra famiglia, il suo crescere professionalmente e anche e soprattutto come donna ha sempre influito nel mio essere ambizioso, non pormi limiti, guardare al mondo da una prospettiva mia e mia soltanto, solo un folle potrebbe pensare di poterlo fare da solo. Ricordo perfettamente il momento in cui ho letto la notizia al televideo, alle sei di mattina, mentre lei si stava preparando per il lungo viaggio. Ricordo il dolore straziante, misto alla malinconia che una sua partenza, seppur per pochi giorni, mi ha sempre lasciato addosso.

Palahniunk, invece, è entrato nella mia vita in maniera ancora più diretta. Entrato nel team di Strade Blu, proprio per quel mio aver proposto a Edoardo Brugnatelli di tradurre Infinite Jest o Pimp, nessuno dei due sarebbe poi finito in quella collana, a un certo punto, mentre stavo per sposarmi con Marina, siamo nel 1999, mi viene proposto di tradurre Survivor, dell’autore di Fight Club. In realtà alla Mondadori interessava di più il romanzo da cui David Fincher stava traendo un film con Edward Norton e Brad Pitt, ma su quello aveva messo le mani una piccolissima casa editrice legata alla Marlboro, quelli delle sigarette, quindi ci eravamo fiondati su Survivor. Un libro che ho trovato subito bellissimo, e la cui traduzione, all’epoca il mio ruolo di consulente editoriale e scrittore si alternava a quello di traduttore, è stata un vero sbocco di sangue, difficilissima. Al mio fianco la valida Giovanna Capogrossi, lì con me a trovare una lingua altrettanto sghemba di quella di Palahniuk, sgrammaticato, costantemente storto, mentre raccontava una storia assurda e affascinantissima. La traduzione del libro in questione, di lì a poco Mondadori avrebbe comprato la casa editrice che deteneva i diritti di Fight Club al solo scopo di ripubblicarlo sempre in Strade Blu, fatto che associato all’uscita del best seller di Michael Moore, Stupid White Man, avrebbe contribuito al consolidamento della collana per la quale stavo lavorando, sarebbe coincisa col mio esordio in Mondadori, aironfric sarebbe uscito il 23 giugno del 1999, io mi sarei sposato il 10 luglio del medesimo anno e la consegna della traduzione era previsto per fine agosto, capite perché parlo di coincidenze e concomitanze, facendo di me al tempo stesso un nuovo narratore italiano, di quelli che finiscono negli articoli generazionali, un paio di anni prima c’era stato il caso Gioventù Cannibale, tutti cercavano nuovi fenomeni, e anche un traduttore di quelli fighi, che traducono libri di tendenza, mi sembra evidente che la vita aveva in serbo per me altri percorsi e un’altra carriera.

Di fatto ho molto amato David Foster Wallace, al punto da ritenerlo centrale nella mia vita di lettore come in quella di scrittore, è vero che è stato Nanni Balestrini a spingermi a scrivere, ma senza aver incontrato quel racconto dentro Panta- I Nuovi Narratori Americani, Per sempre lassù, nella traduzione di Edoardo Albinati, quello di La scuola cattolica, probabilmente ora farei altro, a voi stabilire se sia andata bene o male, e ho molto amato anche Chuck Palahniuk, il suo essere così provocatoriamente anarcoide pur stando dentro l’estabilishment, il suo scrivere storie poco politicamente corrette, quando ancora si poteva, e soprattutto così disturbanti, e il fatto che entrambi siano nati nel medesimo giorno di sessant’anni fa, uno immagino intento a festeggiare il compleanno tondo che l’altro, per ovvi motivi, non potrà festeggiare, mi lascia colpito.

Mi sono spesso chiesto, e me lo chiedo tutt’oggi, come David Foster Wallace avrebbe raccontato questi due anni folli che ci siamo trovati tutti a vivere. Il suo racconto dell’11 settembre, contenuto nell’antologia Burned Children of America, Incarnazione di bambini bruciati, credo abbia raccontato il giorno in cui caddero le Twin Towers come solo Don De Lillo, con molte più parole, ha saputo poi fare, il non avere il conforto, o anche il fastidio, delle sue parole è una assenza che lascia letteralmente un vuoto, come un vuoto ha in parte lasciato il diradarsi dell’ispirazione di Chuck Palahniuk, lontani i giorni di capolavori come Fight Club, Invisible Monster e lo stesso Survivor, ma mai come oggi credo che tutti dovremmo essere grati a Dio per averci dato due voci dissonanti e meravigliose come le loro, poi che tutto questo vi abbia fatto beccare, inclusa nel prezzo, anche la mia, che dire?, è un effetto collaterale che un buon antistaminico immagino possa far passare in fretta. Auguri, David, auguri Chuck, altri cento di questi giorni.